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Ancora su “Rocco e i suoi fratelli”

Ho letto con interesse le brevi note su “Rocco e i suoi fratelli” scritte da Marco Montanarella e pubblicate su “Contropiano” qualche tempo fa.
Stimolato dalle osservazioni di Marco, ho pensato di aggiungerne alcune anche io.
Parto dalle conclusioni e vado a ritroso. Marco scrive: “ Il romanzo popolare di Visconti passa quindi attraverso il dolore, ma conclude con una nota di speranza, quella che il regista vedeva nell’organizzazione di classe e nella presa di coscienza, attraverso le quali le marginalità migranti di allora potevano riscattarsi.”
Questa interpretazione ha sicuramente delle basi solide. Nel finale del film Ciro, il fratello di Rocco – simbolo dell’integrazione voluta – è protagonista di un discorso a Luca di tipo progressista ( “qua invece tutti hanno da campà senza essere servi degli altri e senza scurdarsi mai i propri dovei” “certi dicono che il mondo accussì fatto non sarà un mondo migliore, ma io invece ci credo..”) e questo diede motivo a molti, sopratutto appartenenti al P.C.I, di salutare il film come un inno al progressismo e alla convinzione che vi fosse un roseo futuro, fondato sulla classe operaia (cui Ciro apparteneva). 
Vi è però un’altra interpretazione (che mi sento di condividere) che ritiene che vi sia un pessimismo di fondo nel finale di Rocco. Il film infatti si chiude con “la macchina da presa che segue Luca che si allontana, poi si ferma e lo perde nella profondità del campo. Restano una strada, un’aiuola spartitraffico con alcuni lampioni e-sullo sfondo-un gruppo di squallidi e anonimi caseggiati. Non c’è nessuna presenza umana in campo, anche tre operai che attraversano la strada escono di scena sulla strada. Luca è lontano, lontanissimo, quasi invisibile. Ad un certo punto non lo si vede praticamente più”.[1]
Qual è il punto, allora? Il fatto è che Visconti si fa fautore di quella poetica chiamata del “Cinema antropomorfico”: “L’esperienza fatta-scrive Visconti nel ’43-mi ha soprattutto insegnato che il peso dell’essere umano, la sua presenza, è la sola cosa che veramente colmi il fotogramma, che l’ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa ad un aspetto di non animata natura.” In tutto il film Visconti rispetta questa poetica, tranne in una, vistosa, eccezione: il finale, per l’appunto. “Come se Visconti avesse scelto di chiudere il film utilizzando, per la prima volta,malinconicamente, un’inquadratura che non ha più nella figura umana la propria unità di misura. Cioè, tendenzialmente, un’inquadratura vuota”[2].
L’integrazione, insomma, passa per quella che, seguendo Pasolini, potremmo chiamare omologazione e il pessimismo di Visconti deriva dal fatto che egli, progressista e decadente al tempo stesso, non può che constatare l’impossibilità di conciliare l’utopia del progresso con l’ideale decadente della bellezza.
Se è vero che il finale apre la strada al successivo decadentismo di Visconti, la cui poetica da lì in poi vedrà prevalere il versante estetizzante e borghese che gli varrà la qualifica di “duca arredatore”[3], il film è comunque di estremo interesse anche per chi, come noi, guarda alla realtà con un’ottica di classe.
In particolare la pellicola mostra in maniera meravigliosa lo scontro fra la cultura, la morale (insomma le istituzioni) arcaiche della famiglia Parondi e le moderne istituzioni capitalistiche del mondo di Milano.
Marx e Engels nel “Manifesto” scrivono: “La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, dunque i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. La prima condizione di esistenza di tutte le precedenti classi industriali era invece la conservazione immutata del vecchio modo di produzione. L’ininterrotta trasformazione della produzione, il continuo sconvolgimento di tutte le istituzioni sociali, l’eterna incertezza e l’eterno movimento distinguono l’epoca della borghesia da tutte le epoche precedenti. Vengono quindi travolti tutti i rapporti consolidati, arrugginiti, con il loro codazzo di rappresentazioni e opinioni da tempo in onore. E tutti i nuovi rapporti invecchiano prima di potersi strutturare. Tutto ciò che è istituito, tutto ciò che sta in piedi evapora, tutto ciò che è sacro viene sconsacrato, e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con sobrietà il loro posto nella vita, i loro rapporti reciproci”.[4]
Questo è “Rocco e i suoi fratelli”! Da questo punto di vista il titolo di Marco (“le fauci di Milano”) è azzeccatissimo. Nel film si mette a confronto la moderna e tentatrice società dei consumi e il mondo arcaico del Meridione (che Visconti vedeva tramite le lenti dei “Malavoglia” di Verga, a cui il film viene ispirato). L’effetto è letale e porta ad uno scontro fratricida. Simone prima stupra e poi uccide la donna che suo fratello Rocco amava. Ma Rocco – nonostante le insistenze di Ciro (il fratello integratosi nella nuova societò) non può e non riesce a denunciare il fratello perché difensore,o costretto tale, poco cambia,delle ragioni arcaiche della famiglia.
Ma non c’è speranza per i vecchi valori: la polizia scopre Simone e lo arresta.
A mio parere è questo scontro tragico, più che il finale, il vero lascito del film di Visconti.


[1]             Gianni Canova, Visconti e le aporie anestetiche della modernità, in Veronica Pravadelli a cura di, Il cinema di Luchino Visconti,editore Biblioteca di Bianco & Nero, distrubuzione Ed. Marsilio, Venezia, 2000.

[2]             Canova, ibidem.

[3]             Alessandro Bencivenni, Luchino Visconti, pgg 43-50 Editrice Il Castoro, Milano, 1994.

[4]     Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1847.

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