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In pensione a oltre 70 anni. Il futuro dei giovani è lavorare fino alla morte

L’Inps ha appena aggiornato “Pensami”, il simulatore sulle pensioni, in base alle novità introdotto con la legge di bilancio e alle aspettative di vita. Le prospettive sono tutt’altro che confortanti, soprattutto per i più giovani.

L’istituto della previdenza sociale italiana comunica che, non essendo stati registrati incrementi dell’aspettativa di vita, fino al 2028 l’età pensionabile rimarrà fissa a 67 anni. Dal 2029 crescerà di un mese, ma l’opportunità di andare effettivamente in pensione dipenderà anche dai contributi versati.

Le varie proiezioni fatte sui più giovani hanno dato risultati sconfortanti. Per fare un esempio, una persona nata all’inizio del 1994, che ha cominciato a lavorare dal 2022 e maturi almeno 20 anni di contributi, andrà comunque in pensione alla fine del 2063, a 69 anni e 10 mesi di età.

Nel caso in cui non si arrivasse a 20 anni di versamenti (cosa che non deve essere considerata improbabile in un sistema che si regge ormai su lavori a termine e part-time involontari), la pensione arriverebbe addirittura a 74 anni. Un logoramento senza fine del corpo e delle forze del lavoratore.

La situazione non è migliore per chi si avvia alla mezza età. Chi è nato nel gennaio del 1980, lavora nel privato e ha cominciato a versare nel 2005 va in pensione a 68 anni e 9 mesi, dal novembre del 2048.

In questo caso, la pensione può essere anticipata a 65 anni e 7 mesi, se sarà stata maturata un’erogazione tre volte superiore all’assegno sociale (al 2024 significa oltre 1.600 euro per 13 mensilità). Ma il pensionamento arriverà a 73 anni e 2 mesi se non saranno stati versati 20 anni di contributi.

È bene fare alcune osservazioni su questi ultimi dati. Un nato nel 1980 che lavora dal 2005 ha cominciato a versare in pratica dal momento successivo alla fine di un ipotetico percorso universitario: non ci sono perdite di tempo e periodi di inattività tra lo studio e il lavoro.

Se avrà ricevuto una paga da fame, con contributi da fame, dovrà lavorare fino quasi a ridosso dei 70 anni, per ricevere poi una pensione da fame. E deve non aver lavorato in nero, grigio e deve sperare che i contributi siano stati versati, vista anche l’ampia diffusione dell’evasione in questo ambito.

Se non avesse raggiunto le 20 annualità contributive e volesse riscattare gli anni universitari per arrivare a questo traguardo, si troverebbe a pagare varie decine di migliaia di euro. Una cifra esorbitante, senza la quale dovrebbe attendere fino a oltre i 73 anni per raggiungere la quiescenza lavorativa.

Quello che è utile rimarcare è che queste opzioni sono ipotizzate per un lavoratore che ha versato dal 2005, e quindi completamente dentro il sistema contributivo, reintrodotto gradualmente con la riforma Dini del 1995. Una trasformazione del sistema pensionistico portata a termine dalla riforma Fornero a fine 2011.

Sul sito del ministero del Lavoro leggiamo che “il sistema contributivo rappresenta una forma più equa di determinazione della prestazione pensionistica, in quanto pone in diretta correlazione quanto versato con quanto il soggetto verrà a percepire”. Siamo abituati alla trasformazione dei significati per legittimare la ferocia neoliberista, ma qui si va oltre.

Anche se non ce ne sarebbe bisogno, leggiamo sulla Treccani che equità è “giustizia che applica la legge non rigidamente, ma temperata da umana e indulgente considerazione dei casi particolari a cui la legge si deve applicare”. Equità non è dare in maniera proporzionale a quanto si è versato, ma con coscienza della realtà concreta che definisce il caso particolare.

Se, ad esempio, si è vissuta una vita lavorativa di vessazioni, dov’è l’equità in una pensione che riproduce e cristallizza quella precarietà e povertà già sperimentata e rappresentata dalla scarsa contribuzione? Ma c’è di più.

Queste riforme sono state introdotte con la scusa che i fondi pensionistici sarebbero altrimenti diventati un buco nero delle finanze pubbliche. Anche volendoci credere – e non lo facciamo –, i dati Eurostat confermano che la spesa per pensioni in rapporto al PIL ha toccato il 16,3%, un valore che in UE è secondo solo a quello della Grecia.

Bisognerebbe quantomeno dire che le ricette promosse dalla classe dirigente negli ultimi trent’anni sono state fallimentari. E che forse sarebbe il caso di ragionare che il problema è nelle scarse paghe, che si traducono in scarsi contributi, e sul fatto che il finanziamento sarebbe davvero equo se avvenisse attraverso la fiscalità generale.

Ma ovviamente, in UE il mantra è sempre lo stesso: ridurre le spese sociali. C’è il riarmo da finanziare, e l’Italia segue questi dettami in maniera ligia.

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