“Cosa accadrebbe se i proletari di tutti i paesi non simpatizzassero e non sostenessero la Repubblica dei Soviet? Ci sarebbe l’intervento e l’annientamento della Repubblica dei Soviet. Cosa accadrebbe se il capitale riuscisse ad annientare la Repubblica dei Soviet? Avrebbe inizio l’epoca della reazione più nera in tutti i paesi capitalisti e coloniali, si comincerebbe a soffocare la classe operaia e i popoli oppressi, verrebbero liquidate le posizioni del comunismo internazionale”. (Stalin, VII Plenum del IKKI, 1926)
Più passano gli anni da quel 1991, allorché fu posto fine, anche formalmente, all’esperienza sovietica, e più appare evidente come la guerra di settant’anni della borghesia internazionale contro il primo paese socialista rispondesse alle necessità elementari del capitale. Limitandoci al nostro paese, diremo che, finché c’è stata l’Urss – l’Urss della degenerazione khuščëviana, delle riforme di mercato kosygiane di metà anni ’60, della stagnazione brežneviana: ma pur sempre l’Urss – si sono avuti Scelba, Tambroni e il suo inciucio con il MSI, la X Mas e i tentativi di golpe, le stragi di fascisti e servizi segreti: la forza bruta per arrestare la marea montante di un movimento operaio che, nonostante i morti ammazzati da polizia e fascisti, riusciva a mantenere e irrobustire le proprie posizioni. Crollata l’Urss, si è avuta la cosiddetta “crisi dei partiti”, la perdita di riferimenti ideali e politici, l’aperto rifiuto delle scelte di classe da parte di chi, pur da tempo avviato lungo la china revisionista, fino ad allora era stato costretto a fingere di mantenere le posizioni; posizioni perse poi a rotta di collo: il seme del jobsact è stato messo a coltura nel 1989 e, soprattutto, nel 1991.
Lo aveva detto senza mezzi termini, nel novembre 1991, Margaret Thatcher, già da un anno ex Iron Lady, in un famoso intervento a Huston: “L’Unione Sovietica presentava una seria minaccia per il mondo occidentale. Non parlo di minaccia militare che, in effetti, non esisteva. Intendo una minaccia economica. Grazie alla politica di piano e all’originale abbinamento di stimoli morali e materiali, l’Unione Sovietica ha potuto raggiungere alti indici economici. Perciò abbiamo sempre operato per indebolire la sua economia e crearle problemi interni, in particolare costringendola alla corsa agli armamenti. In questo modo, contavamo di provocare un massiccio malcontento tra la popolazione”. “Purtroppo, nonostante i nostri sforzi, la situazione politica è rimasta là a lungo stabile” e nemmeno la corsa americana alle guerre stellari aveva avuto effetto. Ma ecco che giungono informazioni sulla “prevedibile prossima morte del leader sovietico e sulla possibilità che al potere, con il nostro aiuto, arrivasse una persona attraverso la quale avremmo potuto realizzare i nostri propositi”. Chi era?
La CIA ha desecretato una serie di documenti relativi, tra le altre cose, anche all’attività di Mikhail Gorbačëv tra il 1984 e il 1991 in qualità di Gensek del PCUS. Nel giugno 1985, l’Agenzia scrive che “Gorbachev ha dimostrato nei suoi primi 100 giorni di essere il più intraprendente e radicale leader sovietico dai tempi di Khrushchev”, deciso a “rompere con il recente passato, criticando le azioni dei suoi colleghi del Politbüro”. Inoltre, “è già riuscito a consolidare la sua base di sostegno nel Politbüro e nella Segreteria e può contare anche su un certo appoggio da parte del livello medio della burocrazia ufficiale”. La CIA delineava quindi scenari diversi, partendo tuttavia dall’esautoramento di Gorbačëv: andranno al potere i conservatori del KGB, che distruggeranno l’economia e, alla fine, faranno posto ai democratici; oppure prevarranno i riformatori, che trasformeranno l’Urss in Confederazione. A Langley sapevano, scrive politikus.ru, che Gorbačëv stava distruggendo l’ordinamento leniniano, senza lasciar nulla al suo posto.
