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“Ankara arma l’Isis, ci sono le prove”. Erdogan nella morsa Usa-Russia

Non sembra proprio essere un buon momento per il regime turco, stretto in una inedita morsa tra Stati Uniti e Russia. Ieri il ministro russo degli Esteri, Sergey Lavrov, ha avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato Usa John Kerry sulle misure necessarie a consolidare il cessate il fuoco in Siria. Nel corso del colloquio, che ha avuto luogo “su iniziativa americana”, si è sottolineato “il ruolo chiave” della cooperazione militare russo-statunitense in Medio Oriente. Lavrov ha anche ribadito l’invito ai partner del Consiglio di Sicurezza dell’Onu a sigillare il confine turco-siriano “utilizzato attivamente” per l’invio di militanti jihadisti in Siria attraverso la Turchia.

Qualche giorno prima il governo russo era tornato ad accusare per l’ennesima volta Ankara di armare lo Stato Islamico attraverso organizzazioni non governative e associazioni che si occuperebbero di far transitare nel paese confinante armi, equipaggiamenti e aiuti finanziari. “Il principale fornitore di armi e attrezzature militari all’Isis è la Turchia, che lo fa attraverso le organizzazioni non governative” ha scritto l’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, in una dettagliata lettera del 18 marzo resa però pubblica solo ieri dal Consiglio di Sicurezza. Churkin denuncia che la “Fondazione Besar”, la “Fondazione Iyilikler” e la “Fondazione per le libertà e i diritti umani”, tre sigle di copertura dei servizi di intelligence turchi (MIT), hanno inviato convogli di “svariato equipaggiamento” ai gruppi armati jihadisti.


E’ quanto avevano cercato di raccontare all’opinione pubblica turca il direttore del quotidiano Cumhuriyet, Can Dundar, e il suo caporedattore Erdem Gül, quando alla vigilia delle elezioni dell’anno scorso pubblicarono le foto e i video di un convoglio di camion di proprietà del MIT sequestrati alla frontiera con la Siria perché trasportavano una gran quantità di armi dirette ai jihadisti operanti in Siria. Una scelta coraggiosa che però i due giornalisti hanno pagato con tre mesi di carcere duro ed un’imputazione che potrebbe portare ad una condanna all’ergastolo. Contro di loro – accusati di spionaggio e rivelazione di segreto di stato, tentativo di golpe e assistenza a organizzazione terroristica – si sono costituiti parte civile non solo i servizi segreti ma lo stesso Erdogan, che alla pubblicazione dello scoop aveva reagito con un minaccioso ‘la pagheranno’, rivolto proprio a Dundar e Gül.

Il processo nei loro confronti è ripreso ieri mattina al tribunale di Istanbul. “Vinceremo, abbiamo sempre vinto nella storia. Pensiamo che le leggi ci daranno ragione e saremo assolti” ha detto Dundar arrivando in un tribunale davanti al quale alcuni suoi colleghi protestavano contro la repressione accompagnati da alcune centinaia di militanti di associazioni per i diritti umani e membri dei partiti di opposizione di centrosinistra e destra. “E’ il giornalismo alla sbarra oggi, questo processo non ha ragion d’essere perchè il giornalismo non è un reato” ha aggiunto Gul circondato da un ingente dispositivo di polizia.

Visto che alla prima udienza, il 25 marzo, avevano assistito anche molti giornalisti e diplomatici stranieri, mandando su tutte le furie governo e presidente, la corte ha deciso di proseguire a porte chiuse. “Niente impiccioni in aula” il messaggio inviato alla stampa e ai governi dei paesi che denunciano, seppur timidamente, la persecuzione dei giornalisti e dei dissidenti da parte del regime turco ma che con Erdogan e soci continuano a fare grossi affari e a stringere patti scellerati. In primo luogo quello sull’immigrazione, con 6 miliardi di euro regalati ad Ankara dall’Unione Europea che ieri il parlamento ellenico, deputati di Syriza compresi, ha approvato.


