“Basta briciole, vogliamo il reddito di dignità!”, aveva protestato La Rete dei numeri pari, quando era stato approvato il Reddito di inclusione sociale. “La legge è più simile ad una ‘poor law’ di fine Ottocento che ad una moderna legge sul reddito minimo di respiro europeo come previsto dall’articolo 34 della Carta di Nizza. La povertà sembra essere una colpa, piuttosto che una responsabilità politica di chi sta gestendo la crisi amplificando la forbice delle disuguaglianze. Oggi la povertà è un fenomeno strutturale che colpisce soprattutto donne, giovani e migranti, a cui bisogna rispondere con misure di welfare strutturali. Il governo propone invece un Reddito di Inclusione fondato sull’esclusione e sull’assistenzialismo”.
La Rete dei numeri pari, che unisce realtà sociali impegnate in attività cooperativistiche solidaristiche e mutualistiche, è nata lo scorso anno per consolidare le esperienze fatte con la campagna ‘Miseria ladra’ avviata nel 2013 da Libera, Gruppo Abele, Sbilanciamoci!, Arci e Rete della Conoscenza. In una prima fase si è posta l’obiettivo di sollecitare drastiche misure sociali “per rendere illegale la povertà”, chiedendo all’UE di escludere dal Patto di stabilità la spesa sociale, in analogia con quanto deciso per le spese per la sicurezza e l’acquisto di armi a seguito degli attentati di Parigi. In una seconda fase si è concentrata soprattutto sul reddito minimo, nel 2015 con “100 giorni per un reddito di dignità”, e nel giugno 2017 con “mille piazze per il reddito di dignità”, accompagnandola con questa denuncia: “Nonostante la nostra Costituzione preveda l’obbligo di garantire la dignità umana attraverso politiche sociali e di sostegno al reddito adeguate, le misure messe in campo da governo e parlamento introducono una forma incostituzionale di ‘universalismo selettivo’ che divide ultimi e penultimi”.
In vista delle elezioni, la Rete, insieme con Libertà e Giustizia e Basic Income Network (BIN) ma senza Sbilanciamoci e ARCI, rilancia il reddito minimo, con l’obiettivo di sensibilizzare quel mondo cattolico, che, seppur sensibile ai valori del mutualismo, della solidarietà e della giustizia sociale e ambientale, è allo stesso tempo ancora fortemente intriso di un’etica lavorista. Enuncia i principi per una proposta di legge che dovrà riguardare coloro che hanno un reddito inferiore alla soglia del 60 per cento del reddito mediano, con l’erogazione di un beneficio individuale in denaro che consenta a tutti i residenti sul territorio nazionale di raggiungere quella soglia, e che sia mantenuto fino a che la soglia non venga superata. Fin qui c’è una analogia con quanto proposto dal Reddito di cittadinanza del Movimento Cinque Stelle. Ma rispetto ad esso, come rispetto al Rei, che prevedevano per i beneficiari del reddito la sottomissione al lavoro coatto e ad altre forme di controllo, si realizza una rivoluzione copernicana, con la rimozione di tutte le forme di condizionalità, e la previsione, anzi, del sostegno ai molteplici percorsi individuali possibili.
I principi che devono informare la proposta di legge sono, in sintesi, i seguenti.
“Il coinvolgimento attivo non deve sostituirsi all’inclusione sociale, e chiunque deve poter disporre di un Reddito Minimo, e di servizi sociali di qualità, a prescindere dalla propria partecipazione al mercato del lavoro”.
“Incentivare la libertà della scelta lavorativa come misura di contrasto dell’esclusione sociale può evitare la ricattabilità dei soggetti in difficoltà economica. In questo caso il concetto di ‘congruità dell’offerta di lavoro’, e non dunque di ‘obbligatorietà del lavoro purché sia’, può ben riferirsi alla necessità di valorizzare il soggetto beneficiario e di individuare tutti gli strumenti utili affinché l’integrazione al lavoro tenga conto delle sue esperienze, delle sue capacità e competenze e dunque a non generare comportamenti di vessazione e imposizione verso il beneficiario. Perché la causa di un’apparente esclusione dal mondo del lavoro può risiedere nella mancanza di sufficienti opportunità occupazionali dignitose piuttosto che nella mancanza di sforzi individuali”.
