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Verso l’offensiva su Mosul. Francia, Usa e Turchia in competizione

Il Primo ministro iracheno, lo sciita Haider al Abadi, ha promesso agli abitanti di Mosul, la seconda città del Paese nelle mani di Daesh ormai dal 2014, una rapida vittoria contro i miliziani jihadisti. “Oggi la vittoria è vicina, con l'aiuto di Dio", ha affermato Abadi in un discorso diffuso via radio. "Oggi stiamo avanzando e domani saremo vittoriosi insieme a voi e poi lavoreremo insieme per far ritornare i servizi e la stabilità" nella regione, ha aggiunto. Le autorità irachene non hanno ancora annunciato una data precisa per l'inizio dell'operazione per riconquistare Mosul ma molte fonti hanno parlato del mese di ottobre.

Il problema è che all'offensiva per riprendere Mosul dovrebbe partecipare una coalizione di forze assai eterogenee e spesso in competizione tra loro, il che sta provocando forti tensioni e rallentando il contrasto nei confronti dei jihadisti.

Proprio in queste ore, ad esempio, si riaccende lo scontro tra regime turco e governo iracheno. Baghdad ha convocato l’ambasciatore turco e Ankara ha fatto lo stesso col rappresentante diplomatico iracheno dopo che Erdogan, lunedì, aveva parlato della liberazione di Mosul affermando che nella città sarebbero dovute entrare solo truppe “arabe sunnite, curde sunnite e turcomanne”. E comunque, ha avvertito Erdogan, le truppe turche prenderanno parte alla liberazione del capoluogo, sottintendendo "che Baghdad sia d'accordo o meno". Ovviamente la dichiarazione, bollata come ingerenza nei propri affari interni, ha fatto infuriare la comunità sciita che rappresenta il 60% della popolazione irachena, ed anche una parte di quella curda – ad esempio gli yazidi – non ha preso bene l’intrusione di Ankara. Il parlamento di Baghdad, diviso e rissoso, ha improvvisamente ritrovato una sostanziale unità ingiungendo alla Turchia di ritirare immediatamente le truppe inviate dal regime di Ankara nel nord dell’Iraq. Da mesi centinaia di militari turchi, definiti ‘addestratori’ e ‘consiglieri’, si sono acquartierati a Bashiqa, circa 40 chilometri a Nord della cosiddetta ‘capitale’ di Daesh nel paese. Il premier al Abadi ha rincarato la dose, affermando che la presenza non desiderata di truppe turche “potrebbe portare ad una nuova guerra regionale”. Ma nei giorni scorsi il parlamento di Ankara ha prorogato di un altro anno, con la sola opposizione dei deputati del Partito Democratico dei Popoli, la presenza delle truppe turche tanto in Iraq quanto in Siria.

In questo conflitto tra Ankara e Baghdad emerge una parziale novità. Tradizionalmente il regime turco può contare su una stretta alleanza con i clan al potere nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, governato da Massoud Barzani. Ma recentemente, dopo cinque anni di muro contro muro, Barzani si è recato a Baghdad dove ha avuto un incontro, definito ‘costruttivo’, con il primo ministro Haidar al Abadi. Un disgelo che forse può essere letto come la ricerca di una sponda da parte del governo del Kurdistan iracheno, alle prese con una grave crisi finanziaria: recentemente si sono svolte varie manifestazioni di protesta a Sulaymaniyya e in altre città, animate dai dipendenti degli enti locali, peshmerga compresi, che da sei mesi non ricevono lo stipendio. Il capo del governo locale ha affermato che quello centrale avrebbe accettato di ripianare il bilancio di Erbil consentendo così il pagamento degli stipendi arretrati.
Ovviamente il colloquio tra Barzani e al Abadi si è concentrato sulla eventuale collaborazione militare in vista dell’offensiva contro Daesh a Mosul. Secondo indiscrezioni, i due leader avrebbero concordato su un primo intervento dei peshmerga, che dovrebbero arrivare a 15 chilometri dalla città, per poi lasciare l’iniziativa all’esercito iracheno. Ma ovviamente si è parlato anche di uno dei più spinosi problemi che da sempre divide i curdi iracheni dalle autorità di Baghdad: la ripartizione degli introiti derivanti dalle esportazioni petrolifere. Di fatto Erbil autogestisce il petrolio estratto sul suo territorio, il che ha portato Baghdad a smettere di versare al governo autonomo, come da accordi, il 17% del bilancio nazionale.

In questo quadro più o meno interno si inserisce l’intervento delle grandi potenze, che utilizzano la lotta contro Daesh per legittimarsi come paesi egemoni nell’area.

Nei giorni scorsi il Pentagono ha annunciato che invierà altri 600 militari in Iraq per supportare le forze governative nell’imminente offensiva contro il Califfato a Mosul. Il portavoce del Pentagono ha precisato che i soldati daranno soltanto sostegno logistico alle forze irachene e non guideranno l'attacco. Finora in Iraq il governo statunitense ha stanziato ben 4600 soldati.
Oltre a mandare più uomini Washington, in ambito Nato, si sta anche incaricando di addestrare, in alcuni campi e basi militari realizzate in Giordania, varie centinaia, forse migliaia di miliziani – per la maggior parte iracheni – da utilizzare nella spallata al Califfato.

Ma le altre potenze non stanno a guardare. Sicuramente non la Francia che ha deciso nelle scorse settimane un salto di qualità per quanto riguarda il suo intervento militare in Iraq. Dal 20 settembre le forze speciali e l’artiglieria francese bersagliano i jihadisti di Daesh intorno a Mosul con cannoni di grosso calibro e attacchi aerei. Dopo la strage di Nizza il presidente francese Hollande decise una intensificazione della presenza militare di Parigi nel paese mediorientale e l’invio di vari pezzi di artiglieria all’esercito iracheno. Ma quei cannoni sono le forze francesi, nel frattempo infoltite da nuovi arrivi, a usarli. Spesso in autonomia – e in competizione, occorrerebbe dire – dal comando della coalizione a guida statunitense. In zona Parigi ha inviato 12 caccia, due velivoli di appoggio, una fregata e appunto, l’artiglieria, insieme a circa 1000 militari. Un centinaio sono stanziati a Erbil e a Baghdad, con compiti di coordinamento e di addestramento. Ora nel Mediterraneo orientale è arrivata anche la portaerei Charles de Gaulle per incrementare la capacità offensiva delle forze francesi portando a ben 4000 i militari dell’esagono. Anche se, ha tenuto ad assicurare il Ministro della Difesa del governo socialista, i soldati di Parigi non parteciperanno a nessuna operazione di terra e non si scontreranno quindi direttamente con i jihadisti. Dalla De Gaulle sono già partite le operazioni di bombardamento su Mosul realizzate dai caccia Rafale. Un aiuto non indifferente, ma anche un segnale di sfida, nei confronti di Washington.
 

Marco Santopadre

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