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Mosca 1991-1993: un colpo di stato per conto terzi

GKČP – Gosudarstvennyj Komitet po Črezvyčajnomu položeniju (Comitato statale per lo stato d’emergenza): una generazione è cresciuta, e si è anche abbastanza sviluppata, in Russia e nel mondo, che non c’era ancora quando, nella notte tra 18 e 19 agosto 1991, “gli otto del GKČP” decisero di prendere il posto di Mikhail Gorbačëv (momentaneamente indisposto nella dača di Foros, dissero nel loro annuncio ufficiale) per prevenire la firma dell’accordo che doveva trasformare l’URSS in una Unione confederata di Repubbliche Sovrane, comprendente solo 9 delle 15 Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Tentativo tardivo, oltreché goffo ed evidentemente organizzato allo stesso modo di come si potrebbe preparare una partita a carte. Tempo tre giorni, Boris Eltsin era già padrone (si fa per dire: al Dipartimento di Stato potrebbero a ragione obiettare) della Russia e lo smembramento dell’Unione Sovietica era solo questione di altri quattro mesi.

Tanto che, se si accetta la versione degli “otto gekačepisti” – vice Presidente dell’URSS, Gennadij Janaev, Presidente del Consiglio Valentin Pavlov, Ministro della difesa Dmitrij Jazov, Ministro degli interni Boris Pugo, presidente del KGB Vladimir Krjučkov, tra gli altri – si può benissimo sostenere che Gorbačëv fosse al corrente dei piani e si fosse tirato indietro all’ultimo momento; ma, allo stesso modo, non si sfugge comunque al sospetto che loro stessi stessero facendo (non proprio inconsciamente) il gioco di Boris Nikolaevič e, come si diceva una volta, “in ultima analisi”, dello zio Sam.

Oggi, quello che da 28 anni viene ufficialmente definito un “putsch”, è considerato tale dal 7% dei telespettatori e dal 11% degli internauti russi; le rimanenti percentuali considerano quell’azione un tentativo di “impedire la disgregazione del paese”. Più o meno stesse percentuali (rispettivamente 9% e 11% di approvazione) anche per il successivo banditesco “accordo della Belovežskaja puša – tra i Presidenti di Russia, Bielorussia e Ucraina, Boris Eltsin, Stanislav Šuškevič e Leonid Kravčuk, che sgretolò l’URSS il 26 dicembre 1991.

Nella Russia odierna si preferisce però passare in sordina quei fatti, osserva Golos Mordora (La voce di Mordor); eppure quei giorni, nella leggenda diffusa, rappresentano una “svolta” (in effetti, più sui calendari, che nella realtà della perestrojka) e “l’apogeo di una rivoluzione che, dicono, ha distrutto il regime comunista”. Dunque, perché non parlarne?

Probabilmente perché oggi, scrive Mordor, “molti si vergognano di ricordare quegli eventi; anche coloro che parteciparono direttamente alla “difesa della Russia libera“, o perché “lo facevano tutti”, o perché davvero convinti”. Anche se la fine dell’URSS era “evidente già da prima e quel mediocre tentativo di putsch non poteva cambiare nulla”.

L’aspetto più interessante – e solitamente taciuto – è che “la gente appoggiò il ‘putsch’ alla chetichella, svogliatamente, sperando, senza crederci davvero, che “ora metteranno un po’ d’ordine”: la maggior parte”, ricorda Mordor, “era già stata portata all’apatia dagli scaffali vuoti dei negozi, dalla demagogia dei politici, dalla “parata di sovranità” delle repubbliche dell’URSS. Forse per questo nessuno scese apertamente in strada a sostegno dei cospiratori… E l’esercito, o non obbedì agli ordini, o addirittura si schierò con Eltsin”.

Così che, stranamente, “il colpo di stato, che aveva come obiettivo il mantenimento dell’URSS, accelerò invece il suo collasso”. Il tentativo di “putsch” non fu, in sostanza, che “l’ultimo di una serie di grandi e piccoli tradimenti, che, a partire dalla metà degli anni ’80, hanno lentamente ma sicuramente portato al crollo dell’Unione Sovietica”.

Fu così che Boris Nikolaevič, potè sproloquiare con toni epici di fronte al Congresso USA: “Il mondo può tirare un sospiro di sollievo: l’idolo comunista, che ovunque sulla terra ha seminato discordia sociale, inimicizia e crudeltà senza pari, che ha disseminato paura nella comunità umana, è crollato. Crollato per sempre. E io sono qui per assicurarvi: sulla nostra terra non lo lasceremo risorgere!”.

Vedremo. “Era stato messo il punto al Grande Tradimento. Cominciava l’epoca della Grande Rapina”, conclude Mordor.

