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Mario Draghi è la Troika

Il P.U.N. e il suo Duca

Andrea Zhok

Per chi non avesse ancora capito la situazione, Mario Draghi è la Troika, entrata da noi su gentile invito, che ora sta governando con un supporto plebiscitario di partiti che costituiscono a tutti gli effetti un Partito Unico Neoliberale.

E’ importante capire che questa NON è un’iperbole.

L’agenda che unifica il 100% dei partiti in parlamento (nella misura in cui hanno un’agenda, molti sono là semplicemente perché aspettano il 27 del mese) è legata ad un’idea di Stato il cui unico compito è di ottimizzare le funzionalità di mercato e di introdurre meccanismi di mercato dove ancora non ci sono (e questa è la definizione di stato neoliberale).

Secondo la classica definizione di David Harvey:

il Neoliberalismo è una teoria delle pratiche economico-politiche che propone che il benessere umano sia promosso al meglio liberando iniziative e capacità imprenditoriali individuali, entro una cornice istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati, e libero commercio.

Il ruolo dello Stato è di creare e preservare una cornice istituzionale appropriata a tali pratiche. Lo Stato deve garantire, ad esempio, la qualità e integrità della moneta. Deve anche disporre quelle strutture e funzioni di natura militare, difensiva, poliziesca e legale richieste per assicurare i diritti di proprietà privata e per garantire, con la forza se necessario, il funzionamento adeguato dei mercati. Inoltre, se mercati non esistono (in aree come la terra, l’acqua, l’educazione, la sanità, la sicurezza sociale o l’inquinamento ambientale) allora essi devono essere creati, con l’azione dello Stato se necessario.”

In questa visione, il funzionamento dei mercati è “il Bene”.

Il resto della società, dell’ambiente, dell’umanità, del mondo sono strumenti secondari da adattare al perseguimento del Bene.

Lo Stato può intervenire, anche duramente, ma solo come funzione ausiliaria per manipolare gli strumenti utili al perseguimento del Bene.

Il PNRR è una grande manovra di condizionalità, simile a quelle che hanno operato per decenni nel Terzo Mondo, manovrate allora dal Fondo Monetario Internazionale o dalla Banca Mondiale (ora dall’UE): soldi, prevalentemente nella forma di prestiti a interessi bassi, in cambio di riforme che facilitino l’esercizio della sovranità da parte dei mercati.

Con assoluta regolarità questo tipo di riforme conduce ad un ulteriore allargamento della forbice sociale tra abbienti e non abbienti (che coincide in sempre maggior misura con la differenza tra la minoranza di chi vive di capitali fruttiferi e la maggioranza di chi vive del proprio lavoro).

Tutto ciò in Italia viene portato a termine con il sostegno totale di tutti i poteri che contano (Confindustria, Media, Parlamento), da un capo del governo che non risponde a nessuno (non almeno in Italia), e che reagisce tra lo stizzito e l’annoiato a qualunque atteggiamento che non sia un solerte battere i tacchi.

Gli stessi partiti, nella misura in cui avessero qualche dubbio, sono ricondotti all’ordine dalla minaccia delle dimissioni del Salvatore (con tacita minaccia di un riacutizzarsi dello spread) e con il timore di venire distrutti mediaticamente se dovessero ostacolare il lavoro dell’Unto del Signore.

Qui sotto, per chi si stupisce dell’attuale discussione sulle pensioni, le raccomandazioni del PNRR.

E a chi parla di “dittatura” rammento che non è esatto: le dittature storicamente note, magari all’estero, un’opposizione ce l’avevano.

da qui

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Il compitino tecnocratico di Draghi

Mario Barbati

Il governo Draghi vara la sua prima legge di bilancio, rompe l’incantesimo con le parti sociali sul tema delle pensioni, alla vigilia del più grande piano di investimenti pubblici dal dopoguerra. Ma se guardiamo alla sua visione generale della ripresa post-pandemica, non si vedono i segni di un cambiamento sociale, economico e quindi politico.

Aumentano il Pil come paradossalmente povertà e lavoro precario. Degli oltre 830mila nuovi posti di lavoro creati nell’ultimo anno il 90% sono a termine, solo l’1% dura più di un anno. Tolto il salario minimo legale dal Pnrr, smantellato il ‘decreto dignità’ che limitava i contratti a termine, vengono messi in discussione i redditi di sostegno e le pensioni ma si omette un contrasto ai 203 miliardi di economia sommersa, che sarebbero decisivi se davvero si volesse attuare una redistribuzione della ricchezza. Rinviata ancora la plastic tax, in omaggio alla transizione ecologica.

