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Grecia in default “tecnico”, ma non si può dire

Gli unici a reagire – ovviamente in negativo – sono stati i mercati. Nuovi record per i rendimenti dei titoli di Stato della Grecia: il tasso del biennale è schizzato per la prima volta sopra il 250% (252,61%) e quello del decennale ha superato la soglia del 40% (40,5%).

Ciò nonostante, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, si è detto «fiducioso» che una parte sufficiente dei creditori privati accettino la proposta sul taglio del debito greco in loro possesso. «La mia previsione è che una maggioranza sufficiente dei creditori privati accetteranno questa offerta», ha detto ieri sera il ministro in una trasmissione della televisione bavarese. «Abbiamo bisogno di una maggioranza dei due terzi. In tal caso la Grecia – e Atene lo farà – grazie a una decisione a maggioranza dei creditori, potrà avanzare scelte vincolanti anche per gli altri» creditori.

Giovedì a mezzanotte scadrà il termine per accettare il taglio volontario del debito ellenico in mano ai privati, pari a 107 miliardi di euro. «Venerdì mattina vedremo se sarà stata raggiunta» la percentuale necessaria, ha constatato Schaeuble: «Io sono fiducioso».

I media, di conseguenza, parlano dell’autentico crollo di ieri sulle piazze europee (Milano ha perso il 3,39%), collegandolo solo in modo generico a “preoccupazioni” per il debito greco. Ma senza approfondire (basta vedere la cautela dell’articolo dedicatogli dal quotidiano di Confindustria).

Tutt’altra reazione, invece, dell’autorevole commentatoire del Financial Times, Martin Wolf.

 

 

Atene non paga chi dice no allo swap

Vittorio Da Rold

Ieri nell’evidente tentativo di far pressione sui detentori internazionali di bond l’Agenzia di gestione del debito pubblico greco ha reso noto in un comunicato che Atene «non contempla la disponibilità di fondi per effettuare i pagamenti ai creditori del settore privato che si rifiutano di partecipare». Atene non dice direttamente che non rimborserà chi non accetta lo swap, ma che il suo programma economico «non contempla» questo caso.

La minaccia si rivolge in particolare al 14% degli investitori che possiedono titoli greci emessi ai sensi del diritto internazionale. Il restante 86%, che possiedono obbligazioni sotto la legge greca, nello stesso comunicato sono stati avvertiti che la Grecia avrebbe usato le cosiddette clausole di azione collettiva (Cac) per far diventare vincolante lo swap su qualsiasi obbligazionista.

Come se non bastasse secondo un rapporto dell’Iif, un ipotetico default disordinato dei 357 miliardi di euro del debito complessivo della Grecia potrebbe costare oltre mille miliardi di euro e comporterebbe aiuti straordinari per Italia e Spagna, due pesi massimi dell’Eurozona. La stima è contenuta in un report dell’istituto internazionale di Finanza (Iif) guidato dal direttore generale Charles Dallara e dal co-presidente Jean Lemierre di Bnp Paribas e che raggruppa le maggiori banche creditrici della Grecia, secondo il quale gli aiuti internazionali a Italia e Spagna da parte dei fondi di salvataggio europei (Efsf e Esm) e dell’Fmi salirebbero a 350 miliardi di euro. Anche Irlanda e Portogallo avrebbero bisogno di più aiuti. Insomma si tratterebbe del tanto temuto «effetto domino» dei mercati finanziari che ha fatto sconquassi in tutto il mondo con il fallimento disordinato di Lehman Brothers.

Il ministro delle Finanze greco, Evangelos Venizelos, che viene considerato già il futuro leader del Pasok al posto di George Papandreou, ieri si è detto ottimista sulla ristrutturazione del debito: dovrebbe riuscire a raggiungere un’adesione del 75-80% all’accordo sullo ‘swap’ dei propri bond. Tuttavia, c’é il rischio che l’adesione al piano sia inferiore al 90%, soglia ritenuta da Atene indispensabile per evitare che scattino le eventuali clausole di azione collettiva da parte di coloro che non intendono aderire al piano di ristrutturazione del debito. Lo ‘swap bond’ con i privati – ossia lo scambio di 206 miliardi di euro di titoli greci vecchi con nuovi che avranno scadenze più lunghe e interessi più bassi – è parte integrante del secondo piano di aiuti per la Grecia da 130 miliardi di euro, volto ad evitare il default del Paese. Lunedì scorso 12 dei 13 membri dell’Istituto della Finanza Internazionale, che complessivamente detengono bond per 40 miliardi di euro, hanno dato il loro sostegno all’accordo di concambio. La scadenza è fissata per domani sera alle 21 ma non è escluso una proroga dell’ultima ora.

