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Chi ci rimette con la Brexit?

Chi ci rimette con la Brexit? I media mainstream e gli speaker istituzionali – tutti, nessuno escluso, anche “ a sinistra” (persino qualche “antagonista” doc) – ripetono ossessivamente lo stesso mantra da mesi prima che i britannici si esprimessero con il referendum: per la Gran Bretagna sarà la fine! Un luogo così comune che Benigni non ha potuto fare a meno di assumere…

Dimenticavano qualche dettaglio: a) il Regno Unito non ha mai adottato la moneta unica, dunque molte delle strettoie fissate dall'euro non possono far sentire lì il loro peso; b) Londra è la più grande piazza finanziaria del mondo, dopo Wall Street, ma con il vantaggio di essere accessibile a molti capitali che a New York non possono o non vogliono metterci piede (a cominciare a quelli russi); c) come per l'euro, parecchi trattati europei non valgono per i britannici, o almeno non nella stessa misura; dunque tornare indietro procurerà meno traumi.

Quattro mesi dal voto, sei prima dell'inizio della trattativa per il leave vero e proprio, l'economia inglese non ha subito colpi, anzi viaggia un tantino meglio che non nella desolante piattaforma continentale. L'unica conseguenza vera è fin qui nella forte svalutazione della sterlina, che come ogni svalutazione monetaria presenta vantaggi (esportazioni più competitive, più turismo, ecc) e svantaggi (prezzi dell'energia più alti, così come per le altre materie prime prezzate in dollari).

I potenziali cataclismi annunciati riguardano semmai la permanenza o meno di una serie di multinazionali straniere che stanno calcolando le ricadute – eventuali – della non appartenenza al mercato unico europeo, come la reintroduzione di dazi alle esportazioni britanniche o alle transazioni finanziarie (compensate comunque dalla svalutazione monetaria, che abbatte il costo del lavoro di quasi il 20%, al momento). Molte di queste multinazionali sono però statunitensi, e la Gran Bretagna resta per loro una testa di ponte verso il mercato continentale.

Un'analisi apparsa nei giorni scorsi sul quotidiano economico Milano Finanza (niente comunisti trinariciuti, da quelle parti….) ha rovesciato completamente l'ottica con cui guardare alle conseguenze della Brexit. Guido Salerno Aletta, nell'editoriale, ha paragonato il voto inglese all'abbandono del Gold Standard, nel 1931, in piena crisi globale post-'29.

Il “sistema aureo” vincolava la quantità di moneta circolante ad una certa quantità di oro fisico depositato nelle casse delle banche centrali, così che la moneta cartacea era direttamente convertibile in oro. Un sistema prudente, certo, ma insostenibile in piena crisi. Un sistema di austerità obbligata con forti somiglianze con le politiche imposte dall'Unione Europea (prima sistemi i debiti, poi puoi ricominciare a investire) e decisamente pro-ciclica, ossia aggravante la recessione.

Ottanta anni non sono passati invano e ogni analogia vale solo come suggestione. Al fondo dell'analisi di Salerno Aletta campeggia infatti una partizione ben più generale:

La Gran Bretagna sta alla Germania, ed agli Usa, così come la geofinanza sta alla geoeconomia ed alla geopolitica. La Brexit scompiglia sia il contesto europeo controllato dalla Germania attraverso l’euro e l’Unione europea, sia quello occidentale controllato dagli Usa attraverso la Nato e le organizzazioni di cooperazione internazionale proliferate dopo la fine della guerra.

Difficile dire se questo vero e proprio spariglio sia stato pensato e perseguito consapevolmente da una parte del capitale finanziario con base a Londra. A vedere i comportamenti, e anche le raccomandazioni di voto al referendum, sembrerebbe di no. Ma una volta che il dado è stato tratto, la nuova classe dirigente conservatrice sembra avere un po' più chiara degli altri la via d'uscita immediata, che si salda in modo forse inatteso con la fine della doppia debolezza che affliggeva e ancora affligge la Gran Bretagna: troppo debole sul piano produttivo rispetto al vicino tedesco, troppo integrata – dalla Seconda guerra mondiale in poi – nel dispositivo militare Usa.

Nove anni di crisi economica hanno però indebolito enormemente il sogno geoeconomico tedesco:

Nella logica geoeconomica del suo scacchiere, squassato dalla crisi greca del 2010 e poi messo a dura prova dalle tensioni sulla Spagna, il Portogallo e l’Italia, la Germania ha dovuto operare per consolidare l’area dell’euro, serrando le fila attraverso il Fiscal Compact, l’ESM e la Banking Union. Presidia attraverso l’Unione europea un insieme di Paesi riottosi, che crescono poco, dilaniati come sono dalla disoccupazione e dal debito pubblico. Questo assetto ne assorbe la gran parte delle energie politiche, limitandone ancor più gli spazi di manovra.

