Menu

Sciopero Fiat e Fincantieri, manifestazione a Roma

È iniziato da pochi minuti il comizio in piazza del Popolo dei lavoratori di Fiat, Fincantieri e della componentistica dopo un breve corteo che ha attraversoto Villa Borghese per arrivare a piazza del Popolo dove era prevista la manifestazione organizzata dalla Fiom. I lavoratori sfilano dietro uno striscione con scritto “da Polmigliano a Mirafiori, il lavoro è un bene comune. Difendiamo ovunque lavoro e diritti”. La manifestazione sarebbe dovuta essere “stanziale”, senza corteo, a seguito del pretestuoso divieto emanato dal sindaco fascista di Roma, Alemanno, e confermato dalla questura. Tutti i tentativi di ottenere un corto anche fuori dal centro storico erano andati a vuoto.

Il sindacato dei metalmeccanici torinesi parla di un’adesione allo sciopero del 60% alla Fiat Powertrain di Mirafiori, 60-70% all’Iveco, 95% alla Itca di Grugliasco. E ancora 75% all’Avio di Borgaretto, 85% alla Daitec di Chivasso e 70% nelle aziende dell’indotto auto dell’alto canavese. Secondo l’azienda invece le adesioni sarebbero del 7,6% di Cassino, dell’8,8% alla Powertrain di Torino, del 12,4% alla Sevel di Val di Sangro e del 16,5% a Termini Imerese. I lavoratori delle Carrozzerie di Mirafiori sono in cassintegrazione.

“Trovo folle che nel nostro Paese non ci sia” nessuno, “né la Fiom, né i sindacati che hanno firmato” gli accordi con il gruppo torinese “che sappia realmente cosa vuol fare Marchionne”. Lo ha detto Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, alla manifestazione in piazza del Popolo “E’ davanti agli occhi di tutti che Marchionne gli investimenti li sta facendo da un’altra parte e che sta aumentando la cassa integrazione e il rischio di chiusura degli stabilimenti”, ha aggiunto Landini.

*****

Pochi modelli che vanno e vengono, molta cassa integrazione che rimane
A Mirafiori si è lavorato soltanto 35 giorni, fra gennaio e settembre. A Pomigliano il rischio di stop alle assunzioni

