Giovedì il Parlamento europeo ha approvato con 535 voti a favore, 66 contro e 52 astenuti la mozione di condanna dell’uso dei simboli del comunismo, chiedendo la rimozione dei monumenti che in molti paesi europei celebrano la liberazione avvenuta ad opera dell’Armata Rossa ed equiparando il comunismo al nazifascismo. A favore della mozione hanno votato le destre, i liberaldemocratici di sinistra e di centro.
In risposta a questo atto che intende cancellare dalla memoria condivisa quello che probabilmente fu il punto di svolta più importante del così detto “secolo breve” e della recente storia europea, riproponiamo un bellissimo articolo di Luigi Pintor pubblicato su Il Manifesto del 10 Dicembre 1999.
Oggi, magari, la redazione attuale di quel giornale storcerebbe il naso…
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Ho visto recentemente in televisione un documentario sull’invasione tedesca dell’Unione Sovietica e sulla tragedia del corpo di spedizione italiano sul Don. Belle testimonianze di sopravvissuti, immagine epiche e dolorose. Penso che bisognerebbe raccogliere e proiettare tutto il materiale relativo alla guerra sul fronte orientale, compresi i film di propaganda: lì è andato in scena il più grande spettacolo del mondo e lì sta la chiave della storia del nostro secolo.
Ho pensato, guardando le immagini sconnesse di quel documentario e ascoltando il commento parlato, che soltanto chi ha più di settant’anni conserva una memoria diretta di quel tempo. E’ un’avventura ma un grande privilegio. Tutto quello che io so, per poco che sia, l’ho imparato in quei due o tre anni. E la menzogna in cui oggi siamo immersi e in cui vivono le giovani generazioni suona alle mie orecchie come un insulto a cui è vano opporre la memoria individuale.
Tutto era perduto in quei giorni ed anni, le democrazie europee erano crollate sul campo come carta pesta, le armate corazzate del terzo Reich e le croci uncinate dilagavano sul continente e oltre senza colpo ferire, il fascismo e il terrore non conoscevano più ostacoli.
Meno uno, il solo al di qua dell’Atlantico e dei mari del nord e del sud: uno strano paese che aveva fatto una sua rivoluzione solitaria, che oggi è piombato nella corruzione e nella decadenza ed è in guerra con se stesso, ma allora si alzò in piedi come un gigante che spezza ogni catena. Dirà qualche anno più tardi nell’aula del parlamento italiano un esponente del governo di allora: di certo Stalin è stato un uomo su cui Dio ha impresso la sua impronta.
Metafisica a parte, come saranno usciti dalle acciaierie oltre gli Urali quei cannoni e quei carri pesanti capaci di respingere e di frantumare la macchina da guerra tedesca? Come avranno fatto quei contadini ucraini, quegli operai leningradesi, quegli uomini di marmo di ogni provincia, quei giovani tartari, uzbeki, mongoli, ceceni, a formare un solo grande esercito per salvare la propria terra e la nostra? Come ha potuto quella guerra patriottica, senza i Kutuzov e i Tuchacevsky, saldarsi con l’antifascismo mondiale e l’ideale di libertà di ogni popolo? Come fu possibile trarre questa forza da molte privazioni e sofferenze sotto un regime rozzo e sprezzato dai posteri?
C’era qualcuno, forse, che aveva visto più lontano degli altri. Il comunismo ci ha rimesso, ma noi no e forse dovremmo ringraziare. Prima ringraziare e poi revisionare e anche ribaltare la storia: tanto è lontana mille anni e nessuno può eccepire. Vicino a Mosca commemorano ogni tanto una battaglia dell’età napoleonica mimandola sul terreno, e c’è anche un museo scenografico che la fa rivivere agli spettatori come ne fossero i protagonisti. Ma sulle sponde del placido Don non c’è, che io sappia, nessuna Disneyland che onori la più grande vittoria militare del ventesimo secolo.
* dal blog Cronache dall’impero, di Sergio Scorza
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