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Il caso Varani, la cronaca nera e la narrazione mediatica

S’è scritto di tutto, come sempre. Per circostanze, soggetti e ambientazione l’omicidio di Luca Varani si presenta come il grande evento della cronaca nera italiana del 2016. Funziona così: per recuperare una credibilità ormai perduta (forse) per sempre, i media italiani negli ultimi anni hanno cominciato a puntare fortissimo sui morti ammazzati. Non solo i giornali «di carta», ma anche gli online, le televisioni, talvolta addirittura le radio.

Spiegare il perché è complicato: una volta il giovane cronista, come prova del fuoco per capire se davvero fosse adatto al mestiere, veniva spedito a cercare «la testina del morto», cioè le foto, da vivo, del trapassato. Si trattava di andare dalle famiglie distrutte e trovare le parole per chiedere uno scatto con la promessa di restituirlo in breve tempo. Un modo per imparare, almeno, la delicatezza del mestiere. Certo, spiegavano i caporedattori, non bisogna mai fare l’errore di sentirsi coinvolti dalle storie che si raccontano, ma il dolore va sempre rispettato. Non è passato troppo tempo da quando si lavorava così: non era un mondo perfetto, non era un giornalismo perfetto e gli sciacalli sono sempre esistiti, però c’erano anche persone che vivevano la cronaca nera come un modo per tirare fuori la nobiltà dalla miseria.

Oggi – e non è il segno dei tempi, né una considerazione nostalgica o moralista: semplicemente funziona così – la testina del morto si trova su Facebook, sfruttando un limbo legale e deontologico nel quale nessuno ci capisce poi molto. Si può seguire un omicidio senza uscire mai dalla redazione. D’altra parte c’è sempre un mucchio di cose da fare al giornale: anche se il caso è importante nessuno chiuderà le altre pagine al posto tuo. E poi, come detto, il sangue viene considerato la benzina migliore per vendere qualche copia.

Per il resto, siamo tutti parti in causa nella fiera del dolore della cronaca nera. Criminologi che a un certo punto diventano preti ortodossi, ex divette improvvisamente esperte di Dna e scene del crimine, vocazione alla giustizia sommaria e populismo penale. Gli anni di galera sono sempre troppo pochi e ogni mossa della difesa viene vista come un insulto alle vittime, i cui parenti invece possono dire e fare quello che vogliono e nessuno si azzardi a eccepire. Addio a ogni senso critico: i giornalisti avrebbero il dovere di far venire dei dubbi ai propri lettori, ma spesso si limitano a stuzzicarne i peggiori istinti.

Così, al netto di ogni ricostruzione più o meno dettagliata, di ogni dinamica più o meno ignorata, il punto focale è il movente. Per cosa si uccide? Da qui parte tutto: la gente vuole sapere perché. E allora bisogna ricostruire, evocare scenari, dipingere situazioni sociologiche e/o psicologiche spesso difficilissime per dare una polpetta al lettore.

Nel caso Varani la risposta alla domanda fondamentale sul senso della morte è un grande classico: festini, sesso, sostanze, omosessualità, alcol, usi e costumi di una generazione indecifrabile.

Un piatto troppo ghiotto per essere abbandonato, e la logica è costretta ad arrendersi a una narrazione incardinata sui binari dei rotocalchi televisivi del pomeriggio, dei complottismi dell’internet, delle ultime macerie della carta stampata. Tipo: ma se è vero che questa generazione – che a conti fatti è anche quella di chi scrive, per dire – è Sodoma e Gomorra, perché non c’è un morto ammazzato al giorno? Non fa niente: basta un omicidio a Roma per far scattare l’analisi onnicomprensiva, il giudizio netto, la chiacchiera da bar elevata a solenne discorso sull’umanità.

I concetti di devianza e marginalità sono i tratti infantili di un sistema che si ritiene perfetto. Quando succede qualcosa di moralmente deplorevole, qualcosa che superi di slancio gli standard sociali, prima ancora di capire come siano andate le cose si spiega il perché, anche se è sostanzialmente impossibile farlo.

La rassegna dei «perché» del caso Varani è tutta un dire. Abbiamo letto e sentito parlare, in ordine sparso, di: Quentin Tarantino, Bret Easton Ellis, Carlo Emilio Gadda, la lobby Lgbt, chemsex, «festini della morte», «cultura dello sballo», banalità del male, Eichmann, Pasolini, Salò, addirittura Abu Ghraib, Guantanamo e Giulio Regeni.

Un minestrone di cinema, letteratura, conoscenza molto relativa di nuovi fenomeni, nazismo, terrorismo e omicidi politici. Tutto dentro lo stesso calderone, perché quando il cadavere è ancora caldo bisogna picchiare più forte e costruire la storia. Il resto lo fanno gli attori protagonisti di questa farsa: nessuno è mai davvero pronto per affrontare il circo Barnum dei giornali e delle televisioni, e allora si sparano cazzate a nastro senza ritegno. E la cosa grave è che nessuno prova a spiegare che no, andare in televisione a farsi massacrare non è mai una buona idea. Tanto poi i giornalisti passeranno a occuparsi d’altro (è il nostro mestiere), mentre i parenti delle vittime e quelli dei carnefici rimangono lì, a implorare un’attenzione che all’inizio è sempre fortissima e poi in pochi giorni passa subito al livello di «rottura di palle». L’informazione a un certo punto si esaurisce, finiscono i fatti da raccontare, l’inchiesta trova uno sbocco, si va magari a processo e lì le cose sono sempre difficili (di cronaca giudiziaria, magari, parliamo un’altra volta). Resta l’intrattenimento, il contorno, l’intreccio da serie televisiva.

Tutti cercano un motivo per gli omicidi, anche se nell’unica sede in cui si parla (o si dovrebbe parlare) seriamente di questi fatti, cioè i tribunali, nessuno si azzarda mai fare una cosa del genere. Si chiama «movente», un participio presente che vuole indicare «ciò che ha mosso l’assassino a fare quello che ha fatto», non spiegare i suoi comportamenti: sarebbe impossibile, e più della sociologia in questo caso dovrebbe aiutare la letteratura. L’unico che ci ha capito qualcosa, in questo senso, è Truman Capote, e anche lui ci ha messo qualche anno per scrivere «A sangue freddo».

Il padre di uno dei presunti assassini che in televisione continua a ripetere che, al di là di tutto, suo figlio non è gay è il sintomo più evidente di questa malattia mediatica. Invece di tacere (come sarebbe consigliabile) e invece di cercare una strategia difensiva decente (come sarebbe auspicabile), il primo pensiero è per cercare di togliere la macchia indelebile di avere «un figlio ricchione». Fa male ammettere che, alla lunga, avevano ragione gli Skiantos quando cantavano «meglio un figlio ladro che un figlio frocio». Loro scherzavano, ma bisognava prenderli sul serio.

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