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Fondi sovrani, un’ascesa inarrestabile

 

L’economia «regolata» è quella che funziona meglio. E mentre l’eurozona si dibatte tra «rigoristi» e «sviluppisti» – moltiplicando quella confusione che alimenta «sfiducia» nelle capacità di soluzione della crisi finanziaria continentale – altrove si vanno costruendo portaerei capaci di fare la guerra in qualsiasi angolo del mondo.
Stiamo parlando di finanza, non di armamenti militari. E i paesi che dispongono di questa (nemmeno tanto) innovativa artiglieria sono in genere – Cina a parte – praticamente inermi davanti alle superpotenze vere e proprie. Ma i «fondi sovrani» sono in rapidissima crescita. Non differiscono in nulla dai normali fondi di investimento privati, tranne che per due caratteristiche: sono molto più «dotati» della media e sono gestiti direttamente dagli Stati. Quindi la loro logica d’azione non può essere mai soltanto «economica»; né i loro investimenti vengono accettati allo steso modo ovunque. Quando i cinesi hanno provato ad avanzare offerte per le società di gestione di alcuni porti statunitensi hanno ricevuto un fermo «no, grazie». E così per altre società in settori considerati «strategici».
In Italia, appesa a investitori nazionali in fuga, non si guarda tanto per il sottile: il 35,6% delle società quotate a Piazzaffari hanno nell’azionariato una presenza «sovrana» più o meno corposa. Tanto che la Consob ha parlato esplicitamente di «minaccia per la sicurezza nazionale». La media europea è meno della metà. Segno che altrove si è un tantino più diffidenti nel consegnare le chiavi dei propri gioielli di famiglia. Del resto, siamo anche l’unico paese «grande» d’Europa che ha privatizzato quasi tutto, disgregando il proprio patrimonio industriale.
I «sovrani» – se ne contano appena 53 in tutto il mondo – nel 2010 maneggiavano 4mila miliardi di dollari; ma entro tre anni dovrebbero arrivare a 11mila. Da dove arrivano tanti soldi? Dalle materie prime – quasi tutti questi paesi sono forti esportatori di idrocarburi o minerali – e dai «surplus fiscali». Il più grande in assoluto è per ora quello norvegese, che dispone di 650 miliardi di dollari.
Bisogna però fare le proporzioni. 11mila miliardi sono una cifra che supera il prodotto interno lordo di tutti i paesi del mondo, meno gli Usa (15mila). I quattro più grandi paesi dell’euro stanno – tutti insieme – al di sotto di quella cifra (l’Italia in crisi viaggiava nel 2011 intorno ai 1.580 miliardi).
È evidente che questa massa di denaro «fa» i mercati tanto quanto gli hedge fund o i prodotti «derivati». Ma difficilmente possono essere usati come «arma politica». Cina a parte, dicevamo, gli altri giganti dei sovereign fund non possono rischiare l’inimicizia di nessun paese «vero».
Il 35% della cifra totale viene infatti dai paesi petroliferi del Medio Oriente, quasi sempre legati a doppio filo con gli Stati uniti. Al massimo potrebbero supportare ondate speculative originate sulle piazze anglosassoni, ongigantendone gli effetti; ma non certo su iniziativa autonoma. Il 37%, invece, arriva dall’Asia e vede la microscopica Singapore tra i giganti finanziari. Persino in Africa i paesi petroliferi (Nigeria, Angola, Tanzania) sono riusciti a costruirsi dei propri fondi sovrani, con obiettivi di investimento tutto sommato locali (limitati all’Africa subsahariana).
La «minaccia», insomma, è tale solo per quelle aree – la scombiccherata Italia fra queste – che non hanno più una chiara «mission» nella divisione internazionale del lavoro contemporanea. E che quindi vanno in cerca dello «sceicco bianco» per vendergli quel poco di interessante che è rimasto in casa. Soprattutto squadre di calcio, pare.

da “il manifesto”

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