A ventisei anni da quel 1991, si ricordano ancora le tre giornate dal 19 al 21 agosto in cui – a dispetto forse delle intenzioni dei protagonisti, quei membri del GKČP, coi quali è più che probabile che Gorbačëv abbia fatto il doppio gioco – fu dato il via allo showdown finale che sarebbe terminato il dicembre successivo, nella Belovežskaja pušča, con l’intrigo di Eltsin-Šuškevič-Kravčuk, gestito direttamente dalla Casa Bianca. Ed ecco che oggi l’americana The National Interest scrive che “l’Urss la si sarebbe potuta salvare”; come? Naturalmente, con “la liberalizzazione del sistema economico”; e ricorda come, a metà degli anni ’80, l’Urss si fosse incamminata su quella strada. Vero è che National Interest mischia ’85 sovietico, NEP leninaina e “miracolo economico cinese”, sorvolando sulla svolta di Liberman-Kosygin del 1962-’65, che aveva già capovolto i criteri della pianificazione socialista, e ipotizza uno scenario con grandi e medie imprese controllate dallo stato e piccolo business lasciato ai privati: quel piccolo business da cui, scriveva Lenin, “si genera continuamente il capitalismo”.
Uno scenario con cui concorda Juliana Pogosova che, su pravda.ru, lo riproduce quasi alla lettera – con una malintesa interpretazione della NEP, diffusa anche in molta sinistra nostrana, quale “strada ottimale al socialismo, interrotta bruscamente da Stalin” e non come una “temporanea ritirata in vista del nuovo assalto al capitale” – ma poi scrive che se anche nel 1991 si fosse riusciti a evitare il crollo dell’Unione, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di conservare l’Urss nella forma in cui esisteva dal 1922, tanta era la foga nazionalista e separatista innescata dal “nuovo pensiero” gorbačëviano.
Mikhail Sergeevič Gorbačëv, appunto. Le premesse per il crollo erano state avviate da oltre vent’anni, ma il ruolo soggettivo dei protagonisti negli eventi degli anni ’80 e ’90 fu fondamentale. Il politologo iracheno Najm Ad-Dalimi, nel libro “il prezzo del grande tradimento e la disgregazione dell’Unione Sovietica”, riprodotto da balalaika24.ru, scrive tra l’altro che un grosso aiuto nel rimuovere la stragrande maggioranza dei responsabili per il lavoro ideologico del partito e del governo, dirigenti di stampa e TV, fu prestato a Gorbačëv dal membro del Politbüro Aleksandr Jakovlev, che al loro posto promosse amici e sostenitori. Ad-Dalimi ricorda come nel 2008 George Bush senjor conferisse a Gorbačëv la medaglia della Libertà, insieme a un “presente” di 100.000 $, per “il grande contributo dato al crollo di un grande Stato e la svendita dei paesi dell’Europa orientale, DDR in testa. Così misero è stato il prezzo del tradimento del suo popolo, della sua ideologia, del partito, di un ordine giusto”, commenta Ad-Dalimi e sottolinea come, mentre soggetti quali George Soros, il Krieble Institute e National Endowment for Democracy sponsorizzavano il “nuovo pensiero”, Jakovlev e Gorbačëv lavorassero di lena per per indebolire lo status del PCUS quale principale forza politica della società e dello stato e riuscissero a minare il sistema socialista, abolendo l’articolo 6 della Costituzione, sul ruolo guida del Partito comunista. Nella “divisione dei compiti”, sintetizza Ad-Dalimi, Jakovlev si occupava di “lanciare false accuse all’indirizzo del marxismo-leninismo e dei suoi autori”, mentre Gorbačëv si dedicava alla “selezione dei dirigenti di partito”.
E, come a rispondere a quanti parlano ancora oggi di un Gensek frustrato nella sua spinta riformatrice, perché il “materiale umano” a disposizione “era quello che era”, Ad-Dalimi ricorda come Mikhail Sergeevič, dietro gli slogan di “perestrojka” e “rinnovamento” della società sovietica, avesse sostituito, con uomini a lui fedeli, oltre i due terzi dei quadri di partito a tutti i livelli, oltre a direttori di fabbrica, presidenti di kholkoz, di sovkhoz e di istituzioni accademiche.
Con l’aperta liberalizzazione economica e le scelte politiche “democratiche”, di lotta al “sistema di comando-amministrativo”, si spianava quindi la strada, da un lato, agli scoppi di acceso nazionalismo e separatismo, dal Baltico al Caucaso e, dall’altro, all’arricchimento ladresco della élite industriale-partitica e poi al falso populismo eltsiniano, con il fermo delle principali produzioni, sia dell’industria pesante che di quella leggera, l’assenza di prodotti di consumo, corruzione, mafia, speculazione, e arrivavano così i “malvagi ’90”, con la svendita delle imprese al capitale straniero, la liquidazione dell’industria, lo sfaldamento prima dell’Urss e poi delle basi materiali – economiche, sociali, amministrative e militari – della stessa Russia.
