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Difficile, per un profano, far fronte alla marea montante degli opinionisti che ripetono tutti la stessa frase: «bisogna intervenire sulle pensioni, spendiamo troppo e usciamo dal lavoro troppo presto».
Intanto: cosa alimenta l’Inps? I soldi cui tutti noi, mensilmente, rinunciamo per avere un assegno quando smetteremo di lavorare. Sono «contributi previdenziali», una voce riconoscibile della busta paga di ciascuno di noi (se non siamo così sfortunati da lavorare «in nero»). Detta altrimenti, ma molto seriamente: i soldi dell’Inps sono i nostri. E nessuno dovrebbe poterci mettere le mani sopra.
Ma è vero che «i conti della spesa previdenziale sono insostenibili»? Dipende da come si fanno i conti. Se «all’italiana», sembra di sì. Infatti qui si calcola la spesa al lordo, senza conteggiare le «ritenute fiscali» sull’assegno pensionistico. Ovvero la percentuale che lo Stato trattiene per sé. Negli altri paesi europei questi calcoli li fanno sul netto; quindi sembra che Francia, Germania, ecc, spendano meno. Di fatto: secondo i conti del 2009, il «saldo» tra entrate contributive (le «trattenute») e le prestazioni pensionistiche (gli assegni effettivamente erogati, al netto) risulta dare un avanzo di 27,6 miliardi di euro. Traduciamo per i colleghi della stampa mainstream: i lavoratori versano più di quel che lo Stato distribuisce ai vecchietti. L’1,8% del Pil, non spiccioli. Se si calcola il lordo come «spesa pensionistica in rapporto al Pil», invece, c’è un passivo del 2,5%. È questo – guarda un po’ – il calcolo preferito dai fustigatori di pensionati.
Cos’altro impedisce, dunque, di avere conti dell’Inps almeno in pareggio? Beh, per esempio è l’Inps che deve erogare il Tfr del pubblico impiego e anche coprire quello dei lavoratori delle aziende private che falliscono senza poterlo pagare. Ma il tfr è un «prestito forzoso» dei lavoratori verso l’azienda (privata o pubblica che sia), soldi che restano lì fin quando non andiamo in pensione e ci vengono restituiti come «liquidazione». Soldi nostri anche questi, che normalmente non andrebbero conteggiati dall’Inps, ma da qualche altro ente. Comunque sia, è l’1% di Pil che gonfia in modo improprio le perdite di conti altrimenti in utile. E, soprattutto, in linea o migliori con quelli di altri paesi europei.
Ma ci sono anche altre voci a squilibrare i conti: i prepensionamenti, per esempio. Aziende in crisi che si liberano di lavoratori «maturi» e li mettono in conto allo Stato. Ma si prefigura sempre «l’aumento dell’età pensionabile». Non vi sembra una contraddizione palese, oltre che un costo «improprio» per l’Inps? Per non parlare di tutta l’assistenza (handicap, non autosufficienti, ecc). E sorvoliamo sulla «cassa di previdenza dei dirigenti di azienda», così ben gestita dai dirigenti stessi da fallire e dover essere caricata sulle spalle dei dipendenti…
Infine. È vero che «andiamo in pensione troppo presto»?. Dipende, anche qui. Se guardiamo l’attuale età di pensionamento teorica (60 anni per le donne, 65 per gli uomini; 61 e 66 con le «finestre mobili» inventate da Tremonti), no. In Germania hanno i 65 anni, in Francia i 62. Ci viene detto a questo punto: «sì, ma solo qui c’è la possibilità di andare in pensione con 40 anni di anzianità, quindi prima dei 65».
Falso. Per gli uomini, almeno, in Italia l’età media di pensionamento è di 61,1 anni. In Francia è 59,1 anni; nella «supercompetitiva» Germania… 61,8. Siamo lì, nevvero? E se età pensionabile teorica ed età effettiva non corrispondono, evidentemente ci deve essere qualche forma di «anzianità» anche lì. La toglieranno? Vedremo, forse. Ma al momento la situazione è questa, quindi perché diffondere dati falsi?
Per convincerci che «spendiamo troppo in pensioni»? Qui dobbiamo dividere il ragionamento in due parti. Sul piano economico, la produttività di un lavoratore anziano (tranne che nei ruoli decisionali o «professionalmente elevati») è più bassa di quella di un giovane. E i giovani sono molto disoccupati (diceva il Censis proprio ieri). Muoiono sul lavoro – magari «in nero» – più spesso (il 20% sono ultra-65enni). Soprattutto, le aziende non li vogliono tenere e li pre-pensionano (tranne che in determinati, pochi, ruoli). Logica economica vorrebbe che venisse quanto meno mantenuta, non aumentata, l’età pensionabile. Perché facendo il contrario si abbassa la produttività, si deprimono i consumi e – alla fin fine – si estende una dinamica di crisi.
In secondo luogo, però c’è la questione principale. Se i conti dell’Inps sono in attivo (una volta eliminate le «anomalie statistiche» e le uscite improprie), lo Stato non spende nulla di più di quanto non incassi con i «contributi previdenziali». Anzi, ha già programmato di dare sempre meno alle future generazioni (un assegno che coprirà il 50% circa dell’ultimo stipendio, invece dell’attuale 80%). Una nuova riforma delle pensioni, insomma, aumenterebbe l’attivo. Per farne cosa? Non è nemmeno interessante. L’unica cosa certa, dal punto di vista «proprietario» (ma guarda…), è che così facendo si metterebbero le mani su soldi nostri. Di lavoratori. Insomma di poveri. Una «patrimoniale» all’incontrario.
da “il manifesto”
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