Legge di bilancio – Una manovra da 30 miliardi che Draghi definisce “espansiva”. Si alleggerisce la pressione fiscale con 12 miliardi, di cui 8 per il taglio delle tasse su società e persone, senza ripartizioni però che “saranno definite insieme al Parlamento nelle prossime settimane” (dove però la maggioranza di centrodestra più Italia viva sono sensibili alle sirene confindustriali).

Rinviata la riforma delle pensioni, quota 102 è solo un compromesso che non risolve una questione che dura da anni e alimenta una narrazione, peraltro falsa, che il lavoro per i giovani si crei innalzando l’età di pensionamento, mettendo lavoratori di diverse generazioni contro.

La riforma degli ammortizzatori sociali affronta la questione dell’universalismo e a suo modo è un intervento storico. Prevede misure protettive nel mondo del lavoro per tutti: cassa integrazione per i datori di lavoro con più di 15 dipendenti, Naspi allargata ai lavoratori discontinui, ammortizzatori e disoccupazione per autonomi e cococo. Poca però la dote per partire: solo 4,5 miliardi (il ministro Orlando ne aveva chiesti 8).

Dopo inutili polemiche e vesti stracciate, viene rifinanziato il reddito di cittadinanza (a proposito, dov’è finita la raccolta firme di Renzi per abolirlo?), con controlli più stringenti e con il rilancio dell’attuazione delle politiche attive, che sono sempre state quasi inesistenti in Italia già da prima del Rdc.

Solo che anziché potenziare e in alcuni casi “rifondare” i centri per l’impiego pubblici, si finanziano anche le agenzie di collocamento private. Prorogato il cosiddetto superbonus per la riconversione edilizia. Viene cassato invece il cashback, in un paese che nella “non-lotta” all’evasione ha un suo tradizionale punto di forza. Rimandate a chissà quando sugar e plastic tax.

Il Pil sale, i salari scendono – Il premier Draghi nella conferenza sulla manovra ha dichiarato: “dal problema del debito pubblico alle prestazioni sociali inadeguate, alle altre giuste modifiche che non abbiamo potuto fare, si esce solo attraverso la crescita”.

Già, ma quale crescita? Sempre Draghi: “Sempre maggiore attenzione si pone sulla qualità, sull’inclusività, sulla sostenibilità, sull’equità della crescita. È una novità dell’epoca che stiamo vivendo”.

Ammettendo senza volerlo che prima non erano una priorità, negli anni dell’austerity in cui era a capo della Bce.

Ma ha senso un sistema in cui aumentano il Pil (oltre il 6% quest’anno, come dichiarato dal premier) e al tempo stesso la povertà, ormai anche tra molti lavoratori? E per quanto tempo può reggere, dopo quasi due anni di pandemia?

Superare l’austerità se non si leniscono le profonde disuguaglianze degli ultimi decenni, che anzi sono accresciute con la pandemia, se non si affrontano la questione salariale e la precarietà, non ha senso.

Il Pil non è una buona misura dell’economia” ha dichiarato recentemente il Nobel per la fisica Giorgio Parisi, “perché cattura la quantità ma non la qualità della crescita e perché ci sono indici diversi, come l’indice di sviluppo umano e l’indice di benessere economico sostenibile, mai presi in considerazione”.

In Italia più di 5 milioni di lavoratori dipendenti hanno un reddito inferiore ai 10mila euro annui, determinando il fenomeno, non solo italiano, della povertà che si diffonde tra chi lavora. Rappresentazione plastica di un modello sociale da ribaltare.

Una delle poche ma significative modifiche del Pnrr targato Draghi (nella versione Conte-Gualtieri c’era) è stata l’eliminazione dell’introduzione del salario orario minimo. Cioè di una legge che fissi un minimo sotto il quale il datore di lavoro non può scendere.

La misura è in vigore in 21 Stati dell’Unione europea su 27 (comprese Germania, Francia, Spagna) e sarebbe indispensabile in un paese in cui non solo esistono una miriade di contratti collettivi nazionali diversi (900), ma anche milioni di lavoratori fuori dalla contrattazione collettiva, sfruttati con stipendi da fame e zero diritti.