Vincere i nostri capitalisti, noi possiamo” aveva affermato Stalin nel 1926; “iniziare e portare a termine l’edificazione del socialismo, noi siamo in grado; ma questo non significa ancora che saremo in grado, con ciò stesso, di garantire il paese della dittatura del proletariato dai pericoli esterni, dai pericoli dell’intervento e della restaurazione a esso legata, la restaurazione dei vecchi ordinamenti. Noi viviamo non su un’isola. Viviamo nell’accerchiamento capitalistico. La circostanza per cui noi edifichiamo il socialismo e con ciò stesso rivoluzioniamo gli operai dei paesi capitalisti, non può non suscitare l’odio e l’avversione di tutto il mondo capitalista”. Da settant’anni, Stanza ovale e Downing street non si limitavano a covare quell’odio, ma agivano.
Nell’appello diffuso dal GKČP il 18 agosto 1991, si lanciava l’allarme contro “le forze estremiste, indirizzate verso la liquidazione dell’Unione Sovietica”, che dovranno rispondere “delle centinaia di vittime di conflitti interetnici”, ora che la “crisi di potere si riflette in misura catastrofica sull’economia” e “il caotico e anarchico scivolamento verso il mercato evoca un’esplosione di egoismo”. Insieme a ciò, “cresce la criminalità, che si organizza e si politicizza”; la “promozione di tendenze centrifughe si risolve nella distruzione di un meccanismo economico unitario” ed “è in corso l’attacco ai diritti dei lavoratori. E’ in pericolo il diritto al lavoro, all’istruzione, all’assistenza sanitaria, alla casa”. Il GKČP esortava “gli operai, i contadini, l’intelligentsia e tutti i cittadini sovietici a ristabilire celermente la disciplina di lavoro ed elevare la produzione”. In questo quadro, “si odono note revansciste e si avanzano pretese a rivedere i nostri confini. Si levano addirittura voci sullo smembramento dell’Unione Sovietica e un possibile protettorato internazionale su alcune aree del nostro paese”.
Intervistato oggi da Komsomolskaja Pravda, uno degli 8 membri del GKČP, l’ex Ministro della difesa dell’Urss, Dmitrij Jazov, ricorda i “giochetti funesti tra Eltsin e Gorbačëv … si doveva salvare il paese e loro invece si davano ai battibecchi”. In quei giorni d’agosto “non ci fu alcuna congiura; altrimenti, perché saremmo andati a Foros” dove era in vacanza Gorbačëv? Andammo là, afferma Jazov, “per chiedergli di introdurre lo stato di emergenza. Ma lui se ne infischiò”. Oggi “il popolo ha compreso di esser stato ingannato con la democrazia, con il capitalismo di rapina. Quei liberali-democratici stavano facendo il comunismo per se stessi”.
Se oggi la Russia putiniana è tornata da protagonista di vertice sulla scena mondiale, non si possono chiudere gli occhi sulla situazione sociale interna, caratteristica di un ordine capitalista e oligarchico. Ancora per tutti gli anni ’50, l’Urss poteva vantarsi di diminuire quasi ogni anno i prezzi dei prodotti alimentari; oggi, con la crisi in atto, 25 milioni di pensionati (54%) si ciba di cereali a basso prezzo invece che di carne e pesce, così che, scrive Moskovskij Komsomolets, la dieta della maggior parte di essi non risponde alle norme del Ministero della Salute. Negli ultimi due anni, infatti, i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati in media del 32%, con punte del 99% per il grano saraceno, 91% il pollame, 80% le patate, 68% le uova, 55% il latte, 110% i pomodori, 233% i cetrioli; aumenti in media del 25% sulle tariffe comunali e condominiali. Così che si calcola che circa il 25% delle donne e il 20% degli uomini continuino a lavorare anche dopo la pensione; mentre, per non restare indietro rispetto a quel “Occidente sviluppato” tanto agognato dai “riformatori” degli anni ’80 e ’90, si avvicina sempre più l’innalzamento dell’età pensionabile.
In quell’agosto del 1991, alla Stanza ovale e a Downing street, potevano ben ribadire coi soldati del Faust goethiano “ardua è l’impresa, splendido il premio”.
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