“Tattica temporeggiatrice”, scriveva ieri Radiovesti.ru, quella della ex “pasionaria” ucraina (alla fine fine, bisognerà pur smetterla di definire certi personaggi coi titoli d’onore di chi, contro il fascismo, ha lottato in prima fila e non, come essi, gli sta oggi strizzando non uno ma entrambi gli occhi) Julija Timošenko che, nei sondaggi sulle preferenze politiche, sta mordendo le caviglie al presidente Petro Porošenko.
Secondo il rilevamento dell’Istituto di sociologia internazionale di Kiev le preferenze per la leader del partito “Patria” ed ex primo ministro ucraino – dal 2007 al 2010, con i presidenti Viktor Juščenko e Viktor Janukovič – sono balzate al 13,9%, distanziandola così solo un punto percentuale dal presidente in carica, attestato al 14,6%. Tutti gli altri politici ucraini sono fermi a meno del 5%, con il premier Jatsenjuk e il suo “Fronte popolare”, vincitore dalle elezioni dell’ottobre scorso, precipitato al 2,8% delle intenzioni di voto, in quella che il sociologo Vladimir Sinelnikov definisce la sua “bancarotta politica”; una bancarotta di immagine di cui l’ex banchiere ed ex delfino della Timošenko incolpa, come ha fatto durante la sua recente visita in Canada, i perfidi canali tv occidentali che troppa attenzione hanno dedicato alle vicende greche, dimenticandosi di rimpinguare il suo portafoglio mediatico.
Secondo Radiovesti, la spiegazione del balzo in avanti della Timošenko può trovarsi nella sua relativa presa di distanze dal governo o, quantomeno, dall’assenza di dichiarazioni a sostegno della politica condotta dal premier Jatsenjuk. Sulle scelte sociali di quest’ultimo (ma, Jatsenjuk e Porošenko devono attenersi alle indicazioni del FMI o possono deviare?) anzi, Timošenko, pare giocare a mosca cieca, nonostante il suo partito faccia parte della coalizione al potere che, nella sua totalità, in un modo o nell’altro, è coinvolta nel colpo di stato del febbraio 2014 e nelle repressioni del dopo Majdan. Come non ricordare le parole con cui, nel marzo 2014, in un colloquio telefonico col miliardario ucraino ed ex vice segretario del Consiglio di difesa nazionale, Nestor Šufrič, alla domanda di quest’ultimo <e cosa facciamo ora con questi 8 milioni di russi rimasti sul territorio ucraino? Essi ci sono estranei!> la ex premier-lady rispondesse <sterminiamoli con una bomba atomica!>
Come che sia, questa sorta di “opposizione interna” al gabinetto ha fatto guadagnare punti a “Patria” e alla sua matriarca, a suo tempo, prima del sanguinoso 2014, più volte indagata dalla magistratura e infine imprigionata per abuso di potere: la “principessa del gas” aveva diretto nel 2004, insieme a Viktor Juščenko, una delle prime rivoluzioni colorate del Dipartimento di stato USA nelle ex Repubbliche sovietiche, la “rivoluzione arancione” in Ucraina. E, se gli osservatori ucraini tendono a spiegare il suo recente balzo in avanti con “una costante” della politica nazionale – il trarsi momentaneamente in disparte procurerebbe consenso – non si può dimenticare che l’attuale frangente vede, accanto a un premier spalleggiato da un settore probabilmente “non vincente” del Congresso USA, un presidente che rischia lo scontro armato con la parte più apertamente neonazista dei battaglioni che costituirono la spina dorsale di “Euromajdan” e che lo accusano di essere un “agente del Cremlino”. Come non supporre che, in questa situazione, a Washington si cominci a guardare a qualche “cavallo di ritorno”, degli anni precedenti l’ultima presidenza Janukovič, mentre si continua a rinfoltire la scena politica ucraina con personaggi dell’opposizione russa a stelle e strisce? Nella stessa Ucraina, in pochi ormai credono che l’attuale compagine governativa riesca a giungere alla conclusione del mandato: in che maniera e con quali mezzi ciò possa avvenire, è presto per dirlo; i rapporti tra i vari raggruppamenti politici, formalmente alleati, sono in piena bagarre.
