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Il referendum d’autodeterminazione catalano che ho visto lo scorso ottobre

Dopo una giornata nella quale si sono susseguiti gli annunci delle scuole già occupate dalla popolazione allo scopo di garantire il voto, la sera del sabato 30 settembre mi avvio verso il locale adibito come di consueto a seggio elettorale, nel piccolo paese della provincia di Girona dove vivo. Le strade sono immerse nel silenzio come si trattasse di un giorno qualunque, ma dentro il seggio le luci sono accese e dalla porta aperta si sentono voci di giovani. Fuori ce ne sono alcuni che parlano in cerchio: mi assicurano che sono ben organizzati e che passeranno la notte dentro il seggio in modo da evitare sorprese e da garantire che al mattino la commissione elettorale possa insediarsi normalmente. Per chi non dorme nell’edificio del Comune la consegna è di presentarsi alle cinque e mezzo del matino per scongiurare il pericolo della chiusura del seggio ad opera della Guardia Civil o della Policia Nacional.

Constato così che gli abitanti di questo piccolo borgo di campagna (789 persone) si sono già organizzati per difendere in prima persona il seggio elettorale e il diritto all’autodeterminazione di Catalunya. Del resto i municipi rurali sono pienamente inseriti nel movimento indipendentista e costituiscono una percentuale notevole degli oltre 700 comuni (su un totale di 947) che si sono pubblicamente dichiarati disponibili a organizzare il referendum.

A dimostrazione del ruolo svolto dalla campagna, ieri centinaia di trattori hanno occupato le strade di Lleida, Tarragona, Barcelona e Girona per dimostrare il loro sostegno al referendum. Le elezioni del 2015 hanno evidenziato una fascia rurale all’interno del paese decisamente indipendentista e repubblicana che, oltre a non nutrire alcuna simpatia per la corona spagnola, spesso penalizza il Partido Popular fino a farne  il partito meno votato in queste comarche.

Una campagna di segno politico contrario alla Vandea o al latifondo del sud italiano dell ‘800, dove le masse rurali erano ancora egemonizzate dalla chiesa e utilizzate per la conservazione dello status quo. La campagna catalana conserva la memoria dell’arrivo dell’esercito franchista al grido di arriba españa, dell’esilio di molti dei suoi abitanti e del lungo dopoguerra trascorso sotto la dittatura. Contrariamente alla campagna di altre regioni europee è ancora immune alle sirene della destra populista o xenofoba e non ha lasciato spazio a partiti simili al Front Nacional o alla Lega.

La mattina del primo ottobre alle cinque e mezzo è ancora tutto scuro ma davanti al seggio ci sono già una ventina de persone; altrettante stanno prendendo il caffè e facendo colazione dentro il locale. Due enormi balle di fieno sono comparse nella notte e ora sbarrano l’accesso alla stretta via nella quale si trova il seggio, costringendo chi arriva da fuori a fare un ampio giro all’interno del paese per poter raggiungere la sede elettorale. Sono state piazzate qui come una vera e propria barricata, nell’eventualità di un blitz delle forze dell’ordine dello stato spagnolo. Pressoché tutti i presenti sembrano convinti del fatto che il governo di Madrid non ha inviato alcune migliaia di agenti della Guardia Civil e della Policia Nacional in gita di piacere a Catalunya. Il governo spagnolo non ha voluto rivelarne il numero ma secondo una stima prudente si tratterebbe di 8.000 effettivi che si sommano ai 6.000 già presenti sul territorio.

Dentro al seggio, tra giovani, pensionati e persone di mezz’età ci sono anche un francese, da tempo residente a Catalunya e un anarchico argentino, entrambi decisi a difendere il diritto all’autodeterminazione. Poco prima delle sei del mattino arriva un’auto che parcheggia nella piazza adiacente al seggio: il portabagagli si apre e una delle urne elettorali che la polizia spagnola cerca da settimane viene portata all’interno del locale.

