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Guerra dei dazi. Ora la Ue risponde, ma controvoglia

Difficile bucare lo schermo con le notizie importanti, di questi tempi. Eppure il vociare scomposto su migranti e rom è il più vecchio, classico, disperato giochino comunicativo del mondo: cercare un nemico esterno, ma visibile a occhio nudo, per nascondere i problemi veri che ha davanti e non sai come risolvere.

Proviamoci lo stesso. L’Unione Europea ha infine risposto alla provocazione statunitense, che aveva imposto dazi su alluminio e acciaio, senza più neanche distinguere tra vecchi e nuovi alleati, diventati tutti egualmente nemici per ragioni di “sicurezza nazionale”.

Da oggi entrano in vigore i dazi europei su una serie di merci “tipicamente americane”, come il whisky bourbon o le moto Harley Davidson. La lista prende di mira soprattutto quelle produzioni che vengono effettuate negli stati più trumpiani, ma l’ammontare totale è poco più che simbolico: appena 2,8 miliardi di dollari, a fronte di misure Usa che valgono più del doppio.

La cautela europea è stata spiegata dalla commissaria Ue al Commercio, Cecilia Malmström, con parole estremamente chiare: “Non avremmo voluto trovarci in questa situazione. Tuttavia, la decisione unilaterale ed ingiustificata degli Stati Uniti di imporre dazi su acciaio e alluminio provenienti dall’Ue non ci lascia altra scelta. Le regole del commercio internazionale, che abbiamo elaborato nel corso degli anni insieme ai nostri partner americani, non possono essere violate senza alcuna reazione da parte nostra. La nostra risposta è misurata e proporzionata”.

Andare alla guerra commerciale controvoglia significa accettare, nel breve periodo, un danno maggiore per sé piuttosto che per l’avversario, ma la speranza è quella di tornare alla situazione precedente, se e quando gli Stati Uniti dovessero cambiare presidente. Vista dalla visuale politica, in effetti, i dazi europei puntano soprattutto ad avvertire gli elettori Usa, impegnati a fine anno nelle elezioni di mezzo termine per il rinnovo di parte del Congresso. Un avvertimento al presidente col ciuffo, perché riveda la politica dei dazi soprattutto vero l’Unione Europea.

Difficile però che questa cautela possa intenerire il cuore profondo dell’Amerika, quella che vuole re-internalizzare buona parte della produzione industriale per attenuare la disoccupazione reale (quasi 100 milioni di disocupati, qusi tutti cronici e inseriti nelle statiche tra gli “scoraggiati”, che non cercano più lavoro).

La direzione presa dall’attuale amministrazione statunitense è infatti opposta: sono in cantiere, sotto la supervisione del segretario al Commercio, Wilbur Ross, altre misure nei confronti delle importazioni da Cina, Canada e Messico. Mentre si sta valutando se iserire nel pacchetto futuro anche una delle voci primarie dello scambio commerciale tra le due sponde dell’Atlantico: le automobili. Anche in questo caso, per quanto possa far ridere, con la scusa delle minacce alla “sicurezza nazionale”.

Sottoporre a dazi questo settore, decuplicando la tassa di ingresso dal 2,5 al 25%, significa infliggere un durissimo colpo alle esportazioni tedesche, in primo luogo, peraltro già pesantemente danneggiate dallo scandalo dieselgate. Ma la bastonata colpirebbe ovviamente anche altri paesi, Italia compresa, anche se le auto prodotte qui e vendute negli Usa sono ormai quasi soltanto nel segmento “lusso” (Ferrari e Maserati, fondamentalmente), visto che gli stabilimenti americani ex Chrysler sfornano già ora quanto basta a soddisfare una domanda locale piuttosto tradizionalista.

Può sorprendere che il governo grillin-leghista non spenda su questo tema neanche un millesimo delle energie profuse per “comunicare” in fatto di sbarchi, chiusura porti, sequestro di navi delle Ong e distribuzione dei migranti. Ma in fondo viene da pensare che questa banda di dilettanti allo sbaraglio stia lì soltanto per gestire lo sfascio industriale e sociale di questo paese, tenuti a bada – sulle materie economiche scottanti – da un gruppo di professori e tecnici di provata obbedienza ai diktat Ue.

Sanno insomma di non influire neppure marginalmente sulle dinamiche commerciali e politiche globali, e quindi agitano fantasmi inconsistenti, su cui “la vittoria” può esser facile, sicura, “comunicata”.

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