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La Bce si ferma, come l’economia

La Bce ha sostanzialmente esaurito armi e munizioni a sua disposizione, ma soprattutto è arrivata a dimostrare empiricamente che la sola politica monetaria non può risolvere i problemi economici e finanziari di un'area peraltro assolutamente interconnessa con l'economia globale.

La scelta – resa nota ieri pomeriggio – di non modificare nessuna delle decisioni prese in precedenza, tanto sui tassi di interesse quanto sul programma di acquisato di titoli sul mercato (altrimenti noto come quantitative easing) è al tempo stesso una presa d'atto di questi limiti e un richiamo deciso ai diversi paesi a fare quel che – secondo lui e i manuali di macroeconomia liberisti – andrebbe fatto.

Un atteggiamento critico verso i suoi critici – a cominciare da Bundesbank e dall'establishment tedesco – che è uscito fuori in conferenza stampa, visto che il comunicato finale della Bce è come sempre concertato e dunque “asettico”.

Di fatto, oltre un anno di iniezioni di liquidità non ha prodotto né quel lieve aumento dell'inflazione che in linea teorica dovrebbe facilitare gli investimenti produttivi (nessuna azienda investe se pensa che dovrà vendere ai prezzi attuali o addirittura più bassi, e lo stesso fanno all'opposto i consumatori che devono fare acquisti di beni durevoli), né tantomeno una crescita economica percettibile. Nelle previsioni della Bce, peraltro, i prossimi due anni anni ancora meno positivi di quanto fin qui sperato (+1,6% invece di +1,7), ma la responsabilità – ha sottolineato Draghi – non va addossata alla Bce o alle imprese. I governi che dispongono di margini di bilancio, quelli dell'Europa del Nord, dovrebbero utilizzarli per favorire la ripresa a beneficio di tutta l'area euro: «e la Germania ha questi margini di bilancio».

Anche se non è facile “dirigere” un sistema economico in cui la libertà delle imprese è l'unico tabù intoccabile: «Minori surplus di parte corrente da parte della Germania, o per l'intera area dell'euro come aggregato, sarebbero auspicabili così da andare incontro alla raccomandazione della Commissione Europea. Sono comunque sempre un po' perplesso quando si parla di ridurre l'avanzo corrente. Non siamo in economie pianificate, non si può schiacciare un bottone e ridurre i surplus. Se un'industria è competitiva non è che può sforzarsi di non esserlo. Piuttosto, ci si dovrebbe adoperare per trasformare questa competitività in domanda interna».

Anche gli asini intuiscono che aumentare la “domanda interna” significa far crescere salari e stipendi, in modo da favorire consumi di massa che funzionerebbero da traino sia per le industrie tedesche che per fornitori o subfornitori del resto d'Europa. Ma la Ggermania, fin dai tempi dei “piani Hartz”, all'inizio del nuovo millennio, ha scelto la starda opposta e poi l'ha resa obbligatoria per tutta l'Unione Europea: compressione salaria, dunque congelamento della domanda interna e massima competitività affidata alle esportazioni. Una ricetta che può funzionare, per un po' di tempo, se viene adottata da un solo paese, ma che non può – e si sta vedendo da un pezzo – funzionare a lungo o se tutti vengono invitati/costretti a fare lo stesso.

In assenza di questa funzione di “traino”, inevitabilemnte, prende piede la domanda di investimenti pubblici per supplire alla carenza di quelli privati. Soprattutto in quei paesi che meno possono agire sulla spesa pubblica perché già troppo indebitati. E infatti Draghi, rivolgendosi a questi ultimi, li ha invitati ancora una volta a fare le “riforme strutturali”, perché non avendo margini di ulteriore spesa «dovrebbero concentrarsi sulla composizione del bilancio», in modo da renderla il più possibile favorevole alla ripresa.

L'Unione Europea e la sua istituzione principe non riescono dunque a sciogliere il groviglio di contraddizioni in cui si sono infilate. L'organo comunitario – la Bce, appunto – è impossibilitato a dirigere il concerto se gli orchestrali non rispettano la parte; mentre questi ultimi (a cominciare dai paesi più forti e in saluti) perseguono soltanto i propri interessi.

Il quantitative easing ha fin qui impedito alla pentola di esplodere. Ma il tempo di scadenza (marzo 2017) si avvicina, anche se la proroga è già iscritta in agenda. Soprattutto, a lungo termine si crea un mercato tossicodipendente e disabituato a razionalizzarsi secondo la propria natura. Ossia facendo fallire tutte quelle imprese – a cominciare da quelle finanziarie, ossia le banche – che non hanno i fondamentali per stare in piedi.

Leggendo tra le righe di una risposta data da Draghi e un giornalista, si può leggere quasi chiaramente l'invito alle banche e al governo tedesco di “pensare alla trave nel proprio occhio”. Il presidente della Bce, infatti, ha ricordato che «I tassi di interesse bassi non dovrebbero essere usati come giustificazione per tutto quello che non funziona nelle banche, sarebbe un errore. Alla fine dobbiamo essere pazienti. I tassi di interesse devono restare bassi perché la ripresa prenda piede, una ripresa che poi avrà effetti positivi sui bilanci dei gruppi bancari. I tassi di interesse devono essere bassi oggi per poter salire domani».

Traduzione: se Deutsche Bank ha in pancia emissioni per 75.000 miliardi di euro in prodotti derivati, dal prezzo altamente incerto e a rischio botto, la colpa non può essere addebitata a nessun altro che alla banca stessa. E al governo che la difende.

Ma se così è – e così è – mettere ordine in quel disastro è al di sopra delle possibilità dei soggetti in campo (75.000 miliardi è 20 volte il Pil della Germania!). Al massimo, come fa la Bce, si può riinviare il momento dell'esplosione. Ed è veramente da stupidi, oltre che “ingrati” – suggerisce Draghi – lamentarsi della sua politica monetaria “espansiva”…

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