Ma, nonostante la propaganda antisovietica che in questi quasi trent’anni non ha fatto altro che intensificarsi, scrive Ekaterina Polgueva su Sovetskaja Rossija, vediamo che se nel 1994, solo il 36% degli intervistati dal Centro Levada valutava molto positivamente l’epoca brežneviana, nel 2019, oltre il 50% ritiene che quell’epoca abbia dato “più cose positive, che negative”, mentre l’attuale potere è considerato “criminale, corrotto” (41%), “lontano, estraneo al popolo” (31%), burocratico (24%) e nessuna “politica estera patriottica di Putin” è in grado di mascherare il suo corso antisociale.

Gli osservatori sono abbastanza concorsi nel ritenere che le tragiche terapie antisociali degli anni ’90, fossero già state avviate verso fine anni ’80. E dunque, dopo la sbornia golpista del 26 dicembre ’91 di Eltsin, Šuškevič e Kravčuk, il 1° gennaio 1992, il governo Eltsin-Gajdar introduce in Russia l’IVA al 28%, abolisce il controllo centralizzato sui prezzi e rimuove le restrizioni per l’acquisto di valuta estera.

I negozi, vuoti fino a ieri, si riempiono per magia di prodotti russi, ma a prezzi strabilianti: carne a 31 rubli al kg, contro i precedenti 2,90; carne di manzo macinata: 72 rubli, contro 3,50. Tutti “prodotti tenuti nascosti per creare un deficit artificiale”, scrive l’osservatore di sknews.ru.

Se l’imposta del 5% sulle vendite, introdotta in URSS nel gennaio 1991 dal governo di Valentin Pavlov, era addebitata solo nella fase di vendita al dettaglio, l’IVA di Gajdar si applicava a ogni fase del processo di produzione, compresi trasporto e stoccaggio. Finiva che, ad esempio, una lattina di concentrato costava in negozio così tanto che nessuna mensa poteva permettersela.

Cominciò così l’andirivieni verso (soprattutto) la Cina per comprare un po’ di tutto e rivenderlo a Mosca: medici, insegnanti, professori, scienziati, bibliotecari e tutti coloro che sopravvivevano con salari statali, si dettero a questo “commercio ambulante” nelle strade della capitale. “Chiusero le mense e si fermarono le fabbriche. Le imprese non avevano fondi per i pagamenti reciproci. I direttori delle aziende pagavano gli operai coi prodotti di fabbrica e questi andavano a venderli sulle strade”.

Arrivarono i famigerati “voucher di privatizzazione” di Anatolij Čubajs, con cui speculatori di partito e direttori di azienda si intestarono fabbriche, miniere, porti, immobili.

Ironia della sorte, “Gajdar ha condiviso il destino di molti milioni di concittadini, da lui ridotti in miseria. Si dette al bere e morì, nel 2009: a detta del defunto Boris Nemtsov, una bottiglia di whisky ogni sera. Secondo il famigerato Jeffrey Sachs, “artefice delle terapie shock in Bolivia, Polonia, Russia e consigliere di Gajdar, la leadership russa ha superato le più fantastiche rappresentazioni dei marxisti sul capitalismo”, dato che considera dovere dello Stato, servire una cerchia ristretta di capitalisti, pompando nelle loro tasche quanto più denaro e il più velocemente possibile.

Gli effetti più tragici di quella terapia targata Eltsin-Gajdar-Čubajs si sono manifestati direttamente sulla popolazione, passata dai 147,6 milioni del 1990, ai 142,8 del 2010, per risalire gradualmente ai 146,7 del 2019. La mortalità superò i 16-17 abitanti ogni mille tra il 1992 e il 1994. La crescita naturale, da un massimo di 17-18/1000 a metà anni 50, era caduta al 5-7/1000 fino al 1988, per poi precipitare rovinosamente a -6 e -7/1000 tra 1988 e 2005. A partire dal 2012, natalità e mortalità hanno iniziati a equilibrarsi, così che negli ultimi 5-6 anni si ha crescita oscillante attorno allo zero.

In effetti, come ricordava tre anni fa Aleksandr Bur su yakutiafuture.ru, il deficit alimentare “era stato creato ad arte” già all’epoca di Mikhail Gorbačëv. Se oggi “i prodotti domestici rappresentano il 55% degli acquisti alimentari, nell’URSS pre-Gorbačëv superavano il 95%”.

Ancora nel 1987, la produzione alimentare cresceva a un ritmo più rapido di popolazione e salari: rispetto al 1980, la produzione di carne era del 135%, quella casearia del 131%, ittica 132%; gli stipendi medi del 19%. L’industria alimentare lavorava a pieno regime. Ma, ecco che a fine 1988, fanno la loro comparsa i “talloni” (le tessere, per vari prodotti) e già verso il 1990, anche con quelli, era difficile trovare qualcosa.

“Se ne può trarre una sola conclusione” scrive Bur: “il deficit era stato creato artificialmente, e non nella fase della produzione, ma nella sfera della distribuzione. La prova migliore è che il 1° gennaio 1992 iniziò la ‘terapia shock’ di Gajdar e il 2 gennaio gli scaffali dei negozi di alimentari erano già pieni”, ma a prezzi proibitivi.

