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L’imbroglio del referendum lombardo-veneto

Le stesse forze politiche che, contrapposte, si candidano al governo del paese e che si scontrano sulla nuova legge elettorale, sostengono unanimi i referendum per l’autonomia che si terranno in Lombardia e Veneto il 22 ottobre.

Non è vero dunque che le due consultazioni siano un puro patrimonio leghista, anche se così vengono presentate. In Lombardia il referendum è stato approvato da tutto il centrodestra e dai cinque stelle. Il Partito democratico, inizialmente contrario, ha poi cambiato posizione: il sindaco Sala di Milano, il futuro candidato alla regione ora sindaco di Bergamo, Gori, insieme a tanti altri si sono pronunciati per il SI.

Nel Veneto il PD si è astenuto sul referendum, poi ha dato indicazione per il SI, tutte le altre formazioni politiche hanno la stessa posizione dei loro omologhi lombardi. In sintesi in Lombardia e Veneto Renzi, Berlusconi, Di Maio e persino Meloni, almeno tramite i loro referenti locali, sono d’accordo con il referendum di Salvini, Maroni e Zaia. È l’unità regionale totale. Che ora il PD vorrebbe estendere anche in Emilia Romagna ed in Puglia, con analoghe consultazioni.

In Lombardia e Veneto le sole voci fortemente contrarie vengono dalla sinistra non rappresentata nei parlamentini regionali, da movimenti sociali, da sindacati di base come USB, voci troppo flebili per rompere la monotonia di una campagna elettorale inquietante, dove è in campo solo il SI sostenuto con ingenti finanziamenti dalle istituzioni regionali.

Ma se sono tutti d’accordo i principali schieramenti politici delle due regioni, a che serve il referendum? La domanda ha una risposta scontata da parte dei presidenti regionali: il voto serve a far contare il popolo. É vero? Assolutamente no.

I due quesiti referendari non fanno domande precise, le uniche sulle quali il pronunciamento popolare potrebbe davvero decidere e contare. Avete presente il nostro referendum costituzionale, quello sulla Brexit, quello greco sul memorandum della Troika, quello sulla indipendenza della Catalogna? Ecco, quelle consultazioni con il voto del Lombardo-Veneto non c’entrano nulla. Quelli sono stati pronunciamenti con domande chiare che esigevano altrettante risposte chiare; e infatti la politica poi ha fatto molta fatica a reggere il responso popolare, anzi a volte lo ha rinnegato proprio.

Questo rischio, per i referendum sull’autonomia, non si corre: essi non chiedono nulla e quindi, quale che sia, la risposta popolare ad essi nulla conterà. Per quelle forze politiche italiane abituate a tradire i propri programmi un minuto dopo averli varati, questo voto è perfetto. Tutti impegnati senza veri impegni.

Il quesito veneto è semplicissimo: volete più autonomia? Quello lombardo, evidentemente frutto di qualche consulenza giuridica più meditata, accenna al rispetto dell’unità nazionale, della Costituzione e esplicita la richiesta di maggiori risorse.

Quali? Qui c’è l’ imbroglio.

L’Italia ha il fiscal compact, quello che Renzi e Salvini dicono di voler cambiare, direttamente inserito nella Costituzione. La modifica dell’articolo 81 è un atto devastante della nostra democrazia, compiuto quasi alla unanimità dal parlamento precedente a quello attuale. Assieme alla costituzionalizzazione dell’austerità ci sono poi il patto di stabilità che distrugge l’autonomia di spesa degli enti locali e il controllo diretto della UE sui bilanci pubblici.

Come si fa a chiedere più autonomia per le regioni, se tutto il meccanismo di governo imposto dalla austerità europea nega ogni libertà di spesa a tutte le istituzioni della Repubblica?

Maroni e Zaia sono al governo delle due regioni più ricche del paese, che assieme hanno un quarto della popolazione. Immaginate una loro iniziativa istituzionale per cancellare il fiscal compact e il patto di stabilità. Questa sì che avrebbe bisogno del consenso del popolo, proprio perché si tratterebbe di imporre allo Stato una diversa politica economica, anche in conflitto con i vincoli UE.

Ma la Lega nord e tutte le principali forze politiche italiane sono oggi “europeiste”. Meglio quindi chiedere una autonomia che in realtà non è permessa a nessuno, meglio fare domande che non vogliono dire nulla nel sistema economico governato dalla troika. Meglio un referendum finto che impegnarsi davvero in un conflitto col potere centrale. Questo si fa sui venti migranti ospitati a San Colombano, non sulle spese per lo stato sociale.

I referendum lombardo e veneto non propongono alcuna revisione reale delle spese dello Stato e delle regioni, alludono soltanto a più soldi al nord e meno al sud; ma anche in questo imbrogliano, perché con il vincolo europeo di bilancio – che Maroni e Zaia accettano – neanche una redistribuzione iniqua delle risorse potrebbe essere fatta. Si taglia dappertutto e basta.

Dunque il quesito sull’autonomia è fasullo, però dietro di esso se ne nasconde uno vero, che non a caso ha raccolto grande consenso nel mondo imprenditoriale. La domanda nascosta è: visto che l’austerità istituzionale vincola rigidamente il bilancio della regione, possiamo riconquistare autonomia privatizzando?

Trasporti, servizi sociali, istruzione e soprattutto la sanità nelle due regioni a guida leghista sono sempre più regalati al mercato. I milioni di malati cronici della Lombardia saranno affidati ad un gestore privato che avrà il compito di amministrare le loro cure, naturalmente trovando il modo di farci profitti. In Veneto l’appalto ai privati della costruzione e della gestione di uno dei più grandi ospedali della regione è diventato un bengodi senza precedenti per gli affari. La regione Lombardia è più sollecita della ministra Fedeli nell’offrire alle aziende il lavoro gratis degli studenti nell’alternanza scuola lavoro.

Il “Si” chiesto da Maroni e Zaia serve dunque prima di tutto a questo: ad approvare la connessione sempre più stretta tra politica ed affari e la privatizzazione dello stato sociale e dei servizi pubblici, ove Lombardia e Veneto sono all’avanguardia.

I due referendum autonomisti sono un imbroglio a diversi strati di inganni, il cui solo scopo è creare consenso al sistema di potere che governa le due regioni più ricche d’Italia. Che tutte le principali forze politiche delle due regioni siano d’accordo, è solo un ulteriore segno del degrado della nostra democrazia.

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