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Non c’è crisi per l’industria delle armi

Gli USA hanno testato un missile balistico a testata convenzionale con base a terra, vietato dall’Accordo russo-americano sulla liquidazione dei missili a medio e corto raggio (DRCMD, secondo la dizione russa; IRNFT: Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty, la versione anglosassone).

Washington vanta di aver messo a punto un razzo “terra-terra”, capace di superare le difese anti-missilistiche russe; secondo valutazioni diverse, il raggio del nuovo missile andrebbe dai 550 ai 750 km, nell’ottica appunto dell’abbandono del Trattato INF da parte USA.

Annunciando il lancio, lo scorso 12 dicembre, il Segretario alla difesa yankee, Mark Esper, ha ammesso candidamente che la sperimentazione del nuovo missile era iniziata nove mesi fa, quando Washington aveva sì sospeso l’adempimento degli obblighi relativi al INF, ma non era ancora uscita dal trattato. Sulla base del video, pubblicato dallo stesso Esper, gli esperti osservano che il nuovo missile ricorda il vecchio Pershing II, formalmente eliminato secondo il trattato INF.

Pochi giorni prima del lancio, il 9 dicembre, era stato pubblicato il rapporto del SIPRI per il 2018, da cui risulta che la Russia ha conservato il secondo posto mondiale tra i maggiori produttori di armi. Un secondo posto (36,2 miliardi di dollari, pari al 8,6%: -1,1% rispetto al 2017) ben lontano dai produttori USA, che mantengono il primato con 246 miliardi (59% mondiale: +7,2% rispetto al 2017) di dollari. Terza e quarta posizione, rispettivamente, per Gran Bretagna e Francia.

La classifica generale vede un aumento complessivo del commercio di armamenti del 4,6% sul 2017 (+47% rispetto al 2002) per un totale di 420 miliardi di dollari, incamerato dai 100 più grossi produttori (Cina esclusa, perché, scrive SIPRI, mancano “dati comparabili e sufficientemente precisi”) e vede anche i primi cinque posti mondiali occupati da altrettante compagnie statunitensi – Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman, Raytheon, General Dynamics – le cui vendite rappresentano da sole il 35% (148 mld $) del volume globale. Tra le prime 100 imprese mondiali, ben 48 sono statunitensi.

La più forte tra le imprese russe, Almaz-Antej, occupa la 9° posizione, con il 27% del commercio totale russo. Nel 2018, le vendite di Almaz-Antej (produttore, tra l’altro, dei sistemi missilistici S-400) sono cresciute del 18% rispetto al 2017, per 9,6 miliardi di dollari. Nella classifica, altre nove imprese russe, tra la 15° posizione della Obedinënnaja Aviastroitelnaja Korporatsija (5,4 mld $) e il 64° posto della UralVagonZavod (1,37 mld $), produttrice di carri armati: dal leggendario T-34 al moderno T-14 “Armata”. Tutte le imprese di armi russe sono al 90% di proprietà statale, qualunque cosa ciò significhi oggi.

Il SIPRI certifica poi un aumento delle vendite francesi, insieme a una leggera flessione (-4,8%) di quelle britanniche, che comunque rimangono le più forti in Europa (8,6% mondiale: 35,1 mld) e tedesche. L’aumento del commercio francese (5,5%: 23,2 mld) sarebbe legato all’impennata (+30%) nelle vendite della Dassault Aviation. I quattro gruppi tedeschi presi in esame dal SIPRI hanno perso circa il 3,8% e solo l’aumento delle vendite di Rheinmetall (22° posizione; 3,8 mld $) alle forze armate tedesche contrasta il calo delle vendite di Thyssen-Krupp.

Proprio la Rheinmetall Waffe Munition GmbH (divisione del gruppo Rheinmetall) ha messo a punto il primo prototipo di un cannone a canna liscia da 130 mm “Next Generation (NG) 130”, da montare presumibilmente su nuovi carri armati USA di nuova generazione Next Generation Combat Vehicle (NGCV).