“Affiancare il Reddito Minimo o di Cittadinanza all’individuazione di un progetto di integrazione sociale individuale condiviso con il beneficiario che lo richiede”, tenendo conto che per alcuni destinatari “è uno strumento di valorizzazione ed autonomia di scelta del proprio percorso di vita, per altri sono necessarie misure di reinserimento sociale, e per altri ancora è necessario attivare forme di promozione dell’occupazione”.
“Rafforzare i servizi e il sistema dei centri per l’impiego pubblici destinandoli a ‘centri per l’impiego ed i diritti’, ai quali potersi rivolgere per l’erogazione del Reddito Minimo o di Cittadinanza”, e per “individuare eventualmente ulteriori interventi specifici, come quelli volti all’affermazione dell’autonomia sociale dei soggetti beneficiari, compresi coloro che sono in formazione, così da garantire il diritto allo studio e, in particolare, per contrastare la dispersione scolastica e universitaria”.
Accanto al Reddito minimo la Rete manifesta altre esigenze: Sfratti zero; Livelli Essenziali di Assistenza senza discriminazioni regionali e locali; asili nido, prescolarità e diritto allo studio; spesa sociale fuori dal patto di stabilità.
Alla base di queste richieste c’è una denuncia. “L’intervento dello Stato, attraverso le sue articolazioni, non è riuscito a rispondere alle disuguaglianze sociali provocate dall’economia di mercato. Le politiche pubbliche non si sono rivelate all’altezza della ricerca di una nuova coesione e del rilancio di nuove forme di protagonismo sociale, non centrate sulla “dittatura del denaro”. Né sembrano riuscire a conciliare economia e rispetto dell’ambiente e conservazione della “madre terra”.
Riferendosi allo Stato, la denuncia non sembra accorgersi dei condizionamenti che subisce per la sua appartenenza all’Unione Europea. Non a caso tra le nuove adesioni la Rete conta anche Diem25. La proposta fa riferimento esplicito alle Risoluzioni del 2009 e 2010 del Parlamento Europeo, che configurano il Reddito minimo garantito “come diritto sociale fondamentale” e come “strumento di promozione di una società inclusiva”. Si tratterebbe di capire, nel momento di definire l’articolato della proposta di legge, se il richiamo alle Risoluzioni del Parlamento Europeo sia sufficiente a sostenere il principio della incondizionalità, in considerazione del fatto che il paradigma della flessicurezza sottopone gli schemi di reddito minimo al principio dell’attivazione al lavoro, facendone strumenti di integrazione salariale in favore delle imprese, e di controllo e di ricatto sui lavoratori. Si è avuto modo di dimostrare analizzando i casi della Germania e del Regno Unito, come il principio della condizionalità imponga oneri e sanzioni obbligando ad accettare lavori precari, con l’effetto perverso di riprodurre una popolazione fluttuante di lavoratori doppiamente ricattabili, dallo Stato e dai datori di lavoro1.
La Rete si limita a leggere le povertà come conseguenza dell’austerità, e propone rimedi che non intaccano l’austerità. Ha difficoltà a farlo perché vive nel grande spazio sociale che la governance europea produce come alibi per la sua propria esistenza.
Diversa è la prospettiva in cui si muovono altre due proposte di reddito minimo.
