L’Italia è un paese disperato dove “le istituzioni” credibili si riducono a ben poco. Di questo poco, fin qui, e in modo ampiamente immeritato, “la benemerita” ha rappresentato la parte più ampia, strombazzata, incensata, protetta.
In poche settimane i carabinieri sono diventati “come tutti gli altri”. Non solo nella percezione popolare – che da sempre li conosce come nemici e guardiani degli interessi dei potenti – ma persino in quella della “classe dirigente”, del sistema mediatico-padronale, di ministri ed ex premier.
Fin qui quasi tutte le malefatte dei membri dell’Arma – di qualunque grado e funzione – erano state coperte e silenziate, con un gesto di fastidio e l’evocazione implicita o esplicita dell’antico mantra sulle “poche mele marce che non devono offuscare il grande lavoro di centomila uomini in divisa”.
L’immagine mediatica della benemerita aveva superato senza troppi scossoni prove che avrebbero dovuto o potuto essere letali. Citiamo a memoria solo alcuni casi clamorosi:
a) il colonnello Michele Riccio – uomo di punta del generale Dalla Chiesa, capo del commando autore dell’eccidio di via Fracchia, a Genova – che aveva trasformato la caserma sotto il suo comando in una raffineria di droga, da cui coordinava sia “indagini” che la gestione del mercato;
b) tutti i componenti della stazione di Aulla, in Lunigiana, diventati “i padroni del paese”, pestando, perseguitando, minacciando i cittadini con metodi a dir poco criminali;
c) i quattro carabinieri arrestati a Roma con l’accusa di aver ricattato l’ex presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, pretendendo da lui somme di denaro per non divulgare un filmato da loro stessi girato con telecamere nascoste in una camera da letto.
Potremmo andare avanti a lungo, con le decine di persone uccise in strada o in caserma (per Stefano Cucchi ci sono voluti anni, prima di arrivare a istruire un processo contro quelli che l’hanno pestato a morte). Ma basta guardare come sono stati trattati dai media i due militi (presunti?) stupratori di due ragazze americane a Firenze – non ancora arrestati, non cacciati dall’Arma – con infiniti articoli che minimizzavano o, obliquamente, suggerivano che fossero caduti in una “trappola” tesa da due “astute” studentesse ventenni clinicamente in stato di semi-incoscienza.
Un sistema blindato, insomma, a protezione della “credibilità” di un corpo militare spesso al centro – nel dopoguerra – di ricorrenti ipotesi di golpe (ultimo, in ordine di tempo e di serietà, quello del generale Pappalardo).
Inattaccabile anche a dispetto dell’evidenza e del pericolo che rappresenta.
Almeno fin quando qualcuno di loro non ha cominciato a intercettare – indagando sul “caso Consip” – il padre dell’ex presidente del consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi.
Sia chiaro: non sappiamo nulla di più di quel che pubblicano in materia i media mainstream e, conoscendoli, ci guardiamo bene dal prenderli per oro colato. Ma non possiamo non sottolineare alcune cose che prescindono largamente dal merito dell’indagine e contro-indagine su quelle intercettazioni.
In primo luogo. Una autentica icona del “dio carabiniere” – il cosiddetto “capitano Ultimo”, al secolo il colonnello del Noe Sergio De Caprio, cui è andato l’onore di aver arrestato nientepopodimeno che Totò Riina – su cui erano stati costruiti serial televisivi, romanzi popolareschi, quadretti elogiativi di tutta l’Arma, ecc, viene ora descritto come un matto che si è montato la testa. Viene infatti trattato così sui giornali di oggi:
a) «Quei due sono veramente dei matti. Abbiamo fatto bene a liberarcene subito». «Le loro intercettazioni? Fatte coi piedi». Le informative? «Roba da marziani». Parola del procuratore di Modena Lucia Musti che il 17 luglio, davanti alla prima commissione del Csm (Repubblica)
b) “Resta la necessità di liberare le istituzioni da pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d’Italia, agiscono in modo deviato e eversivo” (Mario Calabresi, Repubblica).
