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Kiev: l’Italia dell’impero romano ha più diritti della Russia sulla Crimea

Il segretario del Consiglio nazionale di sicurezza e di difesa ucraino, Aleksandr Turčinov, qualche settimana fa in visita in Turchia, ha dichiarato che “Nel contesto delle sfide che si pongono oggi ai nostri paesi, sono estremamente importanti sia il rafforzamento della cooperazione tra Ucraina e Turchia nei campi di sicurezza e di difesa, sia la collaborazione tecnico-militare tra i nostri paesi”. Secondo l’agenzia Novorossija, Turčinov, oltre gli incontri ufficiali, avrebbe visitato anche alcune imprese del complesso militare industriale e il centro turco antiterrorismo.

D’altronde, che la collaborazione turco-ucraina in campo anti(?)terroristico sia ormai un fatto acclarato, è noto da tempo, sullo sfondo di una comune ideologia autoritaria e di simpatie neonaziste, sia da parte della junta golpista di Kiev, che del presidente turco Recep Erdoğan. Da mesi ormai si parla degli “scambi di favore” tra terroristi Isis, loro protettori turchi e autorità ucraine; si parla del territorio ucraino come retrovia per i terroristi islamici; si sa, per loro stesse esternazioni, che i neonazisti ucraini hanno da sempre legami con le bande terroristiche caucasiche, le quali ultime costituiscono anche fonti di reclutamento per le formazioni islamiche mediorientali.
Vesti.ru riportava ieri le dichiarazioni del leader ceceno, Ramzan Kadyrov, a proposito della presenza anche di alcuni suoi connazionali tra le file dell’Isis. Vero è che Kadyrov ha parlato anche di come l’intelligence cecena fosse a conoscenza dei campi d’addestramento di terroristi wahabiti – con istruttori da paesi Nato – in Medio Oriente, prima ancora della nascita ufficiale dello Stato islamico e di come “agenti ceceni e i migliori combattenti della repubblica” si fossero introdotti in quei campi per studiarne le mosse. “Di questo in Russia non sapevano nulla”, ha detto Ramzan alla sua solita maniera un po’ guascona, “ma io già sapevo che la denominazione sarebbe poi stata Isis”. In ogni caso, ha detto ancora Kadyrov, immortalato mentre si allenava insieme ai reparti speciali, ci sono stati giovani ceceni che sono andati a combattere per l’Isis: “Pensavano che questa fosse la via verso Allah l’Altissimo, ma quando sono giunti là e hanno capito che non c’era nulla di tutto ciò, sono tornati”.
E, ancora più apertamente, il mejlis dei tatari di Crimea fedeli a Kiev sbandiera il sostegno turco nell’addestramento di battaglioni destinati alla “riconquista della Crimea”, chiodo fisso di ogni enunciato ucraino a proposito della penisola, divenuto il catoniano “Delenda Carthago” di ogni sparata ucraina, da quelle “diplomatiche” governative del Ministro delle finanze, la yankee Natalja Jaresko, a quelle “storiche” dell’ex ambasciatore Jurij Ščerbak, fino a quelle più dirette dell’ex capo di Pravyj Sektor, Dmitrij Jaroš.
Gli ultimi due sono tornati a riproporre il tema proprio ieri. L’ambasciatore straordinario e plenipotenziario Jurij Ščerbak, ex membro del Soviet Supremo dell’Urss e poi ex rappresentante diplomatico ucraino in Canada, Israele, USA, in un’intervista al canale tv 112, ha fatto addirittura ricorso a paragoni storici, per “dimostrare” come la Russia non disponga di alcun fondamento per avanzare pretese sulla penisola, al contrario di Grecia, Italia e dell’Impero ottomano! Secondo Ščerbak, Sebastopoli non sarebbe affatto la città della gloria russa (in riferimento alle guerre russo-turche del XIX secolo e alla Seconda guerra mondiale), dato che greci e romani hanno controllato la Crimea più a lungo della Russia. “Non solo la Turchia ha diritto a prender parte a colloqui sull’argomento, ma anche l’antico impero romano, cioè l’Italia attuale e anche la Grecia che, prime fra tutti, controllarono la Crimea e Sebastopoli. Bisogna ricordare la storia. La questione della Crimea, se si considerano gli aspetti internazionali, deve essere affrontata con un largo diapason”. Giusto: mandiamo di nuovo i bersaglieri di La Marmora sul Čërnaja, a spalleggiare gli zuavi di Napoleone III!
