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Guerra alla Libia, che fare?

Quindici febbraio 2003: decine di milioni di persone in centinaia di città di decine di nazioni nei cinque continenti scendono in piazza a manifestare contro la minaccia anglostatunitense della guerra all’Iraq, condotta con il pretesto delle armi di distruzione di massa che poi non furono affatto trovate.


C’era una volta la seconda superpotenza.
Due giorni dopo le grandi manifestazioni, il New York Times faceva notare che erano rimaste due superpotenze nel mondo: la prima, gli Stati Uniti, la seconda, l’opinione pubblica mondiale (1).
L’Italia in particolare registrò forse le manifestazioni più oceaniche: tre milioni a Roma; uno sbocco delle iniziative dei mesi precedenti, che videro appendere dalle finestre d’Italia svariati milioni di bandiere arcobaleno con la scritta “Pace”.
Lo sgorgare a fiotti del sentimento pacifista non rimase senza conseguenze. Di lì a pochi giorni, i ministri degli Esteri di 22 nazioni arabe incontrandosi al Cairo chiesero a tutti i paesi arabi di evitare qualunque assistenza alle azioni militari. (Non era sempre andata così: nella prima guerra contro l’Iraq nel 1991 furono in prima linea sia l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo sia paesi come Marocco, Egitto e Siria che mandarono truppe).
Comunque, nel 2003 la guerra avvenne, con il milione di morti e i 4 milioni di rifugiati all’estero che ne sono seguiti, da allora a oggi: a George W. Bush l’opinione pubblica mondiale non importava, ovviamente, e nemmeno le pur rilevanti minoranze che scesero in strada negli Usa.
Allo stesso modo non hanno mai fatto presa le azioni popolari di resistenza economica alla guerra: il boicottaggio degli interessi del complesso militar-industriale (come propose la campagna “Boycott Bush”) (2), il boicottaggio dell’economia del petrolio (3) e perfino del dollaro (4). Azioni che richiederebbero i grandi numeri per fare paura. Sarebbero più efficaci, forse, grandi scioperi generali. Ma fra le azioni di “guerra alla guerra”, mai dal 1991 a oggi i sindacati occidentali  – negli stessi paesi dove sono tuttora forti –  ne hanno dichiarato uno. La guerra non è considerata un motivo abbastanza forte?
Iraq 2003 a parte, nel corso delle altre guerre geostrategiche occidentali succedutesi dal 1991, le piazze sono state molto meno piene e anche lo schieramento di organizzazioni della società civile contrarie alla guerra è stato meno nutrito.

Libia: disinformazione e confusione
Stavolta, in occasione della guerra alla Libia, le piazze sono praticamente vuote e il mondo dell’associazionismo e della sinistra” è diviso fra chi non va oltre un generico no alle bombe e chi si defila perché in realtà fin dall’inizio – si pensi alla Cgil in Italia o ad Attac in Francia  – è stato a favore della no-fly zone, vero cavallo di Troia per i bombardieri, non a caso partiti a poche ore di distanza dalla risoluzione “Onu” (che forse meglio dovremmo definire NatOnu.  
Come mai le piazze sono vuote? Soprattutto per due ragioni. La prima è la confusione fra la rivolta armata (e appoggiata manu militari dalla Nato) in Libia e le “primavere arabe”, disarmate (e non certo appoggiate da armi Nato). L’altra fondamentale ragione è che la propaganda ha fatto un lavoro più certosino del solito, per mascherare le vere ragioni geostrategiche dell’intervento e imbrogliare le carte rispetto alle parti contendenti. Se le bugie di guerra sono state una caratteristica di Iraq 1991, Kosovo 1999, Afghanistan 2011, Iraq 2003, mai come questa volta però sono state un successo, credute da quasi tutti, anche da le persone per tradizione contrarie a interventi armati, anche da gran parte della popolazione araba (che crede ad Al Jazeera, pure di proprietà dell’emiro del Qatar ora in affari con i “ribelli” di Bengasi). E ovviamente anche presso la “sinistra” occidentale. A tal punto che mentre in passato non si considerava “amico di Saddam” o di Milosevic chi si opponeva alla guerra e anzi si separavano nettamente le due tematiche (la natura di un regime e la guerra al regime stesso), nel caso della Libia anche le persone meglio intenzionate replicano: “Ah, certo la guerra della Nato è sporca, ma Gheddafi non è difendibile”. Come se questo fosse il punto nel caso libico (mentre non lo è per un centinaio di paesi al mondo).
Con un’efficace espressione, Lucio Caracciolo (5) ci fa notare che questa guerra sarà ricordata come “il collasso dell’informazione”: una campagna militare è iniziata sulla base di notizie manipolate o completamente false, in uno scenario che non conoscevamo”.  Il fatto che è che per fare la guerra l’Occidente ha bisogno del consenso (Bush meno di Obama, gli europei più di tutti e sempre…). La mistificazione della “protezione dei civili libici” è un mantra ancora più altisonante che per la guerra del Kosovo; altisonante quanto l’altra strategia: la demonizzazione del nemico; adesso l’Hitler è Gheddafi.
In questo contesto la sinistra occidentale si è rivelata più presuntuosa del solito, snobbando sia ogni iniziativa di pace dell’Unione Africana (Ua) e dell’Alleanza bolivariana per le Americhe (Alba), sia perfino dando dell’ignorante a Hugo Chavez per il suo impegno di pace; così ha fatto Immanuel Wallerstein.

