L’ora delle indagini su un incidente ferroviario è sempre anche l’ora dei depistaggi. Se ci sono 27 morti e 50 feriti, non si può insabbiare tutto, ma i tentativi non mancheranno. Non troppo paradossalmente, sul piano giudiziario le indagini vanno come vanno: dipendono dalla preparazione e dalla meticolosità dei magistrati, dalla loro capacità di imporre ai diretti interessati (l’azienda di gestione del trasporto passeggeri e quella responsabile della rete) la consegna di tutta la documentazione indispensabile, scatole nere comprese; nella loro capacità di resistere alle pressioni sempre presenti che spingono per il “non esagerare”. Può andare bene o meno bene, ma è un percorso obbligato, con tappe verificabili da un buon team di avvocati.
Dove invece il depistaggio è già ampiamente al lavoro è il piano della “comunicazione”. Qui governo, enti locali, aziende coinvolte, controllori che non controllano, danno già il peggio di sé: errore umano, hanno sentenziato unanimi mentre vigili del fuoco e volontari stavano ancora accorrendo per salvare i sopravvissuti.
Avviene sempre così. A ogni strage su rotaia. Al punto che un telespettatore passivo attende questo sintagma liberatorio per sentirsi tranquillizzato: ”il sistema funziona perfettamente, purtroppo ogni tanto c’è un essere umano distratto che sbaglia; non temere, siamo al lavoro perché non succeda più.”
Semplice come bere un bicchiere d’acqua, nello storytelling di aziende e governo. Ma com’è fatto il sistema del trasporto ferroviario? Com’è cambiato negli ultimi decenni? Chi l’ha cambiato? e assecondando quali interessi?
Sia detto in premessa: un sistema di trasporto assolutamente sicuro non esisterà mai, lo sappiamo. Quel che abbiamo davanti è però un sistema insicuro per serissimi difetti di progettazione strategica, causati dalla volontà di risparmiare su alcuni costi (personale, tecnologie, ecc) e abituato a scaricare sull’ultimo anello della catena la responsabilità dell’errore. È come aprire al traffico un ponte fatto male, con pessimi materiali, che degrada col passare del tempo e dell’uso, e scaricare la responsabilità del crollo sull’ultimo veicolo transitato.
Le Ferrovie italiane hanno subito negli ultimi venti anni una ristrutturazione radicale. L’interesse aziendale è stato focalizzato sull’Alta Velocità, ritenuto il segmento più redditizio (poche tratte, prezzi medio-alti per una clientela dello stesso tipo) e comunque quello dal moltiplicatore di sistema pià alto (a cominciare dagli interessi dei costruttori di grandi opere). Tutto il resto – linee “normali” e soprattutto il trasporto pendolari – è stato derubricato a servizio che non copre i costi. Quindi da ridurre, preferibilmente eliminare, eventualmente privatizzare. Naturalmente, i “privati” che si sono fatti avanti sono molto diversi tra loro. In alcuni casi relativamente “nella norma”, in altri casi semplici pescecani attirati da un affare facile (le linee pendolari restano a bassa o nulla redditività, ma quasi sempre intervengono contributi regionali a garantire un margine sostanzioso di guadagno). Senza andare molto lontano dal luogo dell’incidente, è il caso delle Ferrovie Sud Est, rete privatizzata e letteralmente “spostata” da un imprenditore ora sotto inchiesta di molte procure (http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/06/09/ferrovie-sud-est-verso-fusione-con-fs-tra-spending-review-e-inchieste-su-ex-vertici-con-lincognita-dei-debiti/2808459/).
Sul fronte occupazionale, nello stesso arco di tempo, i ferrovieri sono calati da 220.000 a poco più di 70.000. Tagliati i macchinisti (con l’imposizione, a lungo contrastata dell’”agente unico” in cabina di guida), i capistazione, le biglietterie, gli addetti alla manutenzione (sia dei treni che, soprattutto, della rete). Basta aver lavorato un giorno, in qualsiasi posto di lavoro, per sapere che là dove c’è solo una persona l’”errore” è più frequente. Per distrazione, stanchezza, malore, ripetitività. Ovvero per limiti propri della fisiologia umana. E, quando si parla di trasporto ferroviario o urbano, non è che si abbia a che fare con nullafacenti che vanno a timbrare il cartellino con una scatola in testa… Chi lavora in certi posti rischia la propria vita, e spesso ce la lascia. A cominciare dai macchinisti, che sono sempre le prime e sicure vittime di certi “incidenti”, per finire agli operai sulla linea.
