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Iraq: i caccia Usa bombardano, i peshmerga riprendono la diga di Mosul

Dopo qualche giorno di relativo ‘riposo’ ieri i caccia statunitensi hanno intensificato i bombardamenti sulle postazioni dello ‘Stato Islamico’ nel nord dell’Iraq realizzando secondo quanto comunicato dal Pentagono almeno 14 raid. Il che avrebbe permesso ai peshmerga agli ordini del governo regionale dell’Iraq del Nord – e alle forze speciali di Washington, anche se la Casa Bianca non fa menzione della loro partecipazione ai combattimenti – di riconquistare alcune importanti posizioni attorno a Mosul, a partire dalla grande diga di cui i fondamentalisti sunniti avevano preso il controllo nelle scorse settimane. Nel trionfale comunicato del Pentagono si afferma che nei bombardamenti sarebbero stati distrutti mezzi blindati e armi pesanti che i miliziani dello ‘Stato Islamico’ avevano strappato alle forze governative irachene in rotta nei mesi scorsi.

Secondo l’ex ministro degli Esteri iracheno, il curdo Hoyshar Zebari, nonostante i bombardamenti dei caccia e dei droni statunitensi i peshmerga hanno incontrato «una fiera resistenza con bombe sul ciglio della strada e attentatori suicidi» ma sono comunque riusciti a riprendere la diga sul fiume Tigri a circa 60 km a nord di Mosul, che rifornisce di acqua ed elettricità la provincia di Ninive e ad altri territori del nord del paese. Le milizie regolari di Erbil avrebbero strappato anche tre cittadine ai combattenti dell’IS che però avrebbero fatto saltare il ponte di Fadiliyah, a 45 chilometri a nord est di Hilla, capoluogo del governatorato di Babil.
Mentre gli esponenti del governo curdo dell’Iraq settentrionale, timorosi del crescente protagonismo delle organizzazioni guerrigliere curde di Siria e Turchia, tira un sospiro di sollievo per l’aumentato impegno bellico statunitense, il governo iracheno ha criticato ieri il fatto che Washington stia agendo senza il consenso delle autorità centrali irachene. In particolare Baghdad ha criticato la consegna di armi, anche pesanti, ai peshmerga di Erbil senza che fosse stata concessa alcune autorizzazione da parte delle autorità irachene. “Il governo dell’Irak non ha concesso ad alcun velivolo militare di violare lo spazio aereo del paese” ha fatto sapere ieri il Comando Generale dell’Aviazione di Baghdad.
Appare più che evidente il tentativo da parte di Washington – per ora, sembra, ben riuscito – di approfittare dell’emergenza creata in Iraq e in tutto il Medio Oriente dal dilagare delle milizie guidate da Abu Bakr al Baghdadi per rimettere mani e piedi nel paese, coprendo le rinnovate mire statunitensi nell’area con motivazioni umanitarie e godendo anche dell’approvazione dell’opinione pubblica occidentale scossa dalla persecuzione dei cristiani da parte dei jihadisti.
Non è un caso che anche l’Unione Europea, cogliendo la pericolosità del protagonismo Usa nell’area, abbia deciso di intervenire sulla scia di Washington, decidendo una partecipazione alle operazioni militari per ora di tipo logistico e umanitario. Attivi su questo fronte appaiono soprattutto Londra e Parigi, ma anche il governo Merkel e quello Renzi hanno esplicitamente richiamato la necessità di un impegno diretto dei rispettivi paesi e dell’Unione Europea in quanto tale. Esplicito appare un intervento del ministro degli Esteri di Berlino, Frank-Walter Steinmeier, che tornato da una missione a Baghdad e nel Kurdistan meridionale ha sottolineato il pericolo che la situazione di crisi e la debolezza delle forze armate federali irachene possano portare alla creazione di uno Stato curdo indipendente che, a suo avviso, «destabilizzerebbe ancora di più la regione».
Con un intervento sul Sunday Telegraph, il primo ministro britannico David Cameron ha invece nuovamente affermato che contro la minaccia rappresentata dall’ex Isis l’azione umanitaria da sola non è sufficiente. Cameron ha spiegato che «la creazione di un califfato islamico estremista nel cuore dell’Iraq e che si estende verso la Siria non è un problema lontano da casa», ma una minaccia che potrebbe giungere fin nelle strade della Gran Bretagna. Per questo, dopo il primo passo, quello dell’emergenza umanitaria, il premier britannico ritiene che sia venuta l’ora di una risposta più vasta dal punto di vista politico, diplomatico, della sicurezza. Interventi simili sono stati realizzati nei giorni scorsi anche da Federica Mogherini che ha avviato le procedure parlamentari per inviare sistemi logistici ed armi ai combattenti del governo curdo iracheno. Nessun accenno nei vari interventi, naturalmente, al ruolo che Stati Uniti ed Unione Europea hanno avuto nell’affermazione del fondamentalismo sunnita in Medio Oriente che oggi rappresenta – e questo è innegabile – un pericolo non solo per gli interessi occidentali nell’area ma anche per i popoli che la abitano.

 

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