Aggiornamenti interessanti e potenzialmente clamorosi per quel che riguarda il Russiagate, l’inchiesta sul presunto ruolo della Russia nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016, che portarono alla vittoria di Donald Trump.
Nonostante i tentativi ormai sempre più evidenti di “silenziare” mediaticamente e politicamente la questione, portati avanti dall’amministrazione Trump in modo abbastanza sfacciato, sembra proprio che qualcosa di importante stia sul punto di avvenire.
L’ultimo capitolo della vicenda riguarda l’interrogatorio di Steve Bannon, ex “stratega” del presidente Trump. Le modalità di gestione da parte del procuratore Robert Mueller, a capo dell’indagine, sono già abbastanza esplicative della tensione e della complessità della situazione: il controverso ex consigliere strategico di Donald Trump, passato alla cronaca per esternazioni discutibili e posizioni politiche abbastanza radicali e poco moderate, è stato infatti convocato da Mueller di fronte ad un gran giury per testimoniare sui rapporti tra l’entourage di Trump e dei presunti “emissari” del Cremlino. In particolare, il procuratore intende raccogliere informazioni su quanto raccontato dallo stesso Bannon nel libro “Fire and Fury”, ossia di un incontro tra alcuni personaggi legati in qualche modo alla Russia e dei rappresentanti dello staff dell’allora futuro presidente: oggetto dell’incontro, del materiale compromettente su Hillary Clinton.
Un incontro che lo stesso Bannon ha definito “sovversivo”.
E’ utile soffermare per un attimo l’attenzione sull’ex stratega di Trump: un uomo di destra, razzista, convinto sostenitore della necessità di energiche politiche di imperialismo economico e militare. Un personaggio prima fortemente voluto e poi allontanato dallo stesso Trump in seguito alla pessima gestione dei fatti di Charlottesville, dove emerse in modo chiaro l’atteggiamento indulgente verso forme di razzismo e suprematismo bianco da parte dello staff presidenziale (che “The Donald” sia tendenzialmente razzista è abbastanza evidente, ma esprimerlo in modo quasi sfacciato ancora genera qualche mal di pancia, negli Stati Uniti, almeno sul piano formale).
Steve Bannon venne allora in qualche modo “sacrificato” sull’altare del politically correct, ed allontanato dall’entourage presidenziale. Una dismissione importante, parliamo di un consigliere fortemente voluto dallo stesso Trump.
Non deve averla presa bene, la defenestrazione, l’energico Bannon, che forse non casualmente nel giro di poco tempo ha pubblicato il libro “Fire and Fury” nel quale, oltre a parlare di RussiaGate, tratteggia in modo non lusinghiero diversi membri dello staff presidenziale, compresi parenti. Pure su Trump, il giudizio non è lusinghiero. E “The Donald” ci è rimasto male, forse al punto da fare pressioni per allontanare Bannon anche dal ruolo di direttore di Breitbart, giornale on-line punto di riferimento della destra USA.
Questioni politiche e questioni personali che sembrano sovrapporsi, in mezzo alle quali pare essersi inserito abilmente il procuratore Muller: la convocazione formale per Bannon (la prima nei confronti di un membro dello staff del presidente) sembra essere una mossa strategica per fare pressione sull’ex consigliere e convincerlo a parlare “informalmente” con gli investigatori.
Lanci di agenzia nel tardo pomeriggio di ieri confermerebbero che la strategia del procuratore abbia funzionato: Bannon, pur di evitare di comparire davanti al gran giury, si sarebbe dichiarato disposto a collaborare con Muller.
Passaggio importante, che potrebbe portare ad un innalzamento del livello di scontro tra gli inquirenti e l’amministrazione. Trump ed il suo staff procedono come se il Russiagate non ci fosse, ma l’impressione è che qualcosa di significativo sia avvenuto, e che tenerlo nascosto e sotto traccia sarà sempre più difficile.
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