Non lo sappiamo, ma è una scena che più o meno negli stessi minuti si ripete davanti a centinaia di seggi. Invano molte tipografie e diverse fabbriche dove si producono i contenitori solitamente usati come urne elettorali sono state obbiettivo di vere e proprie incursioni della polizia. Irruzioni che hanno sempre provocato un’immediata reazione popolare: la gente è accorsa davanti alle navi industriali con la perquisizione ancora in corso, manifestando la propria ferma volontà di votare. Si sa che sono state sequestrate più di dieci milioni di schede elettorali ma neppure un’urna.

Nei giorni scorsi, molti osservatori hanno espresso l’opinione secondo la quale le urne promesse dalla Generalitat non esistono e si utilizzeranno delle semplici scatole di cartone. Improvvisamente però, Junqueras e Puigdemont ieri hanno presentato l’urna del referendum davanti a decine di fotografi e giornalisti: le urne ci sono e questa mattina ne abbiamo la prova.

Nonostante le perquisizioni, le intercettazioni telefoniche e le indagini continue, l’informale organizzazione popolare che ne ha curato la distribuzione in tutto il paese è riuscita a portare le urne ovunque. La vicenda è romanzesca: accerchiato dai controlli, obbligato a fornire una giustificazione a Madrid per ogni euro speso, il governo della Generalitat ha comprato le urne da un’impresa cinese che le ha spedite in Francia, a Elna, un piccolo paese ai piedi dei Pirenei.

Qui dopo la disfatta del 1939 gli esuli repubblicani e antifascisti cercarono un riparo; qui nacque un istituto che accolse i figli degli esuli, privi di risorse economiche e ormai abbandonati a se stessi dalle timide democrazie europee, indifferenti all’ascesa del fascismo spagnolo. È qui a Elna che sono state spedite le urne ed è qui che decine di militanti indipendentisti le hanno raccolte e le hanno portate a Catalunya, nei bagagliai delle auto e perfino a piedi attraverso la montagna, come se la rete clandestina che nel dopoguerra faceva espatriare gli antifascisti fosse improvvisamente tornata a materializzarsi a decine di anni di distanza.

In un sinistro parallelismo con il regime di Franco, il governo del PP, pienamente sostenuto dal PSOE e dall’Unione Europea, ha fatto dell’organizzazione di un referendum e del diritto di voto un atto illegale, rivoluzionario. Toccato nei propri interessi, il blocco sociale dominante a Madrid come in Europa si rivela disposto a sospendere la democrazia che tanto invoca quando si tratta di intervenire militarmente in altre aree del mondo, strategiche per i propri interessi economici e geopolitici. Ma all’interno dei confini nazionali, la domanda di un di più di democrazia, la richiesta di restituire la sovranità alle classi popolari e lavoratrici, al popolo, è considerata una minaccia intollerabile al proprio equilibrio e viene definita, nel caso del referendum, semplicemente illegale.

Eppure alle otto del mattino le urne ci sono, le schede anche e le commissioni elettorali sono già pronte ad insediarsi: l’organizzazione popolare, all’interno della quale la sinistra anticapitalista ha svolto un ruolo propulsore fondamentale, è arrivata dove il governo della Generalitat non è riuscito e il referendum sta per celebrarsi in tutto il territorio. È evidente che il governo del PP non ha né il consenso né il controllo della popolazione catalana.

Il seggio dove mi trovo apre regolarmente ma c’è subito un preoccupante contrattempo: il sistema informatico basato sul censo unico, ossia il sistema che permette ad ogni cittadino iscritto nel registro elettorale di votare in un seggio qualsiasi, non funziona. Ideato per ovviare alle possibili e già previste chiusure di seggi da parte della polizia, il sistema è concepito per assicurare a tutti il diritto di voto e, nel caso si trovi chiuso il proprio seggio, si possa votare in un altro. Da giorni un nutrito gruppo di informatici, che si sono prestati volontariamente all’elaborazione del sistema, stanno lavorando per garantirne il funzionamento. È in atto una vera e propria battaglia che vede gli specialisti della polizia chiudere decine di indirizzi ip e gli hacker della Generalitat aprirne di nuovi, finché il sistema comincia a funzionare.

