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12 anni per salvare il pianeta, dal capitale

Il Santuario Internazionale per i Mammiferi Marini è un’area protetta internazionale istituita nel 1999 grazie ad un accordo tra Italia, Francia e Principato di Monaco, con il quale i tre Paesi firmatari si impegnavano a tutelare i mammiferi marini ed il loro habitat. Si tratta di una superficie marina a nord del Mar Tirreno di 96.000 ettari a forma di quadrilatero, che si estende attorno alle isole dell’Arcipelago Toscano. Ieri l’altro, al largo della Corsica, a causa della collisione tra due navi avvenuta a circa 14 miglia da Capo Corso,  la fuoriuscita di carburante ha prodotto una chiazza che si è estesa in mare per circa 20 chilometri quadrati, che minaccia di estendersi fino a 100 km e che sta avvelenando quell’ecosistema marino fantastico. Quella chiazza, per effetto delle correnti, potrebbe dirigersi, ora, verso le coste della Toscana.

Secondo il  rapporto dell’IPCC(Intergovernmental Panel on Climate Change), ovvero, del Gruppo Intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico  dell’ONU,  non ci sono più dubbi, né sulle dimensioni del disastro che si va costruendo giorno dopo giorno, né sui suoi limiti temporali. Gli scienziati dell’IPCC sono giunti alla conclusione che la temperatura media del decennio 2006-2015 è cresciuta di 0,87° (con un intervallo tra 0,77 e 0,97) rispetto al decennio pre-industriale (1850-1900). Dato che le emissioni antropogeniche (gas ad effetto serra, aerosol e annessi) hanno un incidenza pari a +0,2° per ogni decade, l’incremento di 1,5 gradi della temperatura terrestre dovrebbe manifestarsi a partire dal 2030.  Ma se questa tendenza in atto non viene invertita e se entro i prossimi 12 anni la temperatura media della terra dovesse  davvero aumentare di 1,5 gradi, secondo i modelli esaminati dagli scienziati dell’ONU, la  catastrofe sarebbe totale e potrebbe non esserci più un futuro per i nostri figli. Inondazioni, siccità, tsunami ed uragani aumenterebbero in modo esponenziale aggiungendosi alle altre devastazioni ambientali provocate dalle potenze occidentali nei paesi più poveri e causerebbero conflitti e guerre con conseguenti spostamenti di moltitudini gigantesche alla disperata ricerca luoghi più sicuri.

Chi, da qualche anno, sta lucrando politicamente contro le migrazioni in atto non sa – o non ha interesse a sapere – che ciò che chiama abusivamente “invasione”, in confronto a ciò che potrebbe accadere entro il prossimo decennio, non è altro che un modestissimo fenomeno che potrebbe essere gestito tranquillamente con un po’ di buon senso, serietà e, soprattutto, di umanità. Ma tant’è.

I limiti indicati dall’IPCC sono strettissimi e le conseguenze dei fenomeni in corso incalcolabili. In buona sostanza, gli obiettivi fissati dal recente accordo di Parigi del febbraio 2016( COP 24), che pareva lo spartiacque che separava l’era dei combustibili fossili da quella delle energia pulite, non bastano. Secondo le conclusioni del rapporto dell’IPCC “accontentarsi” di fermare la rapida avanzata in atto del  riscaldamento globale sotto i 2 gradi (ma solo a partire dal 2020) non appare più sufficiente ad evitare le conseguenze  catastrofiche che già si stanno manifestando in tutta la loro drammatica portata in ogni angolo della terra. La soglia, insomma, di 1,5 gradi assunta come obiettivo dalla Conferenza di Parigi, nel febbraio del 2016, secondo gli esperti dell’ONU, coinciderebbe con il definitivo ed irreversibile disastro del pianeta terra.

Ma nonostante il drammatico appello del Gruppo Intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico dell’ONU, non si sono viste né sentite, fin qui,  da parte dei governi dei paesi che inquinano di più, reazioni e/o dichiarazioni all’altezza della drammatica situazione descritta dagli esperti ONU. La folle corsa verso l’apocalisse che Trump e soci sembrano voler perseguire a tutti i costi ostacolando ogni tentativo di invertire la tendenza in atto sulla base di strampalate posizioni negazioniste,  sembrerebbe, dunque, inarrestabile e pare proprio, al momento, non avere avversari seri e determinati. Anzi.

