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Quanti sono e dove sono i “lavoratori ricchi”?

E’ dagli anni novanta che stiamo facendo i conti con il boom dei working poors, cioè di quei lavoratori sotto la soglia di povertà anche se dispongono di un lavoro, a causa della loro bassa e bassissima retribuzione. Ma in questi venticinque anni abbiamo verificato come la polarizzazione sociale abbia agito spingendo verso il basso (molti) e verso l’alto (molti meno), quelle figure sociali che venivano definite come classi medie.

Adesso per la prima volta il rapporto annuale dell’ Inps ha provato ad analizzare la composizione dei cosiddetti “working rich” ossia di quei lavoratori, dipendenti e professionisti full time, che solo con il loro lavoro superano i 97 mila euro annui. Un reddito che ovviamente non tiene conto del patrimonio e delle rendite che spesso, in questi settori, sono almeno 5 volte il salario mediano calcolato sul salario del dipendente privato.

La metà dei “lavoratori ricchi” sono dipendenti privati, solo il 18% è un dipendente della pubblica amministrazione (altro che casta!!), il 22% sono professionisti mentre il 9,2% è composto da collaboratori.

Se si considera invece l’incidenza nei vari gruppi e fra gruppi di lavoratori che si collocano sopra almeno dieci volte il reddito mediano, ovvero che superano i 194.000 euro annui, su 100 lavoratori con un reddito superiore a questa soglia, il 52,3% proviene dai dipendenti privati; salgono al 39,2% i professionisti, mentre diminuiscono verticalmente quelli nel settore pubblico (8,5%). Praticamente nessun “collaboratore” guadagna queste cifre.

Secondo l’Infodata del Sole 24 Ore, ci sono tre dati principali che vanno considerati. Il primo è il progressivo, costante e importante aumento della concentrazione dei redditi: la soglia per entrare nel top 0,01% è raddoppiata dal 1978 al 2017. Oggi “servono” 553 mila euro annui per sedersi in una delle poche poltrone dello 0,01% dei lavoratori più ricchi. Analizzando i dati emerge chiaramente che, in quanto a distribuzione, la ricchezza è andata polarizzandosi. Le soglie per entrare nel 10% e nel 5% sono cresciute relativamente poco nel tempo: per entrare nel top 10% occorreva avere un reddito di 31.000 euro nel 1978, salito a 39.000 nel 2017; l’accesso al top 5% richiedeva un reddito di 38.000 nel 1978 contro i 51.000 nel 2017. Ma più si sale e più i ricchi sono diventati super ricchi e lo stesso Sole 24 Ore è costretto ad ammettere che questo scarto è avvenuto in particolare durante gli anni Novanta (il decennio spartiacque sul piano delle disuguaglianze e della regressione sociale che coincide con l’adesione del Trattato di Maastricht, ndr). La soglia per entrare nel gruppo dello 0,1% più ricco quasi raddoppia nel tempo, da 122.000 a 217.000 euro.

Il secondo dato da tenere a mente dove vivono e lavorano i “working rich”. Inutile sorprendersi del fatto che il 54% dello 0,01% dei lavoratori più ricchi e il 42% del top 0,1% viva nella provincia di Milano, mentre il 16% del top 0,01% e il 15% del top 0,1% vive nella provincia di Roma. Al crescere del percentile considerato la distribuzione dei più ricchi si concentra progressivamente nelle regioni del Nord, in particolare nelle aree urbane.

Il terzo dato è che al crescere del livello dei redditi diminuisce la presenza femminile: nello 0,01% dei dipendenti più ricchi, solo il 7,5% sono donne.

Contemporaneamente nel nostro paese sono saliti a 4,3 milioni i rapporti di lavoro (si tratta del 28% su 14 milioni di contratti) che prevedono un salario inferiore ai 9 euro lordi l’ora, al di sotto delle soglie minime di retribuzione oraria e del salario minimo in discussione nel governo ma osteggiato dal Partito Trasversale del pil. Questa condizione di lavoro povero riguarda il 25,9% dei dipendenti privati, il 39% degli operai agricoli (regolari) e il 69,7% dei lavoratori domestici.

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