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Guerra di intelligence intorno a Trump. Ne vedremo di tutti i colori

Poco prima dell’insediamento ufficiale a gennaio, Trump ha incontrato i capi dell’intelligence statunitense. Nella stessa stanza si erano ritrovati Michael Flynn e James Clapper. Il generale Flynn era stato incaricato di guidare lo staff del National Security Council nella Casa Bianca dell’era Trump. Ma proprio Flynn, nel 2014, era stato licenziato da capo della Dia (Defence Intelligence Agency) dallo stesso Clapper, allora direttore dell’intelligence nazionale. E Flynn, dopo solo 24 giorni di servizio, è stato nuovamente silurato, questa volta dalla stessa amministrazione presidenziale, per il cosiddetto Russiagate. L’accusa è quella di aver taciuto al vice presidente Mike Pence parte del contenuto di conversazioni telefoniche scambiate con l’ambasciatore della Federazione Russa a Washington.

Sarebbe sufficiente, ma non lo è affatto, lo scenario descritto, per annusare quanta “turbolenza” agisca sia all’interno delle agenzie dell’intelligence Usa, sia nei rapporti tra Casa Bianca e i diversi servizi di su cui è strutturato l’immenso, complesso e competitivo sistema degli apparati di sicurezza degli Stati Uniti.

Ma questa dissonanza tra servizi segreti e amministrazioni presidenziali statunitensi, non è un problema ascrivibile solo all’era di Trump. Non volendo andare con la memoria storica fino agli omicidi dei fratelli Kennedy (prima John poi Robert) o allo scandalo Watergate contro Nixon, è sufficiente rammentare come nel 2004, funzionari della Cia furono accusati di organizzare informazioni contro l’amministrazione di George W. Bush, sotto la spinta del malcontento per la gestione della guerra in Iraq. Il Wall Street Journal pubblicò addirittura un editoriale dal titolo “L’insurrezione della Cia”, nel quale si accusavano “ranghi superiori dell’agenzia” di voler chiaramente “contribuire alla sconfitta del presidente Bush e fare eleggere John Kerry”. C’è da dire, contrariamente all’idea di servizi segreti infallibili, potentissimi e praticamente “King maker”, che anche in quella occasione la Cia fallì e Bush venne rieletto per il secondo mandato.

“In ogni battaglia tra i servizi segreti e la stessa Casa Bianca, l’unica risorsa effettiva della comunità dell’intelligence è di preparare informazioni o favorire fughe di notizie contro il presidente. Non ci sono, tuttavia, garanzie sul fatto che possa funzionare davvero” scriveva un esperto israeliano di intelligence lo scorso gennaio sul Financial Times.

Ma adesso nella turbolenza permanente dentro e tra le varie agenzie di sicurezza statunitensi, sono entrate anche le turbolenze nella relazioni con i servizi segreti “cugini” (così di definiscono), in particolare quelli britannici e israeliani con cui da decenni esiste una relazione speciale di collaborazione.

Con i primi durante tutta l’epoca della guerra fredda c’è stata una cooperazione strettissima a tutti i livelli. Con i secondi c’è stato anche qualche incidente, come quello dell’agente Pollard che, inserito nelle agenzie statunitensi (era un analista della Us Navy), passava informazioni al Mossad. Era stato arrestato nel 1985 e liberato nel novembre del 2015 dopo quasi trent’anni di carcere per tradimento. Era stato l’addestratore del Mossad Rafi Eitan, a reclutare Pollard nei servizi segreti israeliani, come lo stesso Eitan rivelò in un’intervista ad Haaretz del dicembre 2014. Secondo i responsabili dell’intelligence americana c’erano le prove secondo cui le informazioni ottenute da Pollard sarebbero state passate dal Mossad ai sovietici in cambio della libertà per gli ebrei russi di continuare a emigrare verso Israele. Ed effettivamente con l’era Gorbaciov (seconda metà del 1985) vennero via via aperte le porte alla emigrazione di massa dall’Urss verso Israele (almeno 600mila persone), un processo che ha significato la lapide materiale sulle aspirazioni palestinesi.

Qualche giorno fa, lo scenario si sarebbe ripetuto ma a parti opposte, con Trump accusato di aver rivelato ai russi notizie fornitegli dal Mossad sulle forze dell’Isis sul teatro di crisi siriano.

Il recente incidente con la fuga di notizie sui giornali Usa relative alle indagini per l’attentato di Manchester, è forse il segnale più brusco del cambiamento di clima nelle relazioni da sempre strettissime tra i servizi segreti britannici e quelli statunitensi. In Gran Bretagna gli sgambetti tra servizi sono spesso più “interni” tra le due sponde del Tamigi dove risiedono i servizi che fanno riferimento al Foreign Office (MI 6) e quelli per la sicurezza interna (MI5).

Ad un occhio “smaliziato” non era sfuggito come le prime indiscrezioni sull’attentatore e l’ordigno di Manchester venissero diffuse dal New York Times, piuttosto che dalla stampa britannica. Si è scoperto poi che la fuga di notizie era stata favorita dai “cugini” americani come vero e proprio inciampo sulla strada di Trump alla vigilia del vertice Nato e del G7. La sfuriata della May a Trump e la promessa del presidente Usa di punire i responsabili annuncia una nuova fase di redde rationem nel rapporto tra Casa Bianca e agenzie di intelligence statunitensi.

Ma la bomba che si prepara a deflagrare per prima, sembra riguardare più i servizi britannici che gli statunitensi. La rivelazione che il padre dell’attentatore, Abeidi, abbia lavorato per lungo tempo come terminale dei servizi segreti britannici dentro i gruppi jihadisti in Libia non può passare inosservata. Al contrario getta una luce fosca ma illuminante sul “lavoro sporco” che i servizi inglesi attuano in Medio Oriente e, a quanto sembra, all’insaputa dei “cugini” Usa.

Ramadam Abeidi, il padre dell’attentatore, era infatti uno dei Manchester Fighters spediti in Libia nel 2011 dalla Gran Bretagna a combattere per la caduta di Muammar Gheddafi (altro che rivoluzione, ndr). Nel 1991, Ramadam aveva lasciato la Libia con la sua famiglia ed era andato in Arabia Saudita, dove aveva addestrato i mujaheddin afghani e arabi che combattono in Afghanistan contro il governo di Najibullah che i sovietici hanno lasciato alle loro spalle dopo aver abbandonato Kabul. Nel 1992, i mujaheddin entrano a Kabul, uccidono in modo brutale Najibullah e assumono il potere prima di riscatenare una sanguinosa guerra di tutti contro tutti fino all’arrivo dei Talebani. Ramadam si trasferisce allora in Inghilterra (a Londra prima, a Manchester, poi) per unirsi alla diaspora libica islamista raccolta nel “Libyan Islamic Fighting Group” (LIFG).

Insomma un miliziano a disposizione dei servizi britannici per azioni coperte in Libia e Medio Oriente.

E’ da questi dettagli che si capisce come l’attentato di Manchester, la fuga di notizie, le tensioni tra May e Trump si stanno portando dietro e dentro contraddizioni assai più rognose di quelle che i telegiornali danno in pasto quotidianamente all’opinione pubblica.

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