Ci sarebbe da fare dell’umorismo macabro, in questo settore, su come sono state decise alcune politiche pensionistiche. Un macchinista, per esempio, aveva fino a pochi anni fa un’aspettativa di vita estremamente ridotta: 58 anni, in media. Problemi di campi elettromagnetici giganteschi, attraversati per molte ore ogni giorno, per 35 anni e più di attività. Proprio per questo, la loro età pensionabile era rimasta a lungo a 58 anni. Sembrava fosse toccato un limite (puoi andare in pensione quando ci si aspetta che tu muoia, con grande risparmio per le casse dell’Inps), poi è arrivata Elsa Fornero, col governo Monti, a spostare l’asticella a 67 anni. Come dire che devi morire certamente prima di andare in pensione.
Ma con quali effetti sulla sicurezza del servizio? Un macchinista di 65 o 66 anni, quanti “errori” può commettere malgrado ottima volontà, preparazione, esperienza?
Stesso discorso per i sistemi di sicurezza: all’avanguardia per quanto riguarda l’Alta Velocità, preistorici sulle tratte locali.
Lo si sta verificando col sangue versato tra Corato e Andria. Scrivono i ferrovieri di “Ancora in Marcia!”:
Su questa linea la circolazione e il distanziamento dei treni sono regolati con un sistema primitivo, il cosiddetto ‘blocco telefonico’, ovvero mediante lo scambio di fonogrammi registrati, tra i capistazioni di due stazioni limitrofe al fine di inoltrare un convoglio ‘alla volta’ su ciascuna tratta di binario. Nel normale funzionamento, solo dopo l’arrivo di un treno, controllato di persona dal capostazione, egli può autorizzare telefonicamente il collega della stazione limiotrofa ad inviare un altro treno. Il controllo e la vigilanza sulla sicurezza per queste linee, come per altre ‘secondarie’ definite correntemente “ex concesse”, è svolto direttamente dal Ministero dei trasporti, a differenza della rete Fs gestita da Rfi, dove è competente l’Agenzia Nazionale per la Sicurezza, ANSF.
Nessun automatismo, neppure il relativamente più moderno sistema SCMT (Sistema Controllo Marcia Treno), nessun sensore sui binari collegato con le cabine di guida, niente che possa far sapere ai macchinisti in tempo reale e senza dubbi se il binario unico che sta percorrendo non sia in quel momento occupato da un convoglio che viaggia in direzione opposta. Stiamo parlando di sensori ormai del costo di pochi euro, sofisticati quanto quelli che si utilizzano negli appartamenti per strutturare un sistema d’allarme. Investimento minimo, insomma, senza paragoni con quelli relativi al raddoppio della linea (che va comunque fatto, ma che ha ovviamente i tempi lunghi che leggiamo oggi nel capitolo “polemiche”), poche decine di migliaia di euro, al massimo (a seconda della lunghezza della tratta) qualche centinaio.
Binario unico più “blocco telefonico” sono una scelta aziendale, non una calamità naturale. Predispongono all’incidente in base a banali criteri statistici: tot chilometri a binario unico (la maggioranza delle linee locali, specie nel centrosud o nelle valli alpine), nessun sistema automatico di sicurezza, operatori poco pagati e molto ricattati (specie nelle aziendine private). Il risultato è certo, manca solo il quando e dove.