c) ”Ho letto le dichiarazioni del colonnello De Caprio, che sono da attribuire a lui personalmente, non certo all’Arma dei Carabinieri. Ma credo che dovranno essere valutate dal comando generale per capirne l’opportunità” (la ministra della Difesa, Roberta Pinotti)
d) “Dietro l’inchiesta Consip complotto contro le istituzioni” (Il Giornale). E via così…
“Ultimo”, dal canto suo, dimostra in prima persona di non rientrare nello stereotipo dell’”usi a obbedir tacendo”, facendosi intervistare più che volentieri per fare il populista di complemento: «Stiano sereni tutti, perché mai abbiamo voluto contrastare Matteo Renzi o altri politici, mai abbiamo voluto alcun potere. L’unico golpe che vediamo è quello perpetrato contro i cittadini della Repubblica, quelli che non hanno una casa e non hanno un lavoro».
Ci mancherebbe pure mettersi a fare il tifo pro o contro…
L’unica cosa che si può dire è che la caduta del dio carabiniere rivela l’inconsistenza della struttura istituzionale italica e della relativa “cultura” espressa dagli uomini e donne che “servono lo Stato” in funzioni delicate. Sia a livello di responsabilità politico-amministrativa, sia nei corpi militari e polizieschi.
Di fatto, ne viene fuori uno “Stato” lottizzato da gruppi e consorterie che lavorano per affermare interessi particolari, spesso minimi e di nessuna rilevanza “nazionale”; tantomeno “collettivi”. Uno Stato che non è vissuto come proprio neppure dalla classe dominante, ma come un semplice meccanismo attraverso cui esercitare un certo grado di potere (in diminuzione con la “cessione di sovranità” alla Ue), una res nullius di cui ogni gruppo abbastanza furbo può disporre temporaneamente a proprio piacimento e in cui ogni frammento istituzionale che non si controlla in prima persona – di conseguenza – è sospettato di agire per conto dei concorrenti. Ed è persino vero.
Uno Stato insomma che dimostra come la “classe dominante” non sia neppure un blocco unitario stretto intorno a interessi “di classe” (in qualche modo limitativi degli interessi particolari all’interno di quella classe), pur facendo rapidamente quadrato arcigno e violento contro “il mondo di sotto”, quando si mobilita.
Da questa vicenda vien fuori un puzzo nauseante di bande e consorterie, massonerie e “uomini di mano”, che travolge anche la magistratura. Che mostra di essere “politicizzata” in un senso molto diverso da quello comunemente in uso (le “toghe rosse” che andrebbero a caccia di politici a loro invisi). Come se tutti – nell’èlite di “quelli che contano” – sapessero perfettamente che ogni banda ha i sui magistrati “a disposizione”, così come un ufficiale dei carabinieri “a disposizione” o un segretario comunale (o altro funzionario utile).
E se lo Stato italico è – come è ovvio che sia – lo specchio della classe dominante, si capisce meglio perché, per esempio nella vicina Francia, possano emergere dei figli di p… imperiali come Emmanuel Macron (pollo in batteria allevato dal capitale fin dalle scuole medie), mentre qui svolazzano alla meno peggio tronfi tacchini di pessimo carattere, ma senza alcuna idea più alta del riempirsi – individualmente o per gruppi familistici – la panza.
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Daniele
Ineccepibile!
Manlio Padovan
Ma per chi ha letto qualche libro serio sulla prima guerra mondiale, fin da allora i carabinieri puzzano. Erano loro che uccidevano con un colpo alla nuca quei militari che si rifiutavano di andare a farsi uccidere su ordine di quell’imbecille del generale Cadorna al quale ancora oggi ci sono piazze e vie intestate.
Manlio Padovan
Non solo. Mi pare che il merito accumulato dai carbinieri sia del tutto fasullo e voluto, non oggettivo.
Sto rileggendo “Questo è Cefis/l’altra faccia dell’onorato presidente” di G. Steimetz che è il preambolo per la rilettura di “Petrolio” di Pasolini.
Da pagina XIX cito: “…Sin dal primo rapporto del 6 ottobre 1970 l’Arma cerca di depistare le indagini, dall’omicidio Mattei al narcotraffico, ignorando sistematicamente Vito Guerrasi -il cui nome non figurerà mai nei rapporti dei carabinieri- al contrario della Polizia , che in due indagini parallele (della Squadra Mobile e dell’Ufficio politico) perseguiva con decisione la pista Mattei……”