E qualche esponente “comunista” (il futuro primo Sindaco di Mosca, Gavril Popov, per dirne uno) teorizzava la “necessità del deficit per sollecitare il malcontento contro il regime sovietico”.

Nikolaj Ryžkov, presidente del Consiglio dal 1985 al 1990, ricordava come, ad esempio, Eltsin, per screditare il rivale Gorbačëv, in un giorno solo fermasse “per riparazioni” 26 delle 28 fabbriche di sigarette. L’ex Ministro per la stampa, eltsiniano di ferro, Mikhail Poltoranin, ricordava poi come l’oro scorresse a fiumi nell’acquisto di prodotti “stranieri”. Ad esempio: nei porti di Leningrado, Riga o Tallin, si riempivano le stive delle navi con grano a buon mercato, che poi, doppiando Spagna e Grecia, veniva scaricato a Odessa come “importato”, a 120 dollari la tonnellata.

Al tempo stesso, con la creazione di nuovi “istituzioni di ricerca tecnologia”, si formava la nuova nomenclatura di futuri affaristi del PCUS e Komsomol, con nomi che sarebbero poi divenuti noti: Khodorkovskij, Nevzlin, Surkov, Preobraženskij, Lisovskij, ecc.

Si creano le prime cooperative e imprese miste con capitale straniero. Nel 1990, Gorbačëv e Ryžkov obbligano i paesi del Comecon ad adottare il commercio in dollari: questi però non hanno valuta; niente paura: ci pensano FMI e Banca Mondiale. Creando qui la domanda di valuta americana, si priva l’URSS di aree di smercio e si trasferisce con ciò agli USA il controllo sull’intera zona di influenza dell’URSS. La nuova borghesia comincia a esportare tutto: burro, pesce, carne, cereali, zucchero, soprattutto nei paesi del Comecon, ma non solo.

Il 26 dicembre 1991 l’URSS cessa di esistere e il giorno dopo entra in vigore la legge sulla “riforma agraria, con cui si accelera la “decollettivizzazione forzata” delle campagne. Milioni di ettari passano sotto controllo di paesi stranieri: la Cina in estremo oriente e Siberia (si vedono oggi le conseguenze della deforestazione); a ovest: europei e kazakhi. Nel 1992 la Russia entra ufficialmente nel numero dei paesi semi-affamati: un russo medio assumeva solo 2.040 chilocalorie al giorno, contro la norma di 2.600 chilocalorie”.

Pubblicando la famosa foto di Boris Eltsin che arringa la folla dall’autoblinda il 19 agosto ’91, il sito Krasnyj Rassvet (Alba rossa) scriveva ieri che il tizio “in giacca scura, a sinistra di quello straccio di Vlasov” (il tricolore adottato dai filo-nazisti del generale Andrej Vlasov) “è un funzionario del KGB della scorta di Eltsin: Viktor Zolotov. Oggi, è generale, comandante della Guardia nazionale. Le radici dell’attuale corrotto regime autoritario sono nel colpo di stato eltsiniano del 1991”.

Era piovigginoso, quel lunedì mattina del 19 agosto; solo una leggera nebbiolina, per fortuna: poco accorto, la sera prima avevo dimenticato al loro posto i tergicristalli dell’auto e al mattino, ovviamente, non c’erano più.

Oggi si ricorda di come Gorbačëv avesse “creato scientemente il deficit alimentare” e di molti prodotti di prima necessità; quella di fregarsi i tergicristalli sembrava la risposta popolare alla carenza anche di quelli. Sta di fatto, che nessuno scendeva di macchina, senza toglierli dal parabrezza.

Dunque, non avendo acceso né Tv, né radio, ignaro di tutto, non mi stupii però più di tanto quando, lungo la strada, vidi qualche (pochissime) autoblinda ferma in corrispondenza di un paio di incroci. Mi sorpresi solo un po’ di più quando, all’ingresso del lavoro, a fianco del solito miliziano che controllava i pass, c’era un soldatino col mitra ad armacollo. Poi seppi il motivo. Due giorni dopo, era tutto finito.

Ovviamente, i liberali ancor oggi parlano del “putsch d’agosto” del ’91. Come meravigliarsi: erano loro che pagavano migliaia di dollari per ogni cannonata che i carristi della divisione “Kantemirovskaja” sparavano contro il parlamento, nell’ottobre di due anni dopo. Non le tre vittime sacrificali – Ilja Kričevskij, Dmitrij Komar, Vladimir Usov – dell’agosto ’91, ma le decine di dimostranti morti alla torre della televisione il 3 ottobre ’93 e le centinaia di morti fucilati il 4 ottobre dietro il Parlamento dopo essersi arresi agli sgherri eltsiniani.

Quello fu il colpo di stato. Quella fu la prima “majdan” del dopo URSS.

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1 Commento


  • antonio

    …ventottanni (28) dopo – …meglio tardi che mai – si può dire così con questo “squarcio di luce” sulla vicenda che vide crollare l’URSS!
    Non è un romanzo di John Le Carré come: “La spia che venne dal freddo”; piuttosto è: “dal freddo che venne …!”

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