È dunque un gioco sporchissimo quello affidato ai tanti “esperti” ascoltati dai media in queste ore. Gente che deve ridurre tutto all’”errore umano” e salvaguardare oltre i limiti della decenza le scelte aziendali che si sono rivelate mortifere. Il top ci sembra essere stato raggiunto (ma non ne siamo certi) da Massimo Nitti, direttore generale di Ferrotramviaria, la società che gestisce la tratta in cui è avvenuta la strage, quindi a rigor di logica uno dei potenziali indagati: “lì ci sono ancora sistemi manuali ma con logiche di assoluta sicurezza. Purtroppo questa volta la catena di controllo non ha funzionato“. “Sistemi manuali” ma di “massima sicurezza” è una violenza esplicita all’intelligenza di chiunque. Su masse ferro di diverse decine di tonnellate, che viaggiano a cento all’ora, non può esistere alcun “sistema manuale” che sia anche “assolutamente sicuro”. Né alcuna “catena di controllo” fatta di tanti omini che si telefonano l’un l’altro…
Non vi sembra in qualche modo straordinario che l’automazione abbia raggiunto vette un tempo da fantascienza (la Metro C di Roma, per esempio, funziona addirittura senza macchinisti…), al punto da mettere seriamente in dubbio l’occupazione futura delle nuove generazioni, ma che non si sia voluto adottare nessun sistema elettronico in grado quantomeno di segnalare ai due macchinisti “soli” in modo evidente (luci, sirene, riduttore di velocità, ecc) che dovevano fermarsi?
Un capitalismo straccione si vede proprio da certi dettagli. E a vederlo da così vicino non può ch aumentare l’orrore…
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Ma lasciamo volentieri l’ultima parola ad “Ancora in Marcia!”, foglio dei ferrovieri e in primo luogo dei macchinsti, di sicuero quelli che meglio conoscono come funziona il “sistema”:
Come nel disastro di Crevalcore ed altri episodi analoghi, protagonista della tragedia è il micidiale sistema a UOMO MORTO, che secondo i tecnocrati ministeriali (e dell’ANSF per le linee Fs) è considerato un dispositivo di sicurezza. La sua funzione si riduce a questo: se non si ‘pedala’ almeno ogni 55′, interviene un’allarme sonoro e dopo due secondi e mezzo il treno entra in frenatura di emergenza. E’ evidente a tutti, anche per semplice buon senso, che costringere i macchinisti a pigiare ripetutamente per tutto il tempo di lavoro un pulsante o un pedale ad intervalli regolari di soli 55 secondi non aggiunge nulla in termini di sicurezza perché dopo un breve periodo il gesto diviene – fisiologicamente – un riflesso condizionato, del tutto avulso dalle esigenze di marcia e inefficace per il controllo della guida. La ripetizione ossessiva di questa azione – che è completamente svincolata dal controllo della via libera dai treni – accompagna la vita del macchinista peggiorandone le condizioni di lavoro e, conseguentemente, la sicurezza della circolazione. Il costo irrisorio del pedale a UOMO MORTO rispetto alle apparecchiature di sicurezza integrate che controllano il traffico e la marcia del treno in tempo reale (come ad esempio la Ripetizione Segnali e le varie versioni di Controllo Marcia Treni) ha orientato le scelte delle imprese e condizionato anche le Istituzioni preposte a dettare le norme ed ad effettuare la vigilanza.
L’esercizio feroviario su linea a binario unico necessita di particolari accorgimenti tecnici e organizzativi per evitare proprio il rischio di incidenti come questo. Risulta inaccettabile che nel 2016 su questa linea non vi siano sistemi, dispositivi e procedure organizzative per impedire che accadano disastri di questo tipo.
Sarà facile dire che si tratta di ‘errore umano’… commesso da qualche operatore sul campo, in treno o a terra, che spesso muore per primo. Per noi invece si tratta di ‘errori disumani’ commessi da chi – lontano dalla ribalta – effettua le scelte sugli investimenti, scrive le regole sulle condiizioni di sicurezza e svolge i controlli e la vigilanza. In sostanza decide a tavolino quali percentuali di rischio siano tollerabili per i treni di seria A, d serie B e questi delle linee in concessione, a tutti gli effetti di serie C.