Peggio ancora è andata agli Stati Uniti, invischiati in una serie di conflitti da cui non riescono ad uscire vincitori; anzi, da cui non riescono neanche ad uscire (http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-10-07/la-superpotenza-usa-cento-anni-ha-vinto-solo-20percento-guerre-133703_PRV.shtml?uuid=ADg7M4XB). Al massimo cercano di non rinculare troppo:

E’ subentrata la politica del “nuovo inizio”: mentre si smantellano le vecchie democrature, si determina un’area di instabilità che per un verso impedisce alla Cina di insediarsi in quest’area e per l’altra evita una espansione economica dell’Europa, come era nel progetto dell’Unione Euromediterranea varata nel 2008.

Nel mondo multipolare una serie di passaggi, che per gli Usa sarebbero stati fondamentali, sono saltati forse definitivamente.

Con i due trattati internazionali, TPP e TTIP, volti a completare l’integrazione degli Usa nei mercati del Pacifico e dell’Europa, gli Usa avrebbero [ma non hanno, ndr] allo stesso tempo rafforzato il gancio geopolitico con i Paesi aderenti ed isolato Cina e Russia. Nella logica statunitense, il mercato rappresenta solo un “di cui” rispetto al controllo geopolitico. La Germania, in uno schema geoeconomico, stenta sempre a salire di livello, verso la geopolitica.

I due grandi poli con cui la Gran Bretagna si trova costretta a fare i conti – Usa e Germania-Ue – seguono da tempo uno “schema difensivo”, che alla lunga li sta paralizzando. E la Brexit, magari senza volerlo, può diventare l'opportunità cui pochi – a Londra – avevano pensato.

La Brexit prelude ad un ruolo di primo piano della Gran Bretagna sotto il profilo geofinanziario, fuori dallo stereotipo della Unione europea e da quello altrettanto liso della leadership globale americana. Si tratta di integrare la crescita cinese al di fuori del modello di crescita export-led, del reimpiego del surplus commerciale in titoli del tesoro americano e della instabilità del sistema bancario cinese. La più grande piattaforma industriale del mondo e la più grande piattaforma finanziaria del mondo sono complementari. Wall Street ambisce alla liberalizzazione del mercato dei capitali cinesi, immaginando che affluiranno a New York per alimentare le quotazioni. La City fa un altro mestiere, agisce da tre secoli come un polmone nella redistribuzione planetaria dei capitali, dai luoghi in cui si accumulano a quelli in cui vengono impiegati. Londra non ha mai saputo che farsene di Bruxelles, figurarsi di Francoforte…

Una specializzazione “da valorizzare”. Che forse non darà i trionfali risultati qui immaginati, ma di sicuro rompe molte delle possibilità che costituivano l'orizzonte startegico di Berlino. Anche se la Gran Bretagna non dovesse ricavare tutti i vantaggi immaginati dalla Brexit, insomma, a pagare il prezzo più alto sarà comunque quella locomotiva ingolfata che risponde al nome di Unione Europea.

Tutto questo ragionamento, ovviamente, si svolge all'interno di un quadro capitalistico “a bocce ferme”, senza insomma quell'aggravamento della crisi che va maturando e che molti, ormai, annunciano (vedi https://contropiano.org/news/news-economia/2016/09/28/capitalisti-diventano-catastrofisti-084090). Ma anche in questa condizione stagnante, sebbene non “precipitante”, il progetto di Unione Europea a trazione tedesca si viene a trovare con molte basi in meno, tanto da eccitare moti di “ribellione nazionalistica” persino in quei paesi che debbono il proprio recente sviluppo esclusivamente al capitale proveniente dalla Germania (vedi http://www.repubblica.it/esteri/2016/10/09/news/intervista_kaczynski-149380233/?ref=HREC1-1).

La “rottura” di questa gabbia ha insomma solide basi oggettive, viste le difficoltà che crea in tutti i paesi (persino dentro la stessa Germania). Assumerla come prospettiva non ha dunque nulla a che fare con l'idiozia leghista (“rimettiamo la lira e torniamo a crescere”), inspiegabilmente assunta (da parte di molta sinistra “radicale” e “antagonista”) come unica alternativa concreta al “restare dentro” e farsi deindustrializzare a tappe forzate. Ha invece a che fare con la costruzione di vie d'uscita non nazionaliste da uno schema che mostra ora numerose incrinature e il cui crollo – non più così impossibile da pensare come prima dell'inizio della crisi – rischia di travolgere ogni cosa.

 

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1 Commento


  • De Marco

    E se la GB non riesce a conservare il cosiddetto « passaporto finanziario »?

    Paolo De Marco

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