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Intolleranza e disattivazione politica. Le democrazie “off shore”

L’intolleranza verso il dissenso costituisce una delle principali manifestazioni della crisi della politica di oggi, che ostacola la possibilità di azione collettiva, nega lo spazio per la mediazione tra le istituzioni e il popolo e impedisce poi ai settori sociali di rappresentarsi come agenti della propria storia (Balibar, 2016 ). In questo senso, la stessa nozione di cittadinanza è “sotto attacco e ridotta all’impotenza”, mentre i sistemi democratici assumono una forma “pura”, cioè diventano capaci di affrontare esclusivamente la propria logica e i meccanismi della propria riproduzione (ibid : 12).  individui e gruppi, di conseguenza, vengono espulsi dal loro posto nel mondo (Sassen, 2014).

Mentre riducono le opportunità di forme di azione partecipativa, le democrazie contemporanee espandono allo stesso tempo la sfera della delegazione. Così, il processo elettorale diventa sempre più influenzato da interessi privati espressi attraverso l’iniziativa di donatori e di lobbisti. Sollecitare delle tangenti si dice ora “raccolta fondi” e la corruzione stessa è “il lobbismo”, mentre i lobbisti delle banche determinano o addirittura scrivono la legislazione che dovrebbe andare a regolamentare loro stesse banche”(Graeber, 2013: 114).

Quando la partecipazione è scoraggiata, l’enclave del potere politico e di quello economico diventa sempre più insensibile agli umori e alle esigenze dei cittadini. Ciò va a costituire forme di “democrazia off-shore”, nel senso che le dinamiche che le governano, le procedure dei processi decisionali e la loro stessa capacità di prendere posizioni che interessano tutti sono nascoste all’elettorato. Questo porta ad un processo di disarmo politico dell’elettorato, che cresce impotente, disilluso e, ancora una volta, apatico.

La mancanza di partecipazione segna il declino simultaneo delle deliberative practices “pratiche deliberative”, vale a dire quei processi che conducono alla formazione di opinioni nell’interazione con gli altri. Queste pratiche caratterizzano i movimenti sociali e il modo in cui la loro comunicazione orizzontale produce tolleranza all’altro e l’accettazione della diversità. Il cambiamento delle risposte istituzionali nei confronti dei i movimenti sociali, verso considerare solo i fattori  puramente tecnici, dimostra come questo processo comunicativo sia ostacolato. Alle proteste si sollevano risposte di tipo militare, supportate da tecniche di controllo di folla come il “kettling” o “corralling”. Il primo è una metafora che fa pensare al contenimento dei manifestanti come al contenimento del calore e del vapore all’interno di un bollitore, e consiste nel racchiudere (sottomettere?)  i manifestanti per soggiogarli  attraverso l’immobilità forzata. Ma per evitare allusioni al confronto militare, tuttavia, si preferisce utilizzare anche il secondo termine (corralling), che fa riferimento alla pratica di racchiudere gli animali e limitare il territorio che occupano. I dimostranti così “accatastati” o “ corrallati “, a cui è negato l’accesso agli alimenti, all’ acqua e ai servizi igienici, sono male assortiti per combattere e sfidare i manganelli o le cariche poliziesche. Spesso, quando cresce la stanchezza dopo che sono circondati da ore,  chiedono solo  di tornare a casa. In alcuni casi, inoltre, il “kettling” si svolge ben prima che la posizione concordata sia persino raggiunta dai manifestanti, che sono bloccati alle stazioni di autobus o treni e a cui è impedito fisicamente di partecipare alla manifestazione. Considerata come violazione dei diritti umani, questa tecnica e il suo corollario militare aumentano il costo della protesta, suscitando sentimenti di ingiustizia e, quindi, a volte rafforzando la disponibilità a partecipare.

Certamente la militarizzazione del controllo della folla è forse una caratteristica costante delle democrazie, che spesso trovano particolarmente difficile riconoscere il diritto di protestare e di mediare con i manifestanti. Questa caratteristica, tuttavia, ha assunto nuova importanza con la trasformazione dello spazio pubblico in spazio privato, per cui i dimostranti sono considerati sobillatori del buon funzionamento del business, nemici dei consumatori che negano il loro “diritto umano” al consumo.