In Italia, ma non solo in Italia, il neoliberismo si è tradotto con offerte di lavoro, richiesta di manodopera, delle risorse intellettuali al massimo ribasso: trasformando il lavoro in una merce, anche abbastanza scadente.

Ma il Belpaese non poteva che distinguersi tra gli altri. L’Italia è l’unico stato in Europa – dati Ocse alla mano – in cui dal 1990 ad oggi gli stipendi sono diminuiti invece che aumentare. E se negli ultimi trent’anni la ricchezza è invece aumentata, se ne deduce facilmente che sia finita in pochissime mani.

Con l’aumento del costo delle materie prime dopo i blocchi pandemici e quindi di carburante, energia, gas, quella dei salari dovrebbe essere la priorità di un paese che si vuole rilanciare.

In Germania, l’Spd di Scholz ha vinto le elezioni con la proposta di alzare il salario minino a 12 euro all’ora. La nostra Costituzione prevede che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (articolo 36).

È la Costituzione che andrebbe applicata, ribaltando il concetto della crescita slegata dal benessere e dal lavoro delle persone, cominciando dal salario minimo orario, lasciando la contrattazione collettiva ma fissando una soglia di dignità per tutti.

Oggi 3,5 milioni di dipendenti privati, 600mila lavoratori domestici, 370mila operai agricoli non raggiungono i 9 euro lordi all’ora.

Una vita a termine. Dall’inizio del 2021 sono stati creati oltre 830mila posti di lavoro, in aumento rispetto agli anni precedenti. Quasi il 90% di questi nuovi lavori creati è stato attivato con un contratto a termine. Modeste e inferiori al 2020 le posizioni a tempo indeterminato.

Da luglio, l’eliminazione del vincolo ha prodotto 10mila licenziamenti. Sono dati firmati Ministero del lavoro e Banca d’Italia. In che modo questi dati sono coerenti con queste dichiarazioni?

Draghi ai giovani: il mio impegno è seguire le vostre ambizioni, dopo anni in cui l’Italia si è dimenticata di voi” (Ansa, 26 ottobre); “Draghi: rimuovere ostacoli al talento femminile, nostro dovere abbattere pregiudizi” (Ansa, 26 ottobre); “Draghi: la sfida per il governo è fare in modo che questa ripresa sia duratura e sostenibile” (Ansa, 23 settembre).

La retorica del “niente sarà più come prima”, del “ne usciremo tutti migliori” che ci ha allegramente accompagnato durante la pandemia, deve ora fare i conti con una realtà dura a morire perché frutto di politiche durate decenni. Comprese quelle degli ultimi tempi in parlamento.

Il “decreto dignità” che provava (peraltro in maniera inefficace) a limitare i contratti a termine è stato scardinato da un emendamento del Pd (votato da tutti, compresi i 5 stelle) che consente di prorogare i contratti a termine senza indicare causali.

Ricchi & poveri

La pandemia, che ha squadernato un paese in cui pochi hanno tanto e molti hanno poco, rischia di finire esattamente come era iniziata. Senza un cambio di direzione verso una giustizia distributiva e sociale.

Bizzarro è il paese in cui s’istituisce un comitato tecnico scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza, cioè del supporto alla fascia povera della popolazione che pure va migliorato, ma da decenni distoglie lo sguardo dall’evasione fiscale, dall’economia in nero, dalle ricchezze sommerse il cui recupero sarebbe l’unica speranza per l’inizio di una redistribuzione.

L’ultimo rapporto Istat rivela che l’economia sommersa nel 2019 vale 203 miliardi di euro, pari all’11,3% del Pil. Poco più di 183 miliardi di euro riguardano la componente dell’economia sommersa, mentre quella delle attività illegali supera i 19 miliardi.

Non è tutto. Solo il 3,6% dei Comuni (279 su 7.656) ha partecipato con la propria attività al contrasto all’evasione fiscale nel 2020. Roma recupera solo 82mila euro.

L’articolo 53 della Costituzione sostiene che l’imposta che i cittadini sono tenuti a versare è proporzionale all’aumentare della loro possibilità economica. In altre parole, l’imposta cresce con il crescere del reddito.

Il criterio di progressività ha la sua ragione nel soccorrere e sostenere le classi sociali in difficoltà, garantendo i diritti e i servizi sociali fondamentali quali la pubblica istruzione, l’assistenza sanitaria, la previdenza sociale e l’indennità di disoccupazione, criteri sui quali si basa lo Stato sociale italiano.

