Il primo dibattito pre elettorale, tenutosi sotto i riflettori della ABC il 29 settembre, fra i due candidati alla futura tornata elettorale americana del prossimo 3 novembre, Donald Trump e Joe Biden, sembrava uscito da un talk show di approfondimento politico/culturale nostrano. Come dire: se gli USA scoprono la TV italiana.
Trump e Biden hanno continuato a sovrapporsi per tutto il tempo, interrompendosi a vicenda ed insultandosi fuori misura; sono volate anche offese personali che poco hanno a che vedere con la Politica; Biden è apparso impacciato, invecchiato, mai così tormentato dalla balbuzie ma ad un certo punto è stato abbastanza bravo a sottrarsi, rivolgendosi a favore delle telecamere. Resta comunque il fatto che non è riuscito, per buona parte dell’incontro, ad evitare di scendere sul terreno del presidente uscente, per dimostrare al proprio elettorato che riusciva a tenere testa al cowboy dal ciuffo arancione.
Il popolo americano, spesso accusato di essere “tagliato con l’accetta” non è comunque abituato ad uno spettacolo del genere e se, durante un confronto che rischia di degenerare in rissa da un momento all’altro, accade che qualcosa sfugga, o che non gli si dia il peso che si dovrebbe, ci può stare.
Una cosa è certa: se il “paese più potente del mondo”, secondo l’anacronistica definizione di alcuni, dovrà essere guidato da uno di questi due giovincelli ultrasettantenni, il pianeta, per nostra opinione, avrà qualche problema in più.
Naturalmente, se il Covid – che ha colpito, pare seriamente, Trump – non deciderà autonomamente di far cadere il piatto della bilancia in un altro modo….
I’m going to become somebody
I don’t know how exactly, but I am
I’ve have to, somehow
Diventerò qualcuno, non so esattamente in che modo, ma lo farò, devo farlo, in qualunque modo
(“Proud of Your Boy” di Adam Jacobs tratto dal film “Aladdin”)
Molti si chiederanno cosa c’entra la citazione tratta da un brano della colonna sonora del lungometraggio tratto dall’omonimo e ben più noto film d’animazione “Aladdin”, prodotto nel 1992 dalla Disney, con l’ascesa della destra radicale americana nell’era Trump.
In quell’anno, ancora non ero stato chiamato ad assolvere il ruolo di genitore/educatore, ma un paio di anni dopo, con la nascita di mia figlia, Aladdin” a casa nostra sarebbe diventato un must, qualcosa da cui non si poteva prescindere.
La digressione sembra un po’ fuori contesto ma è per introdurre con leggerezza una riflessione ben più seria: il nome dell’organizzazione nella galassia alt–right statunitense più ricorrente negli ultimi giorni scaturisce esattamente dal titolo di quella canzone: Proud boys.
Il gruppo però non è uscito per caso dalla lampada del ladruncolo targato Disney, bensì è montato alla ribalta mediatica circa una settimana fa quando si è riunito a Portland, Oregon, per manifestare “fedeltà agli Stati Uniti e al presidente” e “mettere fine al terrorismo domestico”.
Erano qualche migliaio, niente di clamoroso, ma armati pesantemente, in nome del controverso II emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, che permette a qualsiasi cittadino abile e maggiorenne di possedere e portare un’arma.
“Orgogliosi di essere bianchi”
I Proud Boys sono nati nel 2016 grazie a Gavin McInnes, ora cinquantenne.
L’ex hipster inglese, frequentatore della scena punk rock negli anni ’90, cresce in Canada, quindi si trasferisce a Brooklyn; viene descritto come bevitore accanito, nerd pieno di rabbia, ma lui preferisce parlare di sé come un autentico “campione dei valori dell’Occidente”. Entrambe le definizioni possono coesistere, pare…
“Sono orgoglioso di essere bianco e penso che dovremmo chiudere i confini e fare in modo che tutti condividano la cultura occidentale, senza contaminazioni”.
Questo il McInnes “pensiero”.