Nel programma di Potere al Popolo, “è previsto l’istituzione del reddito minimo garantito, contro l’esclusione sociale e la precarietà della vita, per persone disoccupate e precarie: un reddito che consenta di superare la soglia di povertà relativa, che sia a carattere personale ed erogato fino al superamento della condizione di disagio”. È una proposta di lotta alla povertà che rientra in un ampio e articolato programma che ha come capisaldi la difesa e il rilancio della Costituzione e la rottura dell’Unione Europea dei trattati. Va rilevato che nell’enunciazione c’è una paradossale limitazione dell’erogazione del reddito a favore di ‘persone disoccupate e precarie’, come se la condizione di povertà debba essere attestata dallo stato occupazionale. Si tratta di una assurda concessione al lavorismo, lo stesso contro cui si batte la Rete dei numeri pari. È ormai evidente che la povertà (di diritti, di tempo per sé e di reddito) investe pesantemente ogni tipo di lavoro, anche quello che nella contrattazione collettiva le confederazioni sindacali hanno smesso di tutelare.
L’Unione Sindacale di Base ha maturato l’esigenza di un reddito minimo a partire dalle lotte sociali. Dal momento che “la povertà materiale è l’effetto di un problema strutturale che origina dal modello di sviluppo sociale ed economico neoliberista imposto a tutti i paesi della UE”, il reddito minimo è uno strumento “per sottrarre donne e uomini al ricatto della precarietà che ormai attraversano tutto l’arco della vita” ridando dignità al lavoro. La piattaforma programmatica dell’USB sostiene il principio ‘nessun reddito da lavoro sotto la soglia del reddito minimo’, e questo diventa un vincolo oggettivo che qualifica il lavoro anche nell’ambito del Reddito minimo, accompagnandosi a quello soggettivo della sua congruità.
Ci sono analogie tra i principi dell’USB e quelli della Rete, a partire dal reddito incondizionato. “La libertà di autodeterminazione delle persone deve essere garantita anche nella scelta di accesso ad un progetto di inserimento sociale e lavorativo gestito esclusivamente dai servizi pubblici”. “I servizi sociali e i servizi pubblici per l’impiego, opportunamente rafforzati in termini di risorse umane, competenze e infrastrutture tecnologiche, in caso di richiesta da parte degli individui dovrebbero essere tenuti ad attivarsi nella costruzione di un progetto sociale personalizzato e nella ricerca di un impiego le cui congruità rispetto alle aspirazioni e competenze individuali è esclusiva prerogativa della persona interessata”.
USB e Rete propongono che il contributo monetario sia integrato da servizi. Anziché limitarsi agli ‘sfratti zero’ della Rete, USB sottolinea la necessaria complementarietà tra contributo economico e fruizione abitativa, prevedendo un sostegno indiretto al reddito attraverso l’accesso gratuito agli alloggi pubblici, anche con il pagamento dell’affitto e del mutuo.
Ambedue le proposte non puntano a soluzioni strabilianti. Il reddito, l’alloggio, i servizi, sono previsti da diversi altri sistemi europei di Reddito minimo. Che tuttavia producono pesanti ricadute sociali. La diversità qui consiste nella rimozione della condizionalità, che altrove serve per utilizzare i poveri come forza lavoro flessibile e fungibile, e i sussidi come sostegno indiretto alle imprese.
1 Cfr. Commisso G. e Sivini G., Il reddito di cittadinanza: Emancipazione dal lavoro o lavoro coatto?, Asterios, 2017.
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a-precario
Scusate ma tutti questi riferimenti all’Europa non vi sembrano un po’ eccessivi? Direi di più: sospetti.
Se cerco con Google in rete questa rete dei numeri primi le prima cosa che mi spunta oggi è: “DiEM25 entra a far parte della Rete dei Numeri Pari. ” Nooo, l’organizzazione del ben noto Varoufakis.
Io non sono un antiredditista viscerale ma considero qualsiasi forma di sostegno che prescinda dalla riorganizzazione di quei corpi intermedi che si occupino dell’allocazione della forza lavoro è un insidioso e pericoloso inganno.
Un sostegno è sì doveroso, ma nell’ambito di politiche per la piena occupazione. Insomma che sia un indennità di disoccupazione e non un sussidio di povertà.
a-precario
Rettifico: ho scritto per errore “rete dei numeri primi” ma su google ho cercato bene: “Rete dei numeri pari”