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Il petrolio torna principe dei mercati

Finisce la stagione del petrolio a prezzi stracciati (ha oscillato per circa due anni tra i 35 e i 65 dollari al barile, ben lontano dai 110 dollari registrati a giugno 2014, e ancora più dai 147 dell'agosto 2007, data di inizio della crisi finanziaria ancora in corso). E non è ovviamente una buona notizia per le economie dei paesi importatori (tutta l'Europa continentale, Russia a parte), da tempo stagnanti o addirittura incapaci di tornare ai livelli del 2008 nonostante il prolungato quantitative esasing garantito dala Bce.

L'accordo stretto ieri tra paesi Opec e 11 produttori esterni al cartello (tra cui due protagonisti assoluti come Russia e Messico) prevede complessivamente una riduzione dei quantitativi estratti pari al 2% della produzione attuale. 1,8 milioni di barili al giorno in meno sui mercati internazionali, dei quali 1,2 a carcio dei mebri dell'Opec e 600mila agli esterni.

Il quantitativo può sembrare poca cosa rispetto alla produzione complessiva, ma bisogna ricordare che il mercato del greggio è quello più allineato con le dinamiche del just in time. Il margine tra l'eccesso e la scarsità di offerta è esilissimo, e basta poco (una guerra in un paese anche a bassa produzione, o anche solo la minaccia) a far decollare il prezzo globale.

Le ragioni dell'accordo sono facilmente spiegabili. Nonostante l'ostilità feroce tra molti produttori (Arabia Saudita versus Iran e Russia, ma anche contro lo shale oil statunitense), due anni di prezzi stracciati hanno messo in difficoltà tutti loro. Basti pensare al Venezuela, portato sull'orlo del baratro dalla perdita di oltre il 50% delle entrate petrolifere in dollari; e soprattutto all'Arabia Saudita, promotrice della rincorsa alla massima produzione possibile, quindi della caduta verticale del prezzo, ma che quest'anno – per la prima volta nella sua storia recente – ha dovuto varare una manovra finanziaria sui conti pubblici improntata all'austerità e far ricorso all'indebitamento sui mercati finanziari. Gli sceicchi che emettono debito, invece di comprarlo… Una bestemmia, fino a qualche tempo fa.

Schermata del 2016-12-12 11:37:53Un aumento del prezzo è dunque un obiettivo unitario chiaro, che li ha costretti a trovare un equilibrio soddisfacente per tutti. Naturalmente, ogni paese produttore vive la crisi a modo suo, ha i suoi margini di manovra sociale o meno; dunque, gli obiettivi di prezzo massimo sono diversi tra loro. Ad esempio: se il prezzo dovesse salire oltre gli 80 dollari, ecco che tornerebbe conveniente ricominciare a investire nello shale oil statunitense e canadese, che si sono praticamente dimezzati negli ultimi tempi. Questo componente “non tradizionale” del mercato petrolifero mondiale, fondato sulla tecnica del fracking (frantumazione di rocce e scisti bituminose), ha infatti costi di produzione molto più alti rispetto alla perforazione dei pozzi; sia di quelli “facili” (bassa profondità e situazione climatica non estrema), si di quelli difficili (grande profondità, in mare aperto, oppure nell'Artico).

Dunque è immaginabile che raggiunto il livello considerato ottimale da chi può gestire una spare capacity significativa (la sola Arabia Saudita, in pratica), ci sarà una maggiore disponibilità di greggio sul mercato e quindi una frenata dei prezzi.

Questo tipo di dinamica, tutta incentratta sulle necessità dei paesi produttori, quindi sull'offerta, è possibile solo perché i paesi importatori – a partire da quelli più industrializzati – sono da quasi dieci anni alle prese con la stagnazione o recessione; dunque la loro domanda di energia resta anch'essa stagnante o addirittura declinante (anche in virtù di nuove tecnologie energy saving e del lento decollo delle fonti rinnovabili).

Nel breve termine non è alle viste una “ripresa” produttiva su scala globale. Anzi, molti segnali – incertezze sugli Stati Uniti sotto la gestione Trump, la Brexit, le elezioni in tutti i paesi principali dell'Eurzona nel 2017, crisi mediorientale e libica, nervosismo sullo scenario asiatico, ecc – lasciano pensare a una riduzione più o meno drastica degli scambi commerciali susseguente all'introduzione di meccanismi protezionistici più o meno mascherati. Solo per fare un esempio minore: il governo Renzi aveva infilato nella legge di stabilità anche una norma sui call center, mirante a penalizzare quelli delocalizzati all'estero (Albania e Romania), in modo da attenuare la crisi occupazionale in quelli ancora operanti in Italia.

Sul mercato del petrolio, comunque, i protezionismi non sono possibili. Chi ne ha lo pompa, chi non ne ha lo compra. Ma è l'andamento della produzione a determinare quello dei consumi. Quindi, senza “crescita”, la domanda resterà abbastanza bassa da impedire impennate shock dei prezzi.

Guerre permettendo, ovviamente…

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