Infine un paradosso. Aiutare la Grecia in difficoltà ha fruttato a Berlino 380 milioni di euro, grazie agli interessi sul primo pacchetto di aiuti. Lo rivelano documenti del ministero delle Finanze tedesco, secondo cui a fronte di un contributo finanziario di Berlino nel 2010 di 15,17 miliardi di euro, Atene ha pagato interessi tra il 3,423% e il 4,528%, facendo rientrare nelle casse tedesche 380 milioni di euro.

Da Il Sole 24 Ore

 

Il rigore tedesco ingabbia l’Europa

Una follia è fare più volte la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi. La determinazione della Germania a imporre una camicia di forza finanziaria ai suoi partner non funzionò ai tempi del ‘Patto di crescita e stabilità’. Potrà funzionare con il “Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance”, su cui è stato raggiunto un accordo la settimana scorsa? Ne dubito. Il trattato è il prodotto di una convinzione che la crisi sia stata causata dalla mancanza di disciplina di bilancio, e che la soluzione potrà venire da una maggiore disciplina. Ma la disciplina di bilancio non è tutta la verità, neanche lontanamente.

 

E l’applicazione rigorosa di un’idea così infondata è pericolosa. Questi timori ora sembrano lontani. Le operazioni di rifinanziamento a lungo termine della Banca centrale europea hanno allentato la pressione sulle banche e sui mercati finanziari, compresi i mercati dei titoli di Stato.

 

Nelle due tranche di questa operazione, le banche hanno preso in prestito più di mille miliardi di euro per tre anni a un tasso dell’1% soltanto. I rendimenti dei titoli di Stato decennali italiani e spagnoli sono scesi sotto al 5%, contro un livello massimo del 7,3% per l’Italia e del 6,7% per la Spagna, alla fine dell’anno scorso. Altrettanto pronunciato è stato il calo dei Cds sui titoli bancari: lo spread di Intesa Sanpaolo è sceso dai 623 punti base di novembre ai 321 di questa settimana. Ma la crisi non è passata. Chi più chi meno, i Paesi vulnerabili restano in difficoltà. Questi piani di risanamento hanno salvato l’Eurozona dalle sue crisi a catena? Riusciranno a tirare fuori da queste crisi i Paesi colpiti? La risposta è no, a entrambe le domande.

 

La nuova regola di fondo è che il disavanzo di bilancio strutturale di uno Stato membro non deve eccedere lo 0,5% del prodotto interno lordo: di fatto, questo costringerebbe i Paesi ad avere un bilancio strutturale in attivo. Inoltre, se un Paese ha un debito superiore al 60% del Pil, l’eccedenza dovrà essere eliminata al ritmo medio di un ventesimo dell’eccedenza ogni anno: un Paese come l’Italia, con un debito intorno al 120% del Pil, dovrebbe ridurre questo rapporto di un 3% del Pil ogni anno. Questo è lo schema a cui tutti i membri dell’euro dovranno aderire e queste regole dovranno avere forza di legge, meglio se scritte nella Costituzione.

 

È un trattato che solleva profondi interrogativi, sul piano giuridico, politico ed economico. Da un punto di vista economico è logico prendere come riferimento non il disavanzo effettivo, ma il disavanzo corretto in base alla congiuntura. Ma quello che per la scienza economica è un miglioramento comporta una minor precisione: nessuno sa che cos’è un disavanzo strutturale. Non si tratta di sofismi: prendiamo i saldi strutturali per il 2007 (l’ultimo anno – per la gran parte – prima della crisi) calcolati dal Fondo monetario internazionale nell’ottobre di quell’anno (in ‘tempo reale’, per così dire). L’indicatore avrebbe dovuto urlare ‘crisi’: eppure la Spagna registrava un forte avanzo strutturale e l’Irlanda era in pareggio; sia Madrid che Dublino erano in condizioni migliori della Germania. La Grecia aveva un disavanzo strutturale importante, ma il Portogallo aveva un disavanzo più basso di quello della Francia. La regola non avrebbe fatto distinzioni tra Paesi vulnerabili e Paesi immuni perché non tiene conto di bolle speculative e manie finanziarie.