Recovery fan – Del resto l’applicazione della Costituzione dovrebbe essere la stella polare per le riforme e gli investimenti del Recovery plan. Invece il Pnrr, 230 miliardi di euro di risorse insperate senza la drammatica vicenda dell’epidemia, rischia di andare a favore dell’alta economia e di cambiare poco o niente nella vita comune di cittadini, studenti, lavoratori e imprese.

Già prima della pandemia globale, l’Italia era contrassegnata da forti disuguaglianze, gap e divari generazionali, di genere, territoriali e sociali. Anni di vincoli e austerità hanno frenato le transizioni digitali e verdi di cui c’era già necessità.

Ora il Recovery, che è il più grande piano di investimenti pubblici della storia repubblicana, rischia di vedere il mercato e non la politica come principale regolatore dell’economia.

Non solo. Concretamente il Piano rischia di essere una sommatoria di progetti, al momento senza un coordinamento visibile, con misure eterogenee che mancano di un progetto-Paese in grado di creare un modello di sviluppo sostenibile non a favore di alta finanza e poche grandi imprese – come avvenuto negli ultimi 30 anni – ma a vantaggio della vita delle persone in armonia con l’ambiente.

Se gli obiettivi del piano sono concreti e misurabili nell’esposizione dei progetti, manca un riscontro sulla ricaduta nella creazione di lavoro, nella rigenerazione urbana, nella riconversione ambientale. I monitoraggi vengono intesi più come passaggi tecnici o contabili senza una rendicontazione sociale delle scelte.

Il portale che il governo ha dedicato al Recovery Plan (Italia Domani) prevede la condivisione sugli esiti dei singoli progetti, ma senza informazioni su ogni fase del processo attuativo, come tra l’altro chiesto dall’Europa.

Sul piatto della transizione ecologica ci sono 70 miliardi, ma nei documenti inviati a Bruxelles mancano impegni chiari sulla sostituzione graduale del carbone e del gas naturale, nel Pnrr italiano inoltre non vi è alcun riferimento all’Agenda 2030.

La mobilità sostenibile (31 miliardi in nuove infrastrutture) privilegia i treni Av anziché il trasporto locale, regionale e cittadino. C’è il rischio di aumentare e non diminuire il divario tra nord e sud, tra aree ricche e povere e questo perché ci saranno enti locali in grado di sfruttare i bandi e altri incapaci di farlo.

La quarta missione, che riguarda “Istruzione e ricerca”, stanzia complessivamente 33 miliardi, di cui quasi 12 per la ricerca. Sparisce il piano Amaldi, che proponeva un aumento dei fondi per la ricerca pubblica nella misura di 15 miliardi in 5 anni, per far sì che l’Italia passasse dallo 0.5% del Pil in ricerca pubblica allo 0.7% francese. Ottimo, almeno sulla carta, il piano per l’edilizia scolastica e gli asili nido.

Resta il tema del ddl Concorrenza, che dal Pnrr era previsto entro luglio: dirimere il legame tra Comuni e società pubbliche, ci si chiede se la soluzione sia aprire ai mercati – in tutti i settori, senza fare distinzioni – in nome dell’ideologia neoliberista superata dai fatti e dalla storia.

Nel Piano si legge di “specifiche norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto del mancato ricorso al mercato”.

Soluzione che in alcuni casi potrebbe essere utile per spezzare le rendite, i monopoli troppo garantiti, i legami clientelari con la politica; in altri potrebbe essere deleteria, perché in passato le “liberalizzazioni” hanno riguardato servizi di interesse generale, come i monopoli naturali attraverso concessioni esclusive ai privati. Come il caso Autostrade: 11 miliardi di utili per Benetton & soci, continui aumenti delle tariffe, risparmi e negligenza assassina sugli investimenti in sicurezza.

La storia recente dimostra che le public utilities (il trasporto pubblico, i servizi idrici, le reti ad alta velocità) non dovrebbero più dipendere dal dominio di logiche di profitto, perché sono servizi di interesse generale. Il principio della concorrenza andrebbe applicato laddove produce benefici, come nel caso delle concessioni balneari.

Non si capisce poi come il Pnrr possa, attraverso le riforme previste e richieste dall’Ue, contrastare la precarietà. Istruzione, sanità, welfare universale rischiano ancora una volta di essere sacrificate sull’altare delle grandi opere e degli affari per pochi, in contraddizione con lo spirito costituzionale.