Tra l’altro, le prospettive di lotta contro il riarmo e l’industria bellica tedesca, costituiranno uno dei sei gruppi di lavoro in programma alla XXV Internationale Rosa-Luxemburg-Konferenz il prossimo gennaio a Berlino: le “esportazioni di armi come quelle del Gruppo Rheinmetall” – scriveva il 15 dicembre Die junge Welt –sono direttamente legate a guerre globali, emigrazione, morte e hanno anche un grave impatto sulla catastrofe climatica globale. Le armi tedesche sostengono per terra e mare il micidiale regime europeo delle frontiere contro i rifugiati”.

Tra le prime dieci imprese mondiali, troviamo anche l’italiana Leonardo, in 8° posizione, proprio davanti alla russa Almaz-Antej, con vendite di armi per 9,8 miliardi di dollari (che rappresentano il 68% delle vendite totali del gruppo) e Fincantieri, salita dal 59° posto del 2017 al 50°, con circa 2 miliardi di dollari.

Settimo posto per il Gruppo tedesco-francese-spagnolo Airbus, produttore, tra l’altro del caccia Eurofighter Typhoon, con 11,6 miliardi di dollari e 23° posto per l’altro gruppo “inter-europeo” MBDA (produzione missilistica; 3,78 mld $), cui partecipa con il 25% anche l’italiana Leonardo. L’insieme di 27 compagnie europee controlla un buon 24% del commercio globale, per 102 miliardi (+0,7% sul 2017), tanto che 80 dei 100 più grossi produttori di armamenti hanno sede in USA, Europa e Russia.

Per quanto riguarda specificamente il ruolo della Russia, l’osservatore dell’Istituto per le ricerche strategiche Sergej Ermakov, intervistato da Svobodnaja Pressa, afferma che non è corretto paragonare l’attuale export russo di armi con quello sovietico. A differenza della Russia, dice Ermakov, l’URSS “non praticava commercio di armi. Le forniture di armi in epoca sovietica erano motivate da politica e ideologia; il profitto non era l’argomento principale; era semmai un modo per ampliare l’influenza geopolitica. L’appesantimento del sistema economico nella tarda Unione Sovietica indica anzi che i leader sovietici concepivano il complesso militare-industriale e l’economia come sfere completamente diverse”.

Per gli americani, al contrario, “il commercio di armi è sempre stato soprattutto business. E, investendo nella produzione militare, gli USA hanno sempre contato di ottenere un effetto sinergico, un balzo per l’intera economia”.

Alla domanda, quanto sia importante oggi per la Russia rimanere tra i leader nel commercio delle armi, Ermakov risponde che ciò è “eccezionalmente importante. Se perdessimo le nostre posizioni sul mercato delle armi, ciò si rifletterebbe negativamente sull’economia nel suo insieme. Inoltre, indeboliremmo la nostra influenza geopolitica: ne è un esempio la fornitura alla Turchia dei sistemi S-400, a dispetto della volontà contraria USA”.

Su questo sfondo, il bilancio militare NATO nell’ultimo anno ha oltrepassato il trilione di dollari. Le spese militari dell’Alleanza atlantica, nota Anton Čablin su Svobodnaja Pressa, hanno assunto un “ritmo galoppante” a partire dal 2014, con la parte del leone fatta da USA (752 mld di dollari) e Francia (51 mld). A tale bilancio NATO, nel 2018 la Russia ha opposto un budget di 46 mld di dollari, molto lontano dal bilancio complessivo NATO.

L’Alleanza atlantica considera infatti apertamente la Russia quale nemico, afferma il politologo Mikhail Roščin: “se non ci fossero stati gli avvenimenti ucraini, la NATO sarebbe ancora più vicina alle nostre frontiere. La NATO aveva la possibilità di procedere a una de-escalation nei rapporti con la Russia, ma tale possibilità fu respinta da Bill Clinton, che decretò l’allargamento a est della NATO”.

Nei prossimi mesi di aprile e maggio, proprio in coincidenza del 75° anniversario della vittoria sovietica sul nazismo, la NATO si appresta a “celebrare” la data con il più grosso spiegamento militare al confine russo da 25 anni, con 37.500 soldati e oltre 33.000 mezzi.

La corsa agli armamenti procede spedita.

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