Appare evidente che il trasporto pendolari e le linee locali, considerate secondarie, anche sotto il profilo della sicurezza sembrano soffrire di una condizione meno avanzata. Dopo questo disastro che per la sua gravità risulta essere tra i più gravi del paese, sarà necessario riscrivere ‘le regole’ del trasporto locale, riconoscere la sua funzione strategica e destinargli le attenzioni e gli investimentin necessari e sottoporlo ad una stringente attività di vigilanza.
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Chi gestisce quella linea – La Ferrotramviaria S.p.A., costituita nel 1937 dal Conte Ugo Pasquini, nello stesso anno acquisì in Puglia dalla “Société des Chemins de Fer Economiques” di Bruxelles, la tramvia Bari Barletta continuandone la gestione e accelerando la realizzazione dei progetti di ammodernamento già avviati dalle società Belga e non completati per mancanza di risorse finanziarie.
L’infrastruttura subì ingenti danni durante la II guerra mondiale. Durante gli anni cinquanta la Ferrotramviaria dette un forte incremento al progetto di radicale ammodernamento della linea.
Il nuovo tracciato a singolo binario elettrificato venne inaugurato nel 1965, e il servizio espletato da moderni elettrotreni a composizione variabile. Contestualmente venne iniziato il servizio autobus integrativo parallelo alla ferrovia, in funzione ancora oggi.
Da allora, con lo sviluppo dei centri urbani lungo la linea, la ferrovia è diventata sempre più un riferimento nel panorama del trasporto pubblico locale Pugliese per il numero costantemente crescente di pendolari.
Negli ultimi quaranta anni l’azienda ha accumulato notevoli competenze in materia di progettazione di infrastrutture ferroviarie e di gestione dei relativi servizi anche grazie all’esperienza maturata, oltre che in Puglia, nella gestione di linee ferroviarie in Sardegna fino alla fine degli anni ‘70.
Tale capacità si è concretizzata nel 2004 con la costituzione della controllata Ferrotramviaria Engineering, società preposta principalmente alla progettazione di infrastrutture e relativa direzione dei lavori di costruzione.
Grazie a tale strategia fortemente voluta dagli azionisti (l’azienda ha capitale interamente privato) la Ferrotramviaria S.p.A è oggi in grado di fornire tutte le componenti di un sistema di trasporto ferroviario:
• PROGETTAZIONE DELL’INFRASTRUTTURA
• DIREZIONE DEI LAVORI
• PROGRAMMAZIONE DEL PROGRAMMA D’ESERCIZIO
• GESTIONE DEL SERVIZIO
• FORMAZIONE DEL PERSONALE
• MANUTENZIONE DEL MATERIALE ROTABILE E DELL’INFRASTRUTTURA
Queste competenze ed esperienze negli ultimi venti anni hanno portato ad un notevole processo di ammodernamento e ampliamento sia della rete sia della flotta. Alcuni progetti sono già stati portati a termine: 40 Km di linea a doppio binario; apertura all’esercizio della tratta ferroviaria metropolitana Bari Centrale – Quartiere San Paolo; la realizzazione del passante ferroviario per l’aeroporto internazionale “Karol Wojtyla” di Bari e l’ammodernamento della flotta con l’entrata in servizio di 21 elettrotreni a composizione bloccata. Altre opere sono ancora in fase di realizzazione e tra queste si segnalano: il completamento delle opere di raddoppio della linea Bari – Barletta; il Grande Progetto, approvato e finanziato dalla Comunità Europea, che prevede l’ interramento della linea ferroviaria nell’attraversamento dell’ abitato della città di Andria; il prolungamento della tratta ferroviaria metropolitana Bari Centrale – Quartiere San Paolo, con nuove fermate nelle aree urbane attraversate; la realizzazioni di parcheggi di scambio in prossimità delle nuove fermate e di quelle esistenti; l’attrezzaggio di tutta la rete con i nuovi sistemi di controllo del traffico e di sicurezza; l’interoperabilità con l’infrastruttura di Rete Ferroviaria Italiana nelle stazioni RFI di Bari e Barletta e la fornitura di ulteriore materiale rotabile.
Fonte: http://www.ferrovienordbarese.it/gruppo/profilo-aziendale
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