Da parte sua, Jaroš, parlando ieri a Mariupol, ha “assicurato” che i suoi uomini riconquisteranno Donbass e Crimea: “Torneremo in possesso del Donbass e, col tempo, anche della Crimea, e non solo per via diplomatica. L’importante è che, per questo, venga versato meno sangue ucraino possibile”, ha detto. Pare che Jaroš, secondo l’agenzia nnr.su, avesse in mente “l’esperienza croata” che, a suo dire, consiste in “trattative, preparazione e operazione militare fulminea”, contemporaneamente all’introduzione dello stato d’assedio e annullamento delle elezioni nel Donbass. Un’altra occasione, per il nazista Jaroš, di “glorificare” i propri modelli fascisti, che con gli ustaša croati tanto hanno contribuito al disfacimento Nato della Jugoslavia.
D’altronde, Jaroš deve cercare in qualche modo di frenare la propria caduta precipitosa quale leader “militare”, dopo aver abbandonato (non si sa quanto volontariamente) la guida di Pravyj Sektor per venir “istituzionalizzato”, insieme ai suoi fedelissimi, nella Guardia nazionale. Un Pravyj Sektor che sta mandando insistenti segnali di disgregazione, accelerata dall’uscita dal battaglione anche di varie formazioni che si darebbero ad azioni autonome e che, secondo i media della Novorossija, minerebbe seriamente la stabilità dello stesso regime golpista. Da Pravyj Sektor si sarebbero staccati alcuni reparti (“Occidente”, “Occidente” 2, 3 e 4) diretti alla volta delle regioni occidentali ucraine e da cui l’attuale direzione del battaglione avrebbe preso preventivamente le distanze. Comandanti di reparto insieme ai loro uomini avrebbero abbandonato Pravyj Sektor nelle regioni nordoccidentali dell’Oltrecarpazia, L’vov, Ivano-Frank, della Volinja e, a oriente, nell’area di Mariupol, dove ieri appunto ha fatto il suo exploit l’ex capo storico dal battaglione neonazista “par excellence”.
A proposito del suo abbandono di Pravyj Sektor, secondo le sibilline dichiarazioni di Jaroš stesso, egli sarebbe stato vittima di un “golpe” interno all’organizzazione neonazista, accusato di aver tradito gli “originari ideali rivoluzionari”: una sorta di italico sansepolcrismo rovesciato, insomma. A detta di diversi osservatori, la disgregazione di Pravyj Sektor è iniziata l’estate scorsa, con gli avvenimenti di Mukačevo, ai confini con l’Ungheria, durante i quali alcuni squadristi del battaglione presero a fucilate la sede di un magnate contrabbandiere locale e furono a loro volta presi d’assalto dalle forze regolari ucraine. L’ala militare del battaglione fu quindi ridenominata “Corpo volontario ucraino”, con a capo Andrej Stempitskij; l’ala “politica”, guidata da Andrej Tarasenko, ha continuato a chiamarsi Pravyj Sektor. Dmitrij Jaroš dichiarò invece di voler dar vita a un “nuovo movimento politico, concentrato sugli affari statali”. E ieri a Mariupol ha annunciato di quali “affari statali” si tratti!
Secondo il politologo ucraino Ruslan Bortnik, sentito dall’agenzia Novorossija, l’ala guidata da Jaroš, “più moderata, costituisce un 20-25% di tutto Pravyj Sektor. Queste persone sono più o meno sotto l’influenza del presidente Porošenko e della sua cerchia e sono filo-governativi”. L’altra ala “può definirsi il Pravyj Sektor popolare e rappresenta il 70-80% del movimento. Sono uomini estremamente aggressivi, sia nei confronti dell’est ucraino, che del potere di Kiev. Dichiarano che l’Ucraina si trova in regime di occupazione interna: Porošenko è per loro un nemico al pari di Putin; potenzialmente, sono estremamente pericolosi per Kiev, perché potrebbero prima o poi ricorrere a una variante violenta di assalto al potere. E questo Kiev lo sa”. Secondo Bortnik, oggi il governo sta cercando le misure adatte a neutralizzare la seconda ala di Pravyj Sektor; ma nemmeno i tentativi di Jaroš di farne una propria riserva elettorale sembrano per ora avere successo.
Evidentemente, il neonazismo ucraino, come il suo modello originale teutonico, riesce ad attecchire solo esibendo il proprio lato criminale e dura finché ci sono obiettivi da terrorizzare; meglio se civili.

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