La voce si diffonde in un momento e le persone che stavano aspettando in piazza formano una allegra e lunga fila nella quale si percepisce una soddisafazione contenuta ma evidente: si vota! Le schede elettorali sono distribuite con cura e in molti si fanno fotografare mentre le depositano nell’urna, coscienti dell’importanza storica del momento. A metà mattina sappiamo che si è cominciato a votare in tutta Catalunya anche se in alcuni seggi irrompe già la polizia. Nel piccolo comune di Sant Julià De Ramis (Girona), dove il Presidente Puigdemont è atteso per votare, la polizia spagnola assalta il collegio e requisisce le urne facendo uso della forza contro la popolazione che si oppone in maniera pacifica ma ferma, senza indietreggiare davanti alle manganellate.

Il Presidente della Generalitat non può votare: è l’obbiettivo che perseguono le forze repressive dello stato spagnolo. Ma non hanno fatto i conti con il censo unico e con l’inventiva dei catalani. Seguito fin dall’uscita di casa al mattino da un elicottero della Policia Nacional, Puigdemont cambia d’auto sotto un tunnel, semina l’elicottero e si reca al collegio vicino di Cornellà de Terri, dove vota indisturbato. Le telecamere lo ritraggono nel momento in cui deposita la scheda nell’urna visibilmente preoccupato, mentre si trattiene solo pochi minuti al seggio per tornare al palazzo della Generalitat.

Cominciano a diffondersi le notizie degli assalti della Guardia Civil e della Policia Nacional ai collegi: anche in un municipio vicino al nostro si sta svolgendo una di queste operazioni; sembra che i locali del Comune siano stati seriamente danneggiati e ci siano alcuni feriti. Seguendo una strategia precisa volta a spaventare la popolazione, la polizia spagnola sta intervenendo in piccoli paesi come Garrigàs, Aiguaviva, Sant Carles de la Rapita…

Alla scuola Ramon Llull di Barcelona la polizia spagnola spara pallottole di gomma (peraltro vietate a Catalunya dal 2014) e lascia senza un occhio il giovane Roger Español. Anche a Girona ci sono attuazioni poliziesche assai violente. Il bilancio finale sarà di circa mille feriti. Ma nel nostro seggio si continua a votare ininterrottamente fino all’ora di pranzo, quando la coda dei votanti si esaurisce. La piazza del paese però rimane piena di gente: si comincia a prendere posto alla tavolata preparata per l’occasione. Accanto alla porta del Comune è già pronta una griglia sulla quale cuociono le botifarres che, assieme al pa amb tomàquet e allà salsa all i oli valgono il modico prezzo di 2 euro. Il tutto accompagnato da vino e birra. Dopopranzo c’è chi si siede a giocare a scacchi o a carte, mentre per i più giovani c’è il ping pong e un canestro.

In ogni modo, una gran parte dei votanti rimane a presidiare il seggio finché nel tardo pomeriggio si chiude e si procede allo scrutinio. I SI all’indipendenza e allà Repubblica sono 677, i NO 21, le schede nulle 15 e le bianche 7. Arrivano anche i Mossos d’Esquadra con un paio di camionette ma le operazioni di voto si sono già svolte e la gente festeggia con applausi e canti. Nella notte Mariano Rajoy appare in tv per dichiarare che non si è svolto nessun referendum d’autodeterminazione, ma nei piccoli paesi così come nelle città, la popolazione è consapevole di aver partecipato a un atto di democrazia diretta e di affermazione della sovranità popolare dalla portata straordinaria. La Repubblica trionfa dappertutto, ora si tratta di proclamarne la vittoria,  prendere il controllo del territorio, cominciare a costruire un paese nuovo, avviare il processo costituente e approfittare di questa opportunità di cambiamento e di trasformazione sociale sulla quale la sinistra anticapitalista e indipendentista catalana ha scommesso più di chiunque altri.

* da Catalunya senza articolo

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