Che fare, in pochi? Forse, quel che non si è fatto prima

Mettiamo insieme la natura e l’inefficacia (rispetto all’obiettivo) delle iniziative popolari contro la guerra intraprese nelle varie avventure militari occidentali (con alleati) a partire dal 1991, con la quasi totale assenza di simili iniziative oggi, Libia 2011, per riflettere sull’eterna domanda che Lenin prese in prestito da Bondarev: “E dunque che fare?”.  Le sparute truppe degli oppositori alla guerra, di chi si è abbastanza informato per non cadere nella propaganda, cosa potranno mai fare per riuscire a essere utili là dove le piazze piene di pacifisti e le “bandiere per la pace da tutti i balconi” (un bel business alla fine!) hanno fallito?
1. Un’azione certo necessaria è la ricerca della verità. Smantellare con tutti i canali a disposizione l’apparato di bugie nelle quali la guerra Nato si avvolge come in una dorata confezione che nasconde il marciume. Bugie circa le ragioni vere della guerra, gli atti del nemico (enfatizzati o inventati), gli effetti collaterali dell’intervento armato (minimizzati)  e atti dell’alleato locale di turno (ignorati). Nel 1991 nacque in Italia il “Comitato Golfo per la verità sulla guerra”. Nel 2001 nasce rispetto alla guerra in Afghanistan il body count, il conto delle vittime civili del professore statunitense Marc W. Herold.  Il 9 settembre 2001 nasce in Canada il sito Global Research, successivamente nel 2006 la sua versione francese Mondialisation; via via le traduzioni in molte lingue (6).  Gli scenari innescati nel 2001 dalla “lotta al terrorismo” fanno di questi siti un riferimento rispetto alla “ricerca della verità” NEL nuovo ordine mondiale e NElle guerre, in un’era di disinformazione.  Infine nel 2011 nasce a Tripoli la Fact Finding Commission, un gruppo di persone di vari paesi che cerca di indagare sulla verità.

Riuscire a smantellare coram populo il castello di bugie metterebbe davvero una pietra negli ingranaggi bellici. In tanti, attivisti, media indipendenti, ricercatori lo stanno facendo. Ma come mai non si riesce a essere efficaci come i blog e i twit e i facebook delle proteste arabe? Sarà perché la verità in questo caso è ancora più scomoda? E però, l’azione di informazione dovrebbe essere coram populo, non di nicchia. Nel 1924 il pacifista, socialista anarchico tedesco Ernest Friedrich (disertore nella Prima guerra mondiale, poi fondatore a Berlino del Museo antiguerra ed esiliato da Hitler) pubblicò un fondamentale e scioccante testo fotografico sul vero volto della guerra, con orrende immagini di vittime (anche i vivi, con il volto spazzato via da granate, o mutilati) e sotto ogni immagine brevi didascalie in varie lingue. (7) La sua intenzione era prevenire future guerre. Il libro uscì in vari paesi. Ma sappiamo come andò nel mondo.

2. E le azioni dirette che bloccano le basi militari come bloccano le discariche? Più dei blitz, conterebbe la presenza continuativa in loco. Il presidio. La potenza del tenere la piazza in tanti e a lungo sembra ben maggiore delle adunate oceaniche che tornano a casa dopo poche ore; così sembrano mostrare gli eventi in Tunisia ed Egitto (i quali peraltro rischiano di essere tarpati e deformati dall’intervento Nato nell’area). Ma…in democrazia funzionerebbe lo stesso? E poi: ci sono le persone disposte a sacrificare tanta parte del loro tempo e dei loro confort per accamparsi in piazza? Per non dire degli scioperi. Mai un sindacato occidentale, in queste cinque guerre in un ventennio, ne ha proclamato uno generale: la guerra non è una ragione abbastanza importante, vero?