Il governo Draghi, voluto per la salvezza del paese, con questa prima manovra di bilancio fa il suo compitino tecnocratico, comincerà ad attuare i progetti del Recovery, ma la visione di un mondo post-pandemico non c’è.

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Il PNRR è l’attacco finale al lavoro: faremo la fine della Grecia

Lidia Undiemi

Il potere lo sa, certi obiettivi estremamente impopolari è meglio celarli dietro frasi a effetto e cambi di prospettiva.

Il testo del PNRR, la cui stesura, si dice, è avvenuta a porte chiuse, è l’emblema di questa strategia tanto ambigua quanto pericolosa.

Non si attacca direttamente il lavoro ma lo si fa scomparire tra le righe di una inquietante celebrazione, esaltazione e osannazione dell’interesse di profitto delle grandi imprese e del capitale straniero, considerato un interesse superiore e quindi un principio cardine delle riforme in tutti i settori (giustizia, pubblica amministrazione, appalti, ecc.).

Non si dice esplicitamente che è necessario ridurre ancora gli stipendi, ma si ripete ossessivamente che bisogna spingere la concorrenza, la produttività e la competitività.

Non si confessa che la tecnologia applicata a molti processi produttivi sta spingendo a una generalizzata precarizzazione dei posti di lavoro, ma la si considera un traguardo imprescindibile, la panacea di tutti mali su cui investire senza tregua.

Tutto il piano, e questo è evidente anche nei documenti della Commissione Europea che ha imposto riforme dettagliatissime all’Italia – “riforme ambiziose per rimuovere gli ostacoli al contesto imprenditoriale“ (Proposta di Decisione del Consiglio relativa all’approvazione della valutazione del piano per la ripresa e la resilienza dell’Italia, 22 giugno 2021) –   pena il blocco del finanziamento, sono modellate sul linguaggio aziendalistico, come se lo Stato fosse esso stesso nulla di più e nulla di meno che un lavoratore precario costretto ad accettare qualsiasi condizione  pur di sbarcare il lunario.

Prima di entrare nel merito del tema del lavoro, è importante premettere che il PNRR altro non è che una forma di finanziamento che un’entità sovranazionale (ritornata a essere la versione quasi originaria della Troika intra-UE) eroga a un paese purché questo si sottoponga a un rigido commissariamento (qui una indagine approfondita), vale a dire a un piano di riforme calato dall’alto, qual è appunto il PNRR.

Uno Stato viene quindi trattato come un mero debitore che deve ignorare i suoi elettori e rispettare per un certo numero di anni (almeno) un’agenda politica dettata dalla leadership europea, tanto interessata a favorire gli interessi del capitale internazionale nei paesi membri.

Il rapporto che si instaura è a dir poco spaventoso: il denaro concesso allo Stato, pari a 191,5 miliardi di euro, viene erogato a rate, previa verifica della effettiva realizzazione delle riforme imposte. Esattamente quello che è accaduto in Grecia.

Già solo questo sarebbe sufficiente a far saltare dalla sedia chiunque abbia un minimo di cognizione di cosa sia una democrazia.

Quello che di seguito verrà descritto si basa sul PNRR presentato dal governo alla Commissione Europea sulla risposta dell’istituzione europea (la decisione di esecuzione del Consiglio sopra citata con l’allegato contenente le richieste), che contiene appunto il piano di riforme.

Il capitolo sul lavoro è inesistente, capiamo perché.

Al lavoro, si fa per dire, viene dedicato un capitolo dal titolo “Coesione e inclusione” (p. 198 del PNRR), ma appare subito evidente il vuoto di contenuti sui temi centrali della crisi del potere contrattuale dei lavoratori che si traduce in un calo generalizzato degli stipendi, anche attraverso forme spinte di outsourcing e delocalizzazioni all’estero. Le utlime vertenze che hanno avuto risalto a livello nazionale ne sono un chiaro esempio.

Una volta ignorato il piano del conflitto e della redistribuzione della ricchezza tra capitale e lavoro da cui dipende la crescita della disuguaglianza, nel PNRR si discute di “occupazione femminile”, “parità di genere” e “incremento delle prospettive occupazionali dei giovani”, si fa un accenno, ma giusto un accenno, alla necessità di “porre attenzione” alla qualità dei posti di lavoro creati, nonché di garantire un reddito ai disoccupati durante “le transizioni occupazionali”.

Una garanzia, quest’ultima, che si riferisce quindi agli ammortizzatori sociali nei periodi di