 

L’Fmi in seguito ci ha ripensato. A ottobre 2011 era giunto alla conclusione che il disavanzo strutturale della Grecia nel 2007 era stato del 10,4% invece che del 4%, e quello dell’Irlanda dell’8,4% invece che dello 0,1%. Non lo dico per criticare l’Fmi, ma solo perché dimostra che il concetto che i Paesi dell’euro vorrebbero incastonare in un trattato è deficitario proprio laddove il bisogno di accuratezza è maggiore: il vero disavanzo strutturale è inconoscibile. Pensate alle implicazioni politiche e legali: un Governo eletto accetterebbe le stime approssimative di tecnici che non devono rendere conto a nessuno? E poi, i giudici come farebbero a giungere a una decisione? Valuterebbero i pregi e i difetti di diversi modelli econometrici? Dal momento che probabilmente ci sarebbero forti discostamenti nelle stime dei disavanzi strutturali, come farebbe un Governo ad adeguarsi? Dare forza di legge a un concetto incommensurabile appare una follia.

 

Si profila all’orizzonte una controversia tra le istituzioni europee e il nuovo Governo spagnolo di Mariano Rajoy. Rajoy ha dichiarato che il suo esecutivo si porrà come obbiettivo un disavanzo del 5,8% del Pil, inferiore all’8,5% del 2011, ma molto al di sopra del 4,4% concordato con la Commissione. La quale sbufferà, ma non può costringere un Governo sovrano a fare quello che vuole lei. I partner della Spagna possono rifiutarsi di aiutare Madrid, ma il rischio è che il mancato aiuto finisca per ritorcersi contro di loro. Le difficoltà di bilancio della Spagna sono una conseguenza della crisi, non una causa: il Paese iberico ha avuto un colossale aumento del debito privato dopo il 1990, in particolare per quanto riguarda le grandi aziende non finanziarie; l’eccedenza di costruzioni residenziali esclude anche un forte indebitamento da parte delle famiglie. Alla luce di tutto questo, è molto improbabile che una drastica riduzione del debito pubblico sia compensata da un incremento dell’indebitamento e della spesa del settore privato. Il risultato, più verosimilmente, sarà una recessione molto più grave, accompagnata da scarsi progressi nella riduzione del deficit effettivo. Nella peggiore delle ipotesi potrebbe innescarsi una micidiale spirale discendente. Invece di costringere la Spagna a risanare in tempi rapidi i conti pubblici sarebbe molto più logico dare al Paese il tempo necessario perché le ambiziose riforme del mercato del lavoro producano i loro effetti, e per questo ci vorranno anni.

 

Ma se l’Eurozona sarà disposta a garantire il tempo necessario perché avvengano questi aggiustamenti, i Paesi in surplus devono essere consapevoli del loro ruolo. Senza dubbio l’emersione in parallelo di eccedenze e disavanzi delle partite correnti, i flussi finanziari transnazionali e la follia dei prestatori transnazionali sono stati fra i principali fattori all’origine della crisi odierna. In un documento pubblicato il mese scorso la Commissione ha indicato di voler mettere sotto esame una serie di Paesi in disavanzo nel saldo con l’estero, facendo perfino i nomi dei peccatori. È necessaria un’analisi in parallelo dei Paesi in surplus. Anche il documento della Commissione solleva il problema, ma non si avventura a indicare Paesi specifici da sottoporre a più attenta analisi. Quindi sì, la Bce è riuscita a far guadagnare alla zona euro un po’ di tempo, ma nulla o quasi sembra indicare che sia stata trovata una strada per giungere al necessario riequilibrio della sua economia, e soprattutto per realizzare l’auspicata combinazione di riforme, aggiustamento e pronto ritorno alla crescita. La strada prescelta sembra annunciare, al contrario, anni di aggiustamenti unilaterali e lacrime e sangue. Funzionerà? Ne dubito fortemente. Nella migliore delle ipotesi, possiamo aspettarci un percorso molto accidentato.
(Traduzione di Fabio Galimberti)


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