Francesco Paternò
La fabbrica Fiat di Termini Imerese chiude il 31 dicembre. Quella Irisbus, in Campania, il 31 ottobre. Per i dipendenti dei sei stabilimenti italiani del gruppo torinese, nei primi nove mesi dell’anno i giorni di cassa integrazione hanno superato di gran lunga quelli lavorativi. A esclusione di Sevel, che non ne ha fatto nemmeno uno ma dove Fiat produce commerciali. Il futuro del lavoro nelle fabbriche del primo gruppo industriale italiano appare piuttosto incerto dal punto di vista di chi ci lavora: sia perché l’amministratore delegato Sergio Marchionne continua a non dare certezze, sia perché dall’Italia escono sempre meno modelli e solo per un mercato europeo in declino. Non è un caso che dei cinque nuovi modelli presentati dal gruppo Fiat nel 2011, quattro sono prodotti altrove: in Polonia (Lancia Ypsilon), in Messico (Fiat Freemont), in Canada (Lancia Thema e Voyager). All’Italia toccherà la sola Fiat Panda, in calendario per metà dicembre.
La Fiom ha diffuso dati sull’uso della cassa integrazione che fanno capire perché le cinque fabbriche della Fiat nel nostro paese sono tutte in perdita, come dice Marchionne. Tra gennaio e settembre 2011, su 205 giorni lavorativi, a Mirafiori gli operai sono stati sulle linee 35, a Cassino 169 (grazie al boom dell’Alfa Romeo Giulietta), a Pomigliano 37 (aspettando Panda), a Termini Imerese 94 (gli ultimi, o quasi), a Melfi 147.
Nel 2012 le cose non andranno molto meglio, a eccezione di Pomigliano, anche se i mercati difficilmente satureranno una capacità produttiva di 280.000 Panda all’anno. «C’è il rischio che non assumano tutti», ci dice Giorgio Airaudo, responsabile auto Fiom, e anche per questo il sindacato dei metalmeccanici Cgil sta pensando di organizzare una sua rappresentanza, nonostante il nuovo contratto glielo vieti. Tra gli operai riassunti non risultano iscritti Fiom.
Marchionne ha mandato un nuovo messaggio: la Fiat ha perso sul mercato italiano negli ultimi tre anni 210.000 vetture, «la capacità di uno stabilimento». Dunque, dopo Termini, potrebbe essere a rischio un’altra fabbrica. «Se si sta sui numeri, è Mirafiori», dice Airaudo, «è incerto il destino delle 5.000 persone che lavorano alla progettazione. Non c’è ancora nessuna decisione sul secondo Suv Alfa Romeo previsto, mentre la produzione dell’Alfa Mito a cinque porte è un’altra illusione, la aspettiamo da due anni». Da Mirafiori, Marchionne ha già spostato in Serbia la produzione delle due nuove monovolume a 5 e 7 posti che sostituiranno Fiat Idea e Lancia Musa. La vita dei vecchi modelli potrebbe continuare per il 2012, ma solo per non aggiungere ulteriore cassa integrazione.
Nei primi nove mesi dell’anno, nei paesi dell’Unione europea più quelli Efta, il gruppo Fiat ha perso il 12% di vendite rispetto allo stesso periodo del 2010, peggior dato fra i grandi costruttori generalisti che sono scivolati anche loro (Renault, Psa, Ford), drammatico a confronto di quelli che hanno guadagnato (Volkswagen e Gm). Italia, Francia e Spagna continuano ad andar giù, la Germania è positiva, ma senza essere in grado di trainare le vendite di un continente in stallo, da cui i marchi del gruppo Fiat dipendono.
Parlando l’altro giorno a Torino, Marchionne ha detto chiaro che intende puntare su Stati Uniti e Brasile per recuperare con Fiat-Chrysler quanto perde in Europa. Parole che presuppongono scelte precise negli investimenti. Dei 20 miliardi di euro promessi agli stabilimenti italiani, Fiat ne ha messi 700 su Pomigliano, 500 sulla ex Bertone per Maserati e 1 miliardo su Mirafiori. I primi si sono visti, gli altri chissà. Nel solo Brasile, tanto per dare sostanza alle parole di Marchionne, Fiat e il resto dell’industria mondiale si calcola investiranno tra il 2011 e il 2012 circa 15 miliardi di dollari. Entro il 2030, da qui e dagli altri paesi del Brics (Brasile, Russia, India, Cina cui si è aggiunto l’anno scorso il Sudafrica) arriverà il 50% del Pil mondiale. Ce ne è abbastanza perché la Fiom scenda oggi in piazza e chieda di condividere preoccupazioni che in questo paese dovrebbero essere di tutti.

*****

Alessandra Fava GENOVA
LE NAVI Anche loro a Roma con le tute blu Fiat: «Il governo risponda»
Gli operai Fincantieri chiedono futuro

