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I rifugiati-bambini, figli dell’onda

Erano piccoli, veramente piccini per prendere il mare. Persino Ascanio, che partiva tenuto per mano da chi lasciava una città in fiamme per entrare nella storia, aveva più anni di loro. Eppure Ali, Pari, Jabreel i venti bambini afghani, siriani, iraniani sbarcati sui lidi calabresi hanno altrettanto diritto ad avere un posto nell’epica. Fuggono egualmente da assedi ben più lunghi di dieci anni. Quando tutto iniziava loro, che ne hanno al massimo tre, non erano nati e i fratelli neppure. Forse non avevano visto luce né le loro madri né i padri. Quei conflitti combattuti nella terra d’origine precedono generazioni costrette a vivere nelle guerre altrui che hanno il sapore acre dei torti subìti. Solo se chi ha il potere d’informare racconterà queste storie scopriremo cosa avranno visto i minuscoli occhi nei giorni di asfissiante bonaccia. Potremo sapere cosa riveleranno a chi avrà il cuore di non riportarli oltre il confine. Il confine del mare è inafferrabile e ingiusto più di qualsiasi dogana posta in un’aperta pianura. Le vite che affidano all’onda il diritto di continuare a vivere dovrebbero ricevere la benedizione degli uomini, di tutta l’umanità che ha occasione d’incontrale. Rifugiati o migranti che siano, ma soprattutto bambini. Il futuro che portano nei pochi mesi di vita ha diritto a un domani. Accanto al calore delle braccia materne, devono ricevere cibo e assistenza. Con quest’aiuto e un’auspicabile accoglienza l’Odissea dei piccoli naviganti potrà diventare un’ode magniloquente. Così da poterne scrivere senza parlare sempre di Karzai.

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