E d’altronde, pur se, secondo i sondaggi di Kiev, il 55,4% degli intervistati giudica negativamente il lavoro del presidente Porošenko e addirittura il 66,7% quello del premier Jatsenjuk, è difficile ipotizzare quale reale peso possa avere, sulle mosse politiche della leadership di Kiev il sentimento di quella grossa fetta di popolazione ucraina che, pur di veder conclusa la guerra nel Donbass, si dichiara convinta (15,3%) che il sudest debba entrare a far parte della Federazione Russa, si dichiara disposta a riconoscere la Crimea come russa (33% degli intervistati) e a concedere al russo (47,5%) lo status di lingua nazionale al pari dell’ucraino.
Ma, pur stante la verticale caduta di consenso per il lavoro del duo euroatlantico (pare che, a turno, si contendano ora l’uno, ora l’altro, l’appoggio o di Bruxelles o di Washington) non ogni giudizio negativo su Porošenko e Jatsenjuk è indice di prospettive positive. E’ così che, ad esempio, ieri pomeriggio circa tremila persone (valutazione di RIA Novosti: a giudicare dai video diffusi, molto meno) hanno risposto all’appello di Pravyj sektor e si sono riunite a majdan Nezaležnosti (piazza Indipendenza, o più comunemente: majdan), scandendo slogan antirussi, di critica all’attuale potere ucraino e di richiamo al suo rovesciamento, oltre che per la “legittimazione” dei battaglioni neonazisti.
Quindi, anche volendo attribuire carattere di appuntamenti per il tè delle 5 ai frequenti viaggi dell’assistente del Segretario di stato USA Victoria Nuland a Kiev; anche dicendosi sicuri che le lettere di congressisti USA a Jatsenjuk contenessero solo auguri di buone vacanze ai suoi ministri, il sempre più frequente trasferimento in Ucraina di azzimati e ubbidienti rappresentanti della dissidenza russa, non sta forse a significare una sfiducia crescente, sulle rive del Potomac, nelle capacità degli uomini di Kiev a garantire gli interessi della multinazionale Monsanto sui fertili terreni dell’ex granaio d’Europa? Che significato può avere, ad esempio, la nomina della “dissidente” russa Marija Gajdar a vice del governatore di Odessa, l’ex presidente georgiano e amico fidato del Pentagono Mikhail Saakašvili? E’ solo il caso di ricordare come, nei primi anni ’90, quelli del “capitalismo da far west” a Mosca, il defunto padre della giovane Marija, l’allora giovanissimo Egor Gajdar, Ministro delle finanze e poi Primo ministro, avesse operato da punta di diamante, in coppia con il Ministro per le privatizzazioni Anatoli Čubajs, nell’elargizione in beneficenza della proprietà pubblica alla nascente oligarchia postsovietica, come dettagliatamente comandato da Washington a Boris Eltsin.
La giovane Marija, che si appresta a ottenere la cittadinanza ucraina e, in seguito, anche quella israeliana, senza rinunciare a quella russa (ma la legge ucraina non pare consentirlo) ha colto subito il significato del suo ruolo, dichiarando che la Russia nel 2008 attaccò la Georgia di Saakašvili e oggi sta aggredendo l’Ucraina. A mentre a Odessa già ironizzano e giurano sulla prossima nomina di un’altra teledissidente russa Ksenija Sobčak – anche lei figlia d’arte: suo padre fu l’ex sindaco liberal di Pietroburgo, Anatolij Sobčak – nei fatti l’ex copresidente del russo Parnas (Partito della libertà del popolo che, nel tempo, ha visto riuniti l’assassinato Boris Nemtsov, il blogger Aleksej Navalnyj, l’ex premier Mikhail Kasjanov), Vladimir Rižkov già dichiara di potersi trasferire in Ucraina, se <non avrà più possibilità di lavorare in Russia>. Singolare che le motivazioni di Rižkov ricalchino quasi alla lettera quelle della giovane Marija: <Spero che la Russia diventi un paese democratico; allora sarà possibile tornarci a lavorare. Spero vivamente che nel momento in cui ciò sarà possibile, vi verranno persone da altri paesi. Forse dall’Ucraina qualcuno vorrà venire ad aiutare, dalla Georgia, dagli Usa.
E’ ora che al Dipartimento di stato a Washington istruiscano i propri adepti, pur nella conformità agli intenti generali, a differenziare le esternazioni con cui proclamano al mondo di voler ricalcare le orme degli eroi virgiliani che <a cercar vanno lontano un’altra patria sotto un altro sole>, dato che, a detta loro, quello patrio è oscurato dalle nubi dell’autoritarismo putiniano.
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