Mentre a Istanbul l’inquisizione erdoganiana processava Dundar e Gül, durante la sua visita negli Stati Uniti il ‘sultano’ negava che nel suo paese si torca un capello ai giornalisti critici con il regime, anche se “la libertà di stampa è regolamentata dalla legge”. «Non abbiamo mai fatto nulla per fermare la libertà di espressione. La stampa turca è molto critica nei confronti miei e del governo. Siamo stati molto pazienti» ha detto Erdogan alla Cnn, aggiungendo che “Nelle prigioni turche non ci sono giornalisti che sono stati condannati per la loro professione”.


Questo dopo che giovedì, mentre il leader del regime liberal-islamista turco parlava al Brookings Center di Washington, i gorilla della sua security cacciavano alcuni giornalisti e strappavano i cartelli agitati da manifestanti che gridavano slogan a favore delle Ypg curde. Un uomo della sicurezza di Erdogan ha rifilato un calcio al petto a un giornalista locale che cercava di riprendere la scena mentre un suo collega gridava “Puttana del Pkk” a una ricercatrice di Scienze Politiche. Il Club Nazionale della stampa statunitense è stato obbligato a emettere un duro comunicato: “Non ha diritto di mettere le mani sui giornalisti e sui manifestanti. Erdogan non può esportare le violazioni dei diritti umani e della libertà di informazione che porta avanti in Turchia” ha scritto in una nota non certo benevola il presidente del club Thomas Burr.


Quello di Erdogan negli Stati Uniti non è stato esattamente un viaggio trionfale, anche se alla fine ha potuto incontrare per qualche minuto, a margine del summit internazionale sul nucleare, quel presidente Obama che gli aveva negato un incontro bilaterale ufficiale e la sua presenza all’inaugurazione di una grande moschea finanziata e sponsorizzata da una potenza regionale ‘neo-ottomana’ sempre più in crisi.


Nonostante la concessione del breve colloquio, Obama ha insistito con Erdogan sulla necessità di un maggiore sforzo turco contro Daesh e di un alleggerimento della pressione militare di Ankara nei confronti dei movimenti curdi, in particolar modo quelli siriani, che Washington sostiene dall’estate dello scorso anno in funzione antijihadista (e che anche la Russia appoggia, sia militarmente che politicamente). Due delle questioni che dividono l’amministrazione statunitense dal regime di Ankara, che da parte sua ha ribadito priorità esattamente opposte rispetto a quelle segnalate dall’inquilino della Casa Bianca.


Erdogan ha avvertito che se le Ypg supereranno la linea rossa, unilateralmente individuata da Ankara nelle città di Azaz e Jarabulus (dove operano milizie turcomanne al soldo del regime turco), l’esercito di Ankara riprenderà i bombardamenti contro le postazioni delle Unità di Difesa Popolare curde. “La Turchia è stata lasciata sola contro il terrorismo. Non possiamo più tollerarlo. Spero che i Paesi europei e gli altri vedano il vero volto che c’è dietro questi attentati” si è lamentato il presidente turco sottolineando il legale tra curdi siriani e il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan che ha rivendicato l’attacco compiuto contro un bus della polizia a Diyarbakir che ha causato la morte di 7 agenti.


L’Hpg, l’ala militare del Pkk, ha rivendicato l’attentato in un comunicato riportato dall’agenzia curda Firat News, in cui si descrive l’attacco come “una rappresaglia agli attacchi dell’esercito turco nel Kurdistan”. Attacchi che, secondo l’associazione Human Rights Foundation, dall’agosto del 2015 all’inizio di marzo hanno causato la morte di almeno 310 civili curdi. Gli ultimi ieri:Harun Çağlı di 4 anni e Ayşenur Geçit di 6, uccisi da un proiettile sparato contro la loro casa dall’esercito turco nella città martire di Cizre.

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