I minacciosi dimostranti farebbero bene a lasciar perdere gli spazi privati, perché essi non contano se non sono né consumatori né forza lavoro. La filosofia di questo cambio si trova nell’idea paradossale che, nei paesi in cui è consentito il dissenso, non c’è bisogno di dissentire: al contrario, in paesi in cui l’opposizione è vietata, tale protesta è giustificata. Quindi è falsa l’affermazione secondo cui il cambiamento di regime, effettuato attraverso l’invasione di paesi non democratici, è mirato a fornire ai propri abitanti il diritto di protestare.

Democrazia deliberativa e trasgressione

È tempo di identificare alcune delle forze sociali che possono temperare i due tipi di radicalizzazione discussi. La repressione riduce la radicalizzazione attraverso l’aumento del costo della partecipazione ad azioni violente? Uno studio che indaga l’effetto di diversi tipi di repressione ha scoperto che chiudere le vie non violente di dissenso aumenta le contestazioni di gruppo e aumenta la partecipazione alla violenza. Prendendo come obbiettivo specifici gruppi violenti, d’altro canto, non si è rivelato alcun effetto discernibile sulla violenza. Lo studio si è concentrato su “modelli di terrorismo” in 149 paesi per il periodo 1981-2006 (Piazza, 2017).

La questione posta fino ad ora è che quando le forme di governo diventano sempre più elitiste, e i circoli e le reti di potere diventano impermeabili alle esigenze e alle richieste esterne, essi sono portati a respingere la mediazione e a ricorrere alla repressione in maniera sistematica e casuale. Allo stesso modo, le controversie politiche diventano nascoste, ignare delle deliberative interactions e, a sua volta, allargano in modo casuale la gamma dei propri obiettivi. Mentre i pericoli posti dalla radicalizzazione della democrazia sono stati brevemente esposti, quelli posti dalla radicalizzazione dell’altro possono materializzarsi in atrocità superiori a quelle che abbiamo finora testimoniato. Questo perché i tipi di reti che vengono create sono basati su legami deboli tra le organizzazioni centrali e le cellule indipendenti, in modo che gli atti violenti diventino difficili da controllare in termini di tipologia e intensità. Ciò avviene quando l’affiliazione è aperta, lasciando a ogni componente l’opportunità di aprire ulteriormente la partecipazione ad alleati e complici che vengono ulteriormente e ulteriormente rimossi dal nucleo dell’organizzazione. I forti legami caratterizzano l’affiliazione limitata, mentre la “forza dei legami deboli” provocherà un allargamento della rete e produrrà costi imprevedibili per l’uomo (Granovetter, 1973, 1982).

Un rilancio di movimenti sociali potrebbe invertire questa tendenza.

Potrebbe aumentare la comunicazione tra gruppi ed individui, sfociando cosi nello sviluppo di identità cosmopolite (Della Porta, 2013). La maggior parte di movimenti sociali sono avversi alla violenza organizzata,  esercitata da enti statali e non, e anche quando si esprime sotto forma di “tumulti”, secondo quanto argomenta Machiavelli, potrebbero portare a cambiamenti sociali, lotta alla corruzione e giovare alla democrazia. E’ ad ogni modo necessaria, pero, per evitare ottimismi ingiustificati, una breve riflessione finale sulla democrazia deliberativa e le sue pratiche sopra menzionate.

