Nonostante lo Stato Spagnolo abbia usato tutte le armi a propria disposizione “in tempo di pace” – repressione di massa, arresti, censura, golpe istituzionale – per sconfiggere gli indipendentisti catalani, ieri le elezioni imposte dal governo di Madrid dopo lo scioglimento del governo e del parlamento “ribelli” sono state di nuovo vinte dal fronte che si batte per la piena sovranità del popolo catalano.
La Repubblica ha prevalso sulla monarchia, il colpo della reazione è stato parato e respinto. Al di là di ogni altra riflessione, la strategia del governo Rajoy e del ‘regime del 78’ è stata battuta e la “questione catalana” continuerà a rappresentare una grana tanto per lo Stato Spagnolo quanto per l’Unione Europea. I diktat dell’asse Madrid-Bruxelles, che piaccia o meno alle classi dirigenti dell’indipendentismo moderato ed europeista, sono stati contestati e nuovamente sconfessati dal voto popolare, com’era già avvenuto lo scorso 1 ottobre con l’enorme dimostrazione di forza sociale manifestatasi in occasione del referendum. L’esito elettorale di ieri dimostra che l’uso della forza da parte delle istituzioni statali non è stato in grado di risolvere il contenzioso e di rimuovere un conflitto che permane tanto sul piano sociale quanto su quello istituzionale.
La contraddizione che tanto preoccupa lo Stato Spagnolo e l’Unione Europea, strenui difensori dello status quo e della stabilità in nome di determinati interessi economici e geopolitici oltre che della competizione globale con i poli e le potenze concorrenti, rimane tutta sul tappeto, irrisolta.
Quella degli indipendentisti, non è il caso di nasconderlo, è però una vittoria agrodolce. E per vari motivi. Nonostante il golpe, la censura, la militarizzazione, la decapitazione tramite gli arresti delle due principali forze politiche sovraniste, le minacce e i ricatti economici – sono 3000 finora le imprese basate in Catalogna che hanno spostato altrove la propria sede sociale o minacciano di farlo – il blocco indipendentista ha tenuto ed è aumentato di circa 100 mila voti captando una parte del consistente aumento della partecipazione, ottenendo in totale però 70 seggi contro i 72 della volta scorsa. Ieri, nonostante si sia votato per la prima volta in un giorno lavorativo, alle urne si è recato il 7% di aventi diritto in più rispetto alle regionali del 2015, che pure avevano già visto un’ascesa del numero dei votanti. A beneficiare di questo boom della partecipazione sono state però soprattutto le forze politiche unioniste e reazionarie, che in totale hanno ottenuto ben 280 mila voti in più, passando da 52 a 57 seggi.
Nel campo catalanista i socialdemocratici di Esquerra Republicana mancano l’agognato e previsto sorpasso nei confronti dei liberali del PDeCat, che reggono grazie probabilmente a quello che potremmo definire “effetto Puigdemont”. Gli anticapitalisti della Cup subiscono un innegabile crollo passando da 10 a 4 seggi e da 338 mila a 193 mila voti; un risultato frutto della scelta di molti ex elettori “d’opinione” che nel 2015 premiarono la forza più radicale a sinistra e indipendentista per condizionare i partiti più moderati, in particolare ERC, ma che questa volta hanno deciso di dare un ‘voto utile’ ai partiti maggiori per scongiurare l’ipotesi di una sconfitta del fronte sovranista e di una vittoria da parte della destra liberista e reazionaria di Ciudadanos che alla fine è comunque avvenuta.
Quindi in generale se il dato è caratterizzato da una vittoria, “contro vento e marea”, del fronte catalanista, al suo interno i rapporti di forza mutano negativamente, a vantaggio delle formazioni più moderate e conformiste e a svantaggio dell’opzione più coerentemente indipendentista ma anche antagonista dal punto di vista ideologico. All’interno di uno schieramento che comunque gode ora di una maggioranza più risicata di seggi – tenendo anche conto del fatto che alcuni degli eletti, a partire da Puigdemont del PDeCat e di Junqueras di ERC, non potranno occupare materialmente i propri scranni visto che il primo è in esilio a Bruxelles e l’altro in prigione – la Cup avrà un potere di condizionamento assai più scarso rispetto a quello esercitato negli ultimi due anni. Ad aver vinto sono gli indipendentisti – ammesso che continuino ad esserlo veramente, al di là dei proclami – che all’indomani dell’applicazione dell’articolo 155 e del golpe istituzionale da parte di Madrid hanno aggiustato il tiro sostituendo la gradualità e il negoziato alla precedente agenda unilaterale mentre dalle urne esce fortemente indebolita la proposta della rottura nazionale e sociale.
Sia che decida di appoggiare un esecutivo indipendentista sia che scelga di starne fuori la Cup dovrà affrontare una situazione difficile: nel primo caso rischierebbe di perdere credibilità come forza antisistemica e anticapitalista, nel secondo però verrebbe accusata di tradimento del fronte nazionale oltretutto sotto assedio.
Il governo indipendentista che dovesse nascere sulla base dei risultati delle elezioni di ieri sarà ovviamente sottoposto alla spada di Damocle di una continua repressione e di una nuova eventuale applicazione dell’articolo 155 da parte del governo spagnolo. Questo contesto di condizionamento e ricatto, unito alla relativa tenuta da parte dei liberali del PDeCat, non farebbe che rafforzare le correnti autonomiste (e quindi gradualiste) e socialmente conservatrici all’interno dello schieramento catalanista.