Nel 2008 McInnes è co-fondatore della rivista hipster Vice, prima di lasciarla per darsi alla scrittura di libri dal contenuto poco riferibile. Ha un piacere adolescenziale nell’insultare donne, gay e transgender, e per il culto delle saghe stile Re Artù. Al punto che in uno dei suoi incontri pubblici, in un pub a New York, nell’Upper East Side, abbandonò tra le proteste la scena brandendo una spada medievale di plastica.
Questi aneddoti possono far sorridere: i Proud sono descritti come un club per soli uomini, uniti dalla voglia di birra e storie politicamente scorrette, amanti del mondo fantasy.
Sono ridicoli, possono pensare i più. “Non sono pericolosi”.
A ciascun fenomeno va invece data la rilevanza che merita, ed alcune volte sono i fatti, gli eventi reali che caratterizzano l’autorevolezza o meno di questo o quel gruppo.
E infatti, con l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, il gruppo si è trasformato in milizia armata ai comizi repubblicani e i suoi miliziani in guardie del corpo di controversi blogger tipo Ann Coulter e Milo Yiannapoulos.
Superano ufficialmente le cinquemila unità, con una sezione in ogni Stato. Sono presenti con alcune “squadre” anche all’estero: Australia, Giappone, Canada, Europa, soprattutto Regno Unito e Germania.
Negli ultimi quattro anni hanno partecipato a scontri contro gli antifascisti anarchici, a Portland, Los Angeles e Berkeley, in California. Uno di loro ha organizzato la marcia neonazista di Charlottesville, Virginia, nel 2017, culminata con la morte di una giovane pacifista..
La prova-madre per il loro “rito di iniziazione” infatti è partecipare a scontri. A Portland si sono scontrati con le organizzazioni antifasciste, e con gli attivisti del movimento antirazzista Black Lives Matters nelle altre città presidiate da questi ultimi.
Il trattamento di favore ai “ragazzi orgogliosi di esserlo” riservato dalle forze di polizia, che ha identificato e minacciato solo gli antifascisti, è ovvio e quasi scontato.
Bannati da Twitter e Facebook, hanno trovato casa nella piattaforma di Telegram. Si autoproclamano contro l’establishment di Washington, ma tra i loro sostenitori c’è Roger Stone, consigliere e amico di Trump, condannato per frode e per aver mentito al Congresso; ma è stato poi graziato dallo stesso presidente.
Nell’universo Wasp si definiscono gli “sciovinisti d’Occidente”; sono misogini (alle donne non è permesso entrare nell’organizzazione), islamofobi, antisemiti, anti-immigrati.
Dal 2018, il leader del gruppo è Enrique Tarrio, cubano di Miami, e appartenente ad una famiglia che è dovuta fuggire dall’Avana all’indomani della presa del potere da parte di Fidel Castro.
Con il presidente abbiamo detto c’è feeling: nel sito dell’organizzazione, la sua gigantografia domina la pagina del merchandising, dove si possono acquistare magliette e felpe con scritto “Fuck Antifa” (rigorosamente marca Fred Perry).
La gadgettistica prevede anche t–shirt stampate con l’immagine della Statua della Libertà che imbraccia l’Ak-47 (!?) altre ancora con un teschio come logo. All’ultimo corteo hanno indossato una maglietta dedicata a Kyle Rittenhouse, il ragazzo di 17 anni che ha ucciso due manifestanti a Kenosha, Wisconsin. C’era scritto: “Rittenhouse non ha fatto niente di male”.
Anche in questo caso, Trump non ha preso le distanze. I Proud Boys gli sono grati e si preparano in vista delle elezioni di novembre.
Alla fine di novembre 2018, è stato riferito, l’ FBI aveva classificato i Proud Boys come un gruppo estremista con legami con il nazionalismo bianco. Due settimane dopo, un ufficiale dell’FBI che lavorava sotto copertura nella sezione locale della contea di Clark, ha negato che fosse loro intenzione classificare l’intero gruppo in questo modo e attribuì l’errore a un malinteso.