GENOVA
Duemilacinquecento buste paga in meno: è contro il progetto «tagliateste» e tagliafuturo proposto da Fincantieri (controllata da Fintecna per conto del ministero del Tesoro), che la Fiom Cgil scende in piazza oggi. E lo fa unendo le lotte della Fiat con quelle dei cantieri, perché si tenta (o si riesce) a destrutturare il contratto e si fanno accettare ai sindacati tagli in nome della crisi, ma viene il sospetto che se i mercati riprendessero saranno sempre più i lavoratori in appalto e subappalto a fare le navi o le auto. A costi inferiori. A Fincantieri succede già, visto che migliaia di operai di piccole e medie aziende lavorano alla nave, spesso con problemi di paga, arretrati non erogati per mesi e zero malattia e infatti saranno quelli che cassa non ne vedranno comunque «perché sono dipendenti di aziende che evadono contributi e fisco figuriamoci se danno la cassa integrazione ai loro operai col rischio di controlli serrati della guardia di finanza», come spiegano alla Fiom genovese.
Perciò oggi si scende in piazza. Si va in corteo con oltre 2 mila lavoratori diretti Fincantieri già in cassa negli otto siti italiani, il rischio di chiusura totale di Sestri ponente, il ridimensionamento in atto a Riva Trigoso, Castellamare, Palermo e Ancona. L’azienda dice che solo così si affronta la crisi mondiale. La Fiom pensa che sia la strada sbagliata. E infatti dopo aver firmato a Monfalcone con Cisl e Uil un accordo che prevede 300 esuberi, non lo ha fatto per Riva Trigoso dove gli altri due sindacati hanno messo la firma e accolto il plauso dei lavoratori per 280 esuberi. Così ad Ancona dove, pur di mettere d’accordo sindacati e azienda che chiedeva 180 esuberi, ci si è messa di mezzo anche la Regione (per ora è tutto fermo, qui e a Castellamare).
«Lo sciopero è l’occasione per sottolineare le nostre rivendicazioni e le proposte per il rilancio – spiega il responsabile nazionale navi della Fiom, Alessandro Pagano, che ieri era a Monfalcone ha parlare agli operai, oggi a Roma con due pulmann – abbiamo unito le lotte di auto e navi perché vogliamo politiche di mobilità che rilancino crescita e innovazione. Per il settore navale speriamo nel rinnovamento di un parco obsoleto che tra qualche anno non potrà più entrare nei porti perché troppo inquinante per nuovi parametri europei. Insomma le possibilità ci sono. Sarebbe utile che il governo ci pensasse varando il famoso decreto sviluppo».
Ma in piazza si va anche per rivendicare il diritto allo sciopero: «Difendiamo il diritto democratico di manifestare, anche per ricordare che sabato scorso lo si è impedito a 200 mila persone», chiude Pagano.
A Genova, da dove sono partiti tre pulmann nella notte, si sogna ancora. Si sogna che non chiuda un cantiere che faceva navi per la Regia marina e per l’impero ottomano nell’Ottocento, il cantiere del Rex, della Leonardo da Vinci, fino alle Costa e Oceania. Il presidente dell’Autorità portuale Luigi Merlo ha rilanciato per l’ennesima volta il progetto di un grande bacino navale (quello che c’era fu venduto tempo fa agli Emirati). Complice un quotidiano locale, Fincantieri si dice interessata a costruire il bacino a Sestri Ponente, coinvolgendo magari imprenditori delle riparazioni. Su questo il sindacato nicchia. L’imprenditore più interessato è il past president della locale Confindustria, e per fargli ritirare la frase che Sestri è un cantiere di serie B mentre quelli dell’Adriatico sono avanzati, sono andati in 200-300 sotto le finestre dell’associazione nei giorni scorsi.
Le trattative che la Fiom chiede siano nazionali e non cantiere per cantiere riprenderanno lunedì con un incontro tra Fincantieri e i sindacati. Ordine del giorno: i carichi di lavoro.

******

Costituzione L’ordinanza che vieta di manifestare viola la nostra Carta, spiega il costituzionalista: «È un diritto inalienabile»
«È un balzo all’indietro»
Parla Stefano Rodotà: «Stanno sospendendo le garanzie costituzionali». Ma anche sui violenti niente sconti: «Danneggiano il movimento e chi cerca nuovi strumenti di democrazia reale»