La scomparsa del Partito Popolare Catalano – che passa da 11 a 3 seggi – rappresenta una buona notizia, e una sconfitta personale per il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy, oltre che per la sua vice Soraya Saenz de Santamaria, mandata a commissariare le istituzioni catalane dopo la destituzione del governo legittimo. Ma il crollo del PP è avvenuto a tutto vantaggio di una destra altrettanto nazionalista, reazionaria e autoritaria – Ciudadanos – che è passata da 25 a 37 seggi, piazzandosi come primo partito in Catalogna. Se le forze del fronte unionista avessero mantenuto una forza più o meno equivalente sarebbero state indebolite dalla tradizionale competizione, ma il boom di Ciutadans e la scomparsa del PP di Albiol fanno di Albert Rivera e Ines Arrimadas i padroni indiscussi dello schieramento. Nei giorni precedenti le votazioni sia alcuni gruppi apertamente fascisti catalani e spagnoli (ad esempio la Falange) sia alcuni leader del Partito Popolare di altri territori dello Stato avevano apertamente invitato gli elettori unionisti a votare Ciudadanos.
Anche i socialisti di Iceta, cresciuti assai meno delle aspettative nonostante abbiano inglobato la destra regionalista di Uniò Democratica in rotta con la svolta indipendentista del PDeCat, dovranno accettare la leadership di un partito che è di destra sciovinista e iperliberista, al di là del volto nuovo e anticasta col quale si è presentato all’epoca della crisi statale del corrotto PP.
L’intervento di forza dello Stato e delle sue istituzioni tramite il 155 ha sobillato una vandea reazionaria che covava sotto la superficie delle istituzioni autonomiche catalane e di un “regime del ‘78” i cui aspetti più retrivi, razzisti e autoritari gli unionisti rivendicano apertamente.
Ad uno sguardo generale si nota come i due blocchi politici principali si equivalgano, con un leggero vantaggio per gli indipendentisti, ma il voto di ieri rivela che il blocco reazionario gode di un forte dimensione di massa ed è più forte di quanto il protagonismo di piazza degli indipendentisti negli ultimi 7 anni lasciasse intravedere. Ciudadanos ha letteralmente sfondato nei quartieri popolari di Barcellona facendo man bassa di voti proletari ed esercitando un forte appeal anche su settori consistenti delle classi medie e alte che guardano alla nuova formazione e a Madrid come garanti della stabilità. I settori popolari per timore di perdere quel poco che anni di austerity hanno lasciato loro e le classi alte per timore di perdere privilegi e business.
In questo quadro di estrema polarizzazione (doppia, tra gli opposti schieramenti e all’interno di essi) i cosiddetti ‘comuns’ di Ada Colau e Xavi Domenech sono rimasti completamente schiacciati. Catalunya en Comù-Podem è calata da 11 a 8 seggi; la formazione di sinistra che si era dipinta come equidistante nella contesa nazionale affermando di concentrarsi esclusivamente sui temi sociali è stata ridimensionata. Questo dopo che in una dichiarazione resa alla stampa a poche ore dal voto di uno dei fondatori di Podemos, Juan Carlos Monedero, aveva affermato che il governo Rajoy non poteva non applicare l’articolo 155 in Catalogna visti gli “eccessi irresponsabili” degli indipendentisti, pur dichiarando che la misura è stata applicata con eccessiva durezza.
Il voto di ieri consegna un panorama caratterizzato da un possibile stallo. Una palude tutta istituzionale impantanerebbe quella vasta rete di organizzazione popolare e di disobbedienza politica e sociale che negli ultimi anni, stimolata dalla Cup e da altre entità della sinistra radicale indipendentista, ha forzato lo scenario obbligando i partiti sovranisti ad adottare una strategia di scontro con Madrid che altrimenti si sarebbero risparmiati. E’ quindi auspicabile che questo enorme capitale umano, politico, sociale ed ideologico sappia trovare la sua strada autonoma e parallela riuscendo a condizionare la dinamica prettamente istituzionale. Sarà sui temi sociali, economici e di schieramento internazionale che la sinistra radicale indipendentista potrà affermare le sue ragioni ed allargare il proprio radicamento se i settori popolari investiti dalla crisi percepiranno che la rottura nazionale potrà servire a mettere in discussione e mandare gambe all’aria i rapporti di forza, lo status quo e i privilegi delle oligarchie tanto catalaniste quanto unioniste.
Nella sinistra indipendentista è già in corso da settimane un fervente dibattito – che la sconfitta elettorale potenzierà – sul carattere della rottura, sulla necessità che al consenso e alla ragione i soggetti del cambiamento accompagnino anche l’organizzazione e la forza. Non può che essere positivo il diffondersi di una certa coscienza del fatto che lo schieramento sovranista ha sottovalutato la determinazione dell’avversario e la forza degli strumenti a disposizione dello Stato, e sul fatto che ogni rottura non può che comportare un costo da pagare, sacrifici e altrettanta determinazione.
Comunque, la partita a Barcellona è ancora aperta, e questa è una buona notizia. Anche per noi.
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