Durante il briefing, gli agenti dell’FBI hanno suggerito di utilizzare i siti Web per ulteriori informazioni, inclusa la risorsa SPLC (Southern Poverty Law Center). Il funzionario ha affermato che il loro intento era quello di caratterizzare la possibile minaccia da parte di alcuni membri del gruppo.
Teorie, parole, gli effetti veri si vedono con il tempo. E infatti…
Il riconoscimento
Il breve ritratto, deliberatamente tra il serio ed il ridicolo, dell’organizzazione che The Orange dice di non conoscere, può far pensare che il gruppo sia un’accozzaglia disorganizzata di poveri folli. Questo si vuole dare in pasto all’opinione pubblica.
Senza voler dargli un peso maggiore di quello che hanno, però, questa milizia armata è solo una delle 50.000 che esistono su territorio statunitense (dati sito SPLC).
Il presidente uscente, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti dal 1896, ha dichiarato che se non verrà rieletto non riconoscerà il proprio avversario, definito dal suo vice, il più “presentabile” Mike Pence, come “il cavallo di Troia della sinistra radicale americana”.
Continua a dichiarare ufficialmente che ci sarà una “frode elettorale” e che, onde evitare brogli, chiederà alle milizie di sovrintendere e controllare le operazioni di scrutinio. Inutile ritrattare il giorno dopo, dichiarando di non sapere neanche chi sono i Proud. Anche qui, il ciarpame “Italian Trend”, cui noi siamo purtroppo abituati da decenni, ha fatto scuola.
Nell’unico duello televisivo, incalzato dal moderatore Wallace, The Donald viene invitato a condannare i suprematisti bianchi esortandoli “to stand down”, letteralmente a “smobilitarsi, a lasciar perdere”.
Il presidente in carica a quel punto ha risposto con uno “stand back, stand by”: “fate un passo indietro e tenetevi pronti”. Che, senza allarmismi, è ben altra cosa da quello che aveva chiesto il moderatore e, soprattutto, da quello che gira nell’informazione mainstream anche di questo paese.
Ad un esame più attento si nota che le tre forme verbali non sono affatto sinonime: “ritirarsi” non è la stessa cosa che “fermarsi e stare pronti”.Come sa ogni militare…
Sottile differenza “sfuggita” invece ai più. In buona o cattiva fede, ognuno può giudicare.
Meno di un’ora dopo dalla fine del dibattito però, il presidente dei Proud Boys, twitta dalla Florida il suo grazie al presidente: “Standing by sir”. L’appello di Trump ha galvanizzato i suprematisti. Andrew Anglin ha scritto sul suo sito neonazi Daily Stormer. “Il presidente ha detto alla gente di stare in guardia, cioè: preparatevi alla guerra”. Due gruppi di Proud, subito dopo l’intervento di Trump al dibattito televisivo, hanno registrato l’adesione di centinaia di nuovi membri.
Queste milizie non sono un gruppo di complottisti, che hanno un seguito molto relativo e che sembra non essere destinato ad ingrossarsi. I seguaci dei QAnon poggiano le loro “tesi” su ragionamenti dietrologici e vagheggiano di sette segrete legate ad una presunta élite democratica di pedofili. Sembrano quasi uno specchietto per le allodole.
Le milizie armate negli USA sono invece una realtà tangibile, e come notavamo poco sopra, in costante aumento numerico.
Le formazioni armate non sembrano però essere appannaggio esclusivo della cosiddetta Alt-right. Gruppi di opposto colore politico si stanno organizzando nel paese.
Un ultima riflessione.
Sono sempre più frequenti e numerose le voci di autorevoli esponenti della cultura americana non mainstream che dichiarano da settimane che “si respira da un po’ di tempo un’aria troppo pesante. Da guerra civile.”
La sera del 3 novembre, e nei giorni successivi, il rischio di disordini sociali, di crisi istituzionale e di chissà cos’altro è molto alto.
Stand by, insomma, ma non per molto.
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