Il fatto è che la differenza tra Trump e gli altri, nella sostanza, quasi non esiste né potrebbe esistere, dal momento che anche i governi delle altre potenze appaiono totalmente succubi nei confronti delle potenti corporations che incuranti di qualsiasi allarme passato e presente,  con l’avallo tanto delle istituzioni internazionali, quanto dei governi locali, diabolicamente, perseverano nel distruggere meravigliosi ecosistemi, su cui intere comunità fondano il proprio stile di vita e la propria sopravvivenza, per continuare ostinatamente ad estrarre combustibili fossili mentre petrolio e gas sono stati e sono ancora al centro di troppe guerre passate e di quelle ancora in corso da cui fuggono milioni di esseri umani in cerca di salvezza.

Le concezioni marxiste tradizionali del cambiamento come conseguenza dello “sviluppo delle forze produttive” hanno certamente contribuito alla deriva produttivista ed industrialista di ciò che resta della vecchia sinistra tradeunionista che ancora si illude(o vuole illuderci) di poter riconquistare margini redistribuitivi  soltanto attraverso la continua crescita del Prodotto Interno Lordo(PIL) e di un sistema economico fondato sullo sfruttamento infinito delle risorse naturali e sulla sistematica distruzione degli  ecosistemi. Peraltro, quella che tutti i giorni ci viene descritta come una crisi finanziaria che avrebbe contaminato la sfera reale dell’economia, in realtà, altro non è che una crisi da sovrapproduzione di merci. E allora perchè non fermarsi per chiederci finalmente cosa, come e quanto possiamo ancora produrre? A quel punto saremmo costretti a riconoscere che un cambiamento reale che fermi questa corsa a folle velocità verso l’autodistruzione del pianeta non può che passare da un cambio radicale di sistema.

Uno dei primi marxisti del XX secolo a porsi questo tipo di questioni fu Walter Benjamin. In un testo del 1928, “Sens Unique”, denunciava l’idea di dominio della natura come “un insegnamento imperialista” e proponeva una nuova concezione della tecnica come “padronanza del rapporto tra la natura e l’umanità”. Alcuni anni dopo, nelle Thèses sur le concept d’histoire, si proponeva di arricchire il materialismo storico con le idee di Fourier, il visionario utopista che aveva sognato “di un lavoro che lungi dallo sfruttare la natura, è capace di fare sorgere da essa le creazioni che dormono nel suo seno” [1].

James O’Connor( 1930-2017), marxista,  professore emerito di sociologia ed economia alla University of Santa Cruz in California, fondatore della storica rivista Capitalism Nature Socialism , già nel 1988, nella sua introduzione al primo numero della rivista, osservava come, nonostante l’ambientalismo costituisse uno dei più importanti movimenti sociali sia negli Stati Uniti sia negli altri paesi, e nonostante la crisi ecologica avesse  ormai raggiunto il mondo intero, i marxisti e i socialisti avevano fatto “ pochi e deboli tentativi per dare una spiegazione teorica coerente di questi fatti»[2].

Per James O’Connor, Marx ed Engels avevano dimostrato come e perché il conflitto sociale nel capitalismo ha assunto la forma di lotta fra capitale e lavoro (non solo sul mercato ma anche nella produzione) fra capitali singoli e fra tutti i capitali nel processo capitalistico chiamato Accumulazione competitiva”. ” Cento anni dopo, gli storici sociali e culturali – marxisti e non (del femminismo, dei gay e delle lesbiche, delle realtà locali) – hanno allargato il concetto originale di Marx ed Engels, fino ad includere i conflitti sociali nella sfera della riproduzione, mostrando ad esempio che le forme tradizionali di vita scompaiono di fronte al lavoro salariato e alla <invasione> del mercato. Lo studio dell’impatto della soddisfazione mercificata dei bisogni ha finalmente portato allo studio dei modelli di consumo: l’universalizzazione dell’automobile, lo sviluppo delle periferie ai bordi delle megalopoli, la lontananza fra luoghi di residenza e luoghi di lavoro, il tempo libero e via di seguito. Sono ormai entrati nell’analisi degli storici l supermercati, i mezzi di comunicazione di massa e la TV, e altri aspetti della vita sociale e culturale del tardo capitalismo, come le culture etniche e di transizione, “dove tutto quel che era solido, si scioglie in aria” [3]