3. Un altro strumento può essere quello della provocazione. Cittadini occidentali di paesi belligeranti che da dentro la fortezza si appellano a governi di paesi terzi, non belligeranti. Una provocazione messa in atto intanto in Italia da “Rete No War” e da “Statunitensi contro la guerra” che si presentano alle ambasciate dei paesi membri (permanenti e non) del Consiglio di Sicurezza non impegnati a bombardare la Libia e a quelli si appellano affinché nel corso della prossima relazione del Segretario generale sull’attuazione della risoluzione 1973 “ a difesa dei civili libici”, si oppongano al protrarsi del suo uso truffaldino e ne chiedano la revoca, impegnandosi ad appoggiare una soluzione negoziale che ponga al centro l’Unione Africana.  Se per ipotesi un’azione simile fosse realizzata, anche da pochi attivisti ma in molti paesi, qualche effetto di sensibilizzazione potrebbe sortirlo.

4. Infine, esiste lo strumento delle petizioni internazionali. In questo caso si tratterebbe di mandare dai quattro angoli del mondo email ai membri non belligeranti del Consiglio di Sicurezza, direttamente all’indirizzo della loro missione presso l’Onu, a New York. Nel caso di tematiche più circoscritte, funziona. Per una guerra sarà molto più arduo. In ogni caso tentar non nuoce; nella nota (8) alcuni indirizzi.

5. Certamente utile sarebbe boicottare le ragioni economiche delle guerre: vivere, individualmente e collettivamente, in modo tale da non rendere necessari i conflitti per le risorse e lo sfruttamento di quelle altrui. Un modello di produzione e consumi ecologico ed egualitario, una cultura altra e solidale non avrebbero bisogno di guerre. Ma questo richiede l’impegno quotidiano dei grandi numeri. Fuori discussione per ora.

Note
1. http://www.nytimes.com/2003/02/17/world/threats-and-responses-news-analysis-a-new-power-in-the-streets.html
2. www.boycottbush.net
3. Da un anonimo volantino rosa diffuso alla viglia della guerra del 2003: “Quanti chilometri fa la tua automobile con un iracheno? Diserta la guerra per il petrolio, uso la bici”.  V. anche l’appendice “La guerra e i movimenti” di Marinella Correggia ne La guerra del petrolio. La posta in gioco in Iraq e dietro l’asse del male, di Michele Paolini, Altreconomia 2003.
4. “US Dollar Hegemony: the Soft Underbelly of Empire (and what can be done to use it!)”, Rohini Hensman e Marinella Correggia, http://www.sacw.net/free/rohini_marinella30012005.html
5. V. https://www.contropiano.org/it/archivio-news/documenti/item/744-il-collasso-dellinformazione
6. www.globalresearch.ca; www.mondialisation.ca
7. Ernest Friedrich, Guerra alla guerra, Oscar Mondadori, Milano 2004.
8. INDICAZIONI PER L’APPELLO AI MEMBRI DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA. Ecco le email di alcuni membri non belligeranti del Consiglio di Sicurezza (Cina, Russia, India, Portogallo, Libano, Germania, Brasile, Bosnia, Gabon). Meglio ancora scrivere a nome di un’associazione o gruppo, con relativo logo. ChinaMissionUN@Gmail.com; rusun@un.int; India@un.int ; portugal@un.int; ; info@new-york-un.diplo.de; siumara@delbrasonu.org‘; bihun@mfa.gov.ba; ; colombia@colombiaun.org‘; waneg@africa-union.org‘, pmun.newyork@dirco.gov.za;perm.mission@nigerdeleg.org and perm.mission@nigerdeleg.com;aumission_ny@yahoo.com;chinesemission@yahoo.com; dsatsia@gabon-un.org,portugal@missionofportugal.org;delbrasonu@delbrasonu.org

(questi due ultimi sono dell’Unione Africana, utile che lo sappiano). Si può inoltre scrivere al loro sito: http://au.int/en/dp/ps/contact. Per la Nigeria scrivere al sito: http://www.nigeriaunmission.org/index.php?option=com_contact&view=contact&id=2&Itemid=53 . Per il Sudafrica all’Onu è disponibile solo il telefono: 001-212-2135583.  Nell’oggetto si potrebbe indicare “From Italy: Stop Nato War in Libya! Appeal to non-belligerant members of the UN Sec. Council”.

Nel corpo del messaggio si potrebbe scrivere, nella lingua franca ormai universale:

DEAR AMBASSADOR, WE APPEAL TO THE NON-BELLIGERANT  MEMBERS OF THE U.N. SECURITY COUNCIL, when the Secretary-General presents his next Report on the application of Resolution no. 1973
– to put an end to the misuse of that Resolution by revoking it
– to press for a peaceful resolution of the conflict in Libya (African country), with the African Union playing a central, legitimate role. Thank you, seguono nome e indirizzo e data.

Chi per brevità vuole ricevere il modulo al quale aggiungere solo nome e indirizzo per fare inoltra scriva a: mari.liberazioni@yahoo.it

* Radio Città Aperta

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