Eleonora Martini
Leggi Reali, divieti a manifestare nella forma corteo, fermi di polizia e “Daspo politico”. «Sono davvero sbalordito, questo è un Paese che ha perduto la memoria». Stefano Rodotà è indignato. Perché con questi divieti «inammissibili» si stanno «sospendendo le garanzie costituzionali». E perché quando un ministro di governo, come Maroni, parla di «terrorismo urbano» usa una «violenza verbale di segno uguale e contrario a quella del 15 ottobre a Roma». «Attenti al linguaggio», è il suo monito. Ma è rivolto anche a noi: «Non sono d’accordo con Valentino Parlato», dice. «Certo che devo cercare di capire, ma subito dopo non faccio sconti. Chi ha usato la violenza, sabato scorso, l’ha fatto intenzionalmente contro quel movimento che aveva deciso di mettere in atto forme di democrazia partecipativa. Quella violenza ci ha fatto fare a tutti un brutale passo indietro».
Per la prima volta da tempo immemore un corteo della Fiom – che ha sfilato a Roma perfino nel ’77 – viene vietato. Come valuta questo provvedimento?
Una misura assolutamente inammissibile. Per due motivi. Primo perché non si possono sospendere le garanzie costituzionali, e il divieto generalizzato di fare cortei a Roma in questo periodo imposto da Alemanno è un provvedimento contrastante con l’articolo 17 della Costituzione. Oltretutto non si può precludere alcuna forma in cui esercitare legittimamente il diritto a manifestare. Secondo: il divieto è sì contemplato nell’articolo 17 della Costituzione ma solo per «comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica». Motivi che non possono essere ipotetici. Deve appunto essere «comprovato» che chi organizza il corteo – in questo caso la Fiom – mette a rischio la sicurezza pubblica. È un dettato di stretta applicazione e va applicato tenendo sempre presente che nel bilanciamento tra i due diritti, quello a manifestare è preminente. Vorrei sapere come è stato motivato questo divieto. Dobbiamo considerare che da sabato scorso Roma è diventata una città a rischio, in cui la libertà di manifestazione del pensiero è temporaneamente sospesa, almeno in alcune sue forme? È questo il nuovo status della città?
Valentino Parlato solo per aver detto che gli scontri di sabato scorso «sono segni dell’urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile», ha scatenato un «dispiegamento di buoni sentimenti», come dice Rossana Rossanda. Lei cosa ne pensa?
Non condivido la posizione di Valentino. Dire che – lo riassumo grossolanamente – il rischio di violenza è ormai insisto nelle manifestazioni, dato l’attuale contesto e la conseguente tensione sociale, è un argomento molto rischioso perché può essere usato con conseguenze gravissime, come abbiamo visto.
Lei si è fatto un’idea di chi sono questi giovani «violenti»?
No, ma ho letto che la loro è stata una scelta anche contro quel tipo di manifestazione considerata troppo «debole». So bene che la violenza nella storia c’è, che non viene dal nulla e è più facile trovarla nel disagio. Ma guardiamo il lascito drammatico di quella giornata: sta tornando in voga l’argomento che le manifestazioni si devono di nuovo irreggimentare, devono prevedere un servizio d’ordine. Sta passando l’idea che la libertà di manifestare richiede un’infinità di cautele, a cominciare da parte di chi le organizza. La violenza ha svuotato di ogni senso l’iniziativa politica. Non ci dimentichiamo che l’obiettivo del corteo era di andare a San Giovanni per mettere le tende e creare un presidio permanente. Non dico proprio una piazza Tahrir a Roma, ma comunque cercare di creare qualcosa che potesse dare stabilità, responsabilità, visibilità pubblica, opportunità di confronto. Tutto ciò è stato spazzato via, e questo è un atto di irresponsabilità.
Il linguaggio di Maroni richiama gli anni ’70. È giusto?
Non c’entrano nulla gli anni ’70. Non c’era, allora, questo tipo di rabbia. Nessuno pensava: «Ci avete levato il futuro, volete farci pagare il vostro debito».
Quanto influisce il fatto che siano orfani di rappresentanza politica?
Questi giovani non solo non hanno una rappresentanza politica ma sono disillusi e rifiutano la democrazia rappresentativa. Pensiamo però che la crisi della democrazia partecipativa possa aprire spazi a una svolta violenta? Ricordiamo che l’ambizione dei movimenti che hanno sfilato il 15 ottobre era proprio tentare di salvaguardare la democrazia reale e ripristinare forme partecipative di rappresentanza. Volevano andare in piazza con una tenda, segno di precarietà e al contempo di stabilità, dimostrare che il movimento non è più volatile ma ha un luogo proprio, rappresentantivo, dove esercitare il confronto senza mediazioni. Tutto questo è stato impedito. Ed è, ai miei occhi, imperdonabile. I violenti hanno danneggiato gravemente il movimento togliendo voce e forza a tutti coloro che stavano cercando un minimo di mutamento politico. Noi dobbiamo a tutti i costi salvaguardare questo tentativo, uno sforzo comune a centinaia di migliaia di persone.

da “il manifesto” del 21 ottobre 2011

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *