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L’euro “tedesco” sfascia l’Europa

Con la divaricazione crescente tra le economie dell’area euro escono allo scoperto anche i meccanismi “coperti” che hanno costituito fin qui l’Unione Europea come un sistema squilibrato, ma soprattutto squilibrante. Le “rivelazioni” si susseguono e sono proprio i giornali più “padronali” a spendersi in questa opera di informazione.

 

Lo fanno in chiave “anti-tedesca”, in genere, perché il peso relativo dell’economia di Berlino cresce in modo proporzionalmente diretto all’imposizione dell’austerity a tutta l’Europa “piigs”. Questo articolo da IlSole24Ore di oggi, però, centra con particolare precisione il vero punto dolente: la moneta unica e l’impossibilità di far valere per tutti le “regole europee”. La quale, lungi dall’avvicinare i livelli di benessere dei vari paesi, li va invece differenziando al massimo, con alcuni condannati alla miseria crescente e altri (uno, fondamentalmente) che si arricchiscono. Una citazione è d’obbligo:

 

Questa dinamica (le esportazioni crescenti della Germania, ndr) accentua gli squilibri tra i Paesi che operano nell’ambito della stessa area valutaria. In condizioni normali, con l’aumentare delle esportazioni, la valuta tedesca si sarebbe rivalutata, i prodotti tedeschi sarebbero risultati via via meno convenienti e il surplus si sarebbe automaticamente ridotto rendendo più armoniosi gli scambi all’interno della stessa area valutaria.

Essendo l’euro un sistema a cambio rigido, questo squilibrio non ha potuto essere compensato attraverso il mercato delle valute: l’attuale impostazione politica europea prevede invece che i Paesi meno competitivi debbano svalutare i salari (svalutazione interna) in un percorso complesso e doloroso.

 

È abbastanza chiaro? Diciamola così: non solo la Germania ha potuto giovarsi di una moneta “debole” rispetto al proprio potenziale competitivo, ma – tramite l’Unione Europea, in cui agisce come “socio di riferimento” con ampi poteri di indirizzo e di veto – ha costretto i paesi deboli a dissanguare le rispettive popolazioni nel tentativo peraltro impossibile di “recuperare competitività” comprimendo salari, consumi, spesa pubblica, welfare, ecc.

 

I paesi deboli, inchiodati (anche) da una moneta troppo forte, pagano due volte. La prima, perdendo quote di esportazioni a vantaggio della Germania; la seconda, distruggendo quella parte del proprio potenziale industriale più orientato ai consumi interni (se crolla l’occupazione, si riducono i salari, si taglia la spesa pubblica, ne consegue che i consumi interno vanno a ramengo; come si vede ogni giorno andanso al supermercato). Anzi, potrebbero pagare addirittura una terza volta se – come pretende di afre la Ue – verrà loro sottratta la quota di “fondi europei” a causa del mancato rispetto del rapporto deficit/Pil (al 3%).

 

Si potrebbe pensare che quello spaventoso “surplus tedesco” vada ad alimentare almeno la “domanda interna” tedesca (e olandese, austriaca), incentivando per rimbalzo le importazioni da altri paesiUe.

 

Non è così. La Germania ha addirittura anticipato gli altri paesi nella politica della “moderazione salariale”. E se anche i salari tedeschi restano mediamente molto superiori a quelli medi europei (oltre i 2.000 euro mensili), è vero anche che non aumentano più da molti anni a questa parte; e che una serie di “contratti atipici” (chiamati “mini-job”) sono da parecchio tempo la via unica o quasi per l’ingresso nel mondo del lavoro. I lavoratori d’oltralpe, insomma, non ci stanno guadagnando niente, se non una disoccupazione minore della media.

 

A guadagnarci, invece, solo grandi le imprese tedesche (e olandesi, austriache), che a questo punto hanno consistenti possibilità di investire per “crescere”. Ma non indirizzano certo i loro nuovi investimenti verso gli altri paesi europei, specie se in crisi… Cercano le “occasioni migliori”, ovvero gli “emergenti”, la Germania stessa (ma sempre meno…), persino gli Stati Uniti.

 

Quale lezione trarne? Che l’euro è un problema in più, per i paesi europei. Certo, la crisi globale ha destabilizzato le economie già per suo conto; ma la gravità particolare con cui si manifesta nei paesi “piigs” (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, spagna, cui si è aggiunta Cipro e si va allineando la Slovenia, con la Francia che lentamente scivola verso la parte bassa del “tabellone” Ue) è in misura cnsiderevle da attribuire a due fattori concatenati: le politiche di austerity decise dall’Unione Europea e una moneta unica che favorisce “geneticamente” le economie più forti.

 

La discussione sul futuro è ormai sul tappeto: “uscire subito dall’euro” sarebbe indubbiamente assai doloroso, ma restarci sarà a medio termine devastante. E sucito dopo il collasso verremmo comunque accompagnati, esangui, all’uscita.

 

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Sarebbe il momento di aiutare il Sud, ma le blue chip tedesche pensano a come investire lontano dall’Europa

 

di Vito Lops

 

La politica insegue l’economia, ma pare anche questa volta in ritardo. Oggi la Commissione europea potrebbe aprire una procedura sul surplus delle partite correnti tedesco, che negli ultimi tre anni ha superato il 6% del prodotto interno lordo, violando la Mip (Macroeconomic imbalance procedure) prevista dalle regole europee (ai sensi dell’articolo 121.2 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea).

 

Questa dinamica accentua gli squilibri tra i Paesi che operano nell’ambito della stessa area valutaria. In condizioni normali, con l’aumentare delle esportazioni, la valuta tedesca si sarebbe rivalutata, i prodotti tedeschi sarebbero risultati via via meno convenienti e il surplus si sarebbe automaticamente ridotto rendendo più armoniosi gli scambi all’interno della stessa area valutaria.

 

Essendo l’euro un sistema a cambio rigido, questo squilibrio non ha potuto essere compensato attraverso il mercato delle valute: l’attuale impostazione politica europea prevede invece che i Paesi meno competitivi debbano svalutare i salari (svalutazione interna) in un percorso complesso e doloroso.

 

La procedura europea nei confronti della Germania potrebbe concludersi non prima delle prossima primavera e probabilmente, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal. senza un meccanismo sanzionatorio. In ogni caso sarà interessante capire quale sarà la soluzione che Bruxelles proporrà alla Germania per rientrare nell’alveo dei parametri europei e ridurre il surplus che attualmente viaggia al ritmo di 200 miliardi l’anno, superiore addirittura a quello della Cina.

 

Per questo motivo alcuni economisti sostengono che la riduzione dello squilibrio dovrebbe partire proprio dalla Germania che, a questo punto della storia, dovrebbe aumentare le importazioni verso i Paesi dell’area valutaria in difficoltà oppure aumentare i propri salari (dato che negli ultimi 10 anni li ha abbassati depotenziando la domanda interna e rafforzando la competitività all’estero).

 

Ma pare che la Germania non stia intraprendendo questa strada. Un recente sondaggio del Wall Street Journal, condotto su 19 blue-chip tedesche industriali (tra cui Bmw, Siemens ed Henkel) attesta che queste stanno spingendo su un trend partito già da tempo: puntare su un mercato di sbocco alternativo a quello europeo, che finora è valso circa la metà del surplus commerciale.

 

Alla domanda «In quale mercato concentrerete la maggior parte degli investimenti futuri?» la risposta vede in vantaggio in modo schiacciante i Paesi emergenti (43%), al 15% la Germania stessa, l’11% è destinato agli Stati Uniti e solo il 5% al resto d’Europa (il restante 26% non offre una guidance precisa).

 

Come dire, che la che Germania sta preparando il terreno per cambiare mercato di sbocco, consapevole che la domanda interna dei Paesi del Sud Europa, schiacciata negli ultimi anni dall’austerity e dalla recessione, non offre di sicuro le stesse opportunità di altre parti del mondo. Globalizzazione docet.

 

Ma globalizzazione docet anche in senso opposto. Secondo gli ultimi dati a disposizione l’appetito degli investitori esteri verso la Germania è in fase calante. Nel 2012 gli investimenti stranieri diretti (Fdi) in Germania sono scesi a 5,9 miliardi di dollari rispetto ai 6,9 miliardi dell’anno precedente. Siamo lontani anni luce dai 58,6 miliardi del 2007, secondo i dati della Banca centrale tedesca. Il declino prosegue nel 2013 dato che nei primi sei mesi del 2013 i Foreing direct investments si attestano a quota 800 milioni.

 

da IlSole24Ore

 

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