A James O’Connor si deve l’introduzione delle nota teoria della  “seconda” contraddizione, quella tra capitale e natura, seconda rispetto alla prima, quella tra capitale e lavoro – seconda perché emerge dopo la prima in senso temporale, senza tuttavia sostituirla.[4]

Nel 2001 venne  pubblicato il primo “Manifesto Ecosocialista” ad opera di Joel Kovel e Michael Löwy. Quel documento partiva dalla premessa che le crisi sociali ed ecologiche in atto sono prodotte dalla stessa causa: il capitalismo, il quale agisce in modo egualmente distruttivo sulla natura e sull’uomo. Sulla natura, in quanto, nella sua costitutiva necessità di crescita ed accumulazione infinita, il sistema capitalistico distrugge gli ecosistemi e le risorse naturali del pianeta. Sull’uomo, poiché riduce la maggior parte della popolazione mondiale a mera riserva di forza lavoro, mentre annienta le capacità di resistenza delle comunità tanto con la violenza quanto mediante l’imposizione di modelli individualistisci improntati ad un consumismo sfrenato.  Joel Kovel e Michael Löwy denunciavano, senza mezzi termini, il  nesso causale inscindibile tra  devastazione ambientale e dinamica di “crescita” infinita indotta dall’espansione capitalista:”Crescita esponenziale dell’inquinamento dell’aria nelle grandi città, dell’acqua potabile e dell’ambiente in generale; riscaldamento del pianeta, inizio di scioglimento dei ghiacci polari, moltiplicazione delle catastrofi “naturali”; inizio di distruzione dello strato di ozono; distruzione a velocità crescente delle foreste tropicali e rapida riduzione della biodiversità con l’estinzione di migliaia di specie; esaurimento dei suoli, desertificazione; accumulazione di rifiuti, in particolare nucleari, impossibili da smaltire; moltiplicazione degli incidenti nucleari e minaccia di una nuova Cernobil; inquinamento degli alimenti, manipolazioni genetiche, “mucca pazza”, carne agli ormoni. Tutti i segnali di allarme segnano rosso: è evidente che la folle corsa al profitto, la logica produttivistica e mercantile della civiltà capitalista/industriale ci porta a un disastro ecologico dalle proporzioni incalcolabili. Non è cedere al “catastrofismo” constatare che la dinamica di “crescita” infinita indotta dall’espansione capitalista minaccia di distruzione le fondamenta naturali della vita umana sul pianeta. ” [5]

Dunque, è del tutto illusorio attendersi che sia il capitalismo stesso a generare efficaci meccanismi di regolazione e di autolimitazione.  Altrettanto illusorio è continuare ad immaginare che il capitalismo, proprio in quanto sistema economico-sociale fondato sul dominio sfrenato e spietato dell’uomo sulla natura e dell’uomo sull’uomo, possa essere in grado di trovare soluzioni alle crisi che esso stesso crea incessantemente. In altre parole, non si può chiedere al lupo di salvare le pecore. Non esiste un “capitalismo sostenibile” perché il capitalismo è, per sua stessa natura e definizione, insostenibile ed incompatibile  con quei noti “limiti dello sviluppo” indicati nel famoso  Rapporto commissionato al MIT (Massachussetz Institute of Technology) dal Club di Roma, nel lontano  1972[6] .

[1] Walter Benjamin, Sens Unique, Paris, Lettres Nouvelles – Maurice Nadeau,1978, p.243,  “ Thèses sur la philosophie de l’histoire, in : L’homme , le langage et la culture, Paris, Denoël, 1971, p. 190 (trad. it: Sul concetto di storia, Einaudi, To, 1997);

[2] James O’Connor Capitalism Nature Socialism, n.1/ 1988  in Capitalismo Natura e Socialismo n.1/1991;

[3] James O’Connor, Natural Causes. Essays in Ecological Marxism, Guilford, New York ed Oxford 1998;

[4] ]ames O’Connor, La seconda contraddizione del capitalismo: cause e conseguenze, Capitalismo Natura Socialismo n. 6/1992;

[5] Joel Kovel e Michael LöwyThe Enemy of Nature. The end of capitalism or the end of the world?, New York, Zed Books, 2002;

[6] Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens III “Rapporto sui limiti dello sviluppo”, 1972.

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