I sostenitori di questa scuola di pensiero, affermano che le decisioni politiche dovrebbero essere il risultato di una corretta comunicazione tra cittadini, i quali hanno l’opportunità di affrontare e considerare diversi punti di vista con il fine di migliorare il bene comune.  La conversazione, quindi, è tesa a stabilire procedure e azioni, condurre ad un accordo riguardante le decisioni da prendere e, allo stesso tempo, rinforzare la democrazia attraverso la partecipazione collettiva. La legittimità di decisioni politiche democratiche fa perno su tale partecipazione collettiva, includendo movimenti sociali sia “contenuti” che “trasgressivi”. A loro volta, le decisioni non sono la somma di interessi prestabiliti in concorrenza, ma il risultato di opinioni formate attraverso il confronto. In sintesi, rispetto alle decisioni individuali e collettive, la democrazia deliberativa sposta l’enfasi dal risultato della decisione alla qualità della procedura che porta ad essa. Il confronto dovrebbe essere pubblico e dal linguaggio chiaro, come suggerirebbero i primi sostenitori di questo modello (Rawls, 1972; Habermas, 1984), e anche se il processo non produce consenso, le rimanenti differenze e le possibilità di discuterle ulteriormente rinforzerebbe comunque la democrazia.

Esaminando con occhio critico questa teoria, si potrebbe sostenere che solo gli individui e gruppi con le rilevanti competenze  siano in grado di argomentare in modo ragionevole  e con  forma stilisticamente accettata.

Inoltre, tale considerazione presume che i partecipanti al dialogo siano razionali, cooperativi, e che le loro argomentazioni siano persuasive e unificante , una circostanza che potrebbe escludere la maggioranza dei cittadini. Dopotutto,  sono le disuguaglianze e le discriminazioni sociali a determinare queste abilita. In più il modello della delibera tralascia  il ruolo che giocano le passioni e le forme di identificazione politica nel ambito politico.

Un modello più realistico di democrazia deliberativa potrebbe concepire il conflitto come  una permanente caratteristica dei sistemi sociali, cercando di incoraggiare  una mobilitazione costante, una continua spinta verso l’uguaglianza e la tolleranza. Questo tipo di “pluralismo agonistico” (Mouffe, 2013) riconosce che il potere è  constitutivo  delle relazioni sociali e che l’ordine politico è  l’espressione di una determinata egemonia. Il pluralismo agonistico crea le identità in un terreno precario e sempre vulnerabile, perché  avviene nel “politico” (“the political”), vale a dire un’arena che riflette l’antagonismo inerente alle relazioni umane. Questo tipo di democrazia deliberativa non presuppone l’esistenza di “nemici” ma “avversari”, qualcuno le cui idee ci si combatte, ma il cui diritto di difenderli non viene messo  in questione (ibid).

Le democrazie radicalizzate si sforzano di trasformare tutto il dissenso nell’ “altro radicalizzato”, mentre il dissenso ha un obiettivo opposto, quello di distanziarsi dal terrore, compreso il terrore statale. In questo senso, gli Stati che combattono la radicalizzazione dell’altro dovrebbero promuovere e, al contempo, incoraggiare la rivitalizzazione e la crescita dei movimenti sociali.

CONCLUSIONI

Ricorrenti e forse infondate, si sente lamentele che i criminologi hanno evitato l’analisi del terrorismo (Ruggiero, 2006; Freilich e LaFree, 2015). Si dovrebbe domandare, piuttosto, se le categorie criminologiche stesse sono fungibile per l’analisi della questione. Questo documento ha proposto un’analisi dell’estremismo politico che va fuori dal regno canonico della criminologia, a partire dall’esame contemporaneo della radicalizzazione della democrazia e della radicalizzazione dell’altro. Dopo aver evidenziato la dinamica imitativa che collega la violenza istituzionale e anti-istituzionale, ha sostenuto che l’interazione tra i due tipi di radicalizzazione non riguarda solo l’intensità della violenza condotta, ma perfino  la  struttura delle due parti radicalizzate. La repressione sistematica del dissenso, è stata sostenuta, tende a trasformare tutti gli attori critici in terroristi, mentre i movimenti sociali tendono probabilmente a  isolare l’elemento terroristico all’interno di una società che comunque combattono. È stata sostenuta una forma specifica di democrazia deliberativa, quella che presuppone l’esistenza di conflitti, disuguaglianze, ingiustizie e, quindi, di antagonismo  ma che al contempo persegue  il dialogo  e la conversazione.

  • Docente dell’università Middlesex di Londra. Intervento al convegno Eurostop di Bologna “Stop a Minniti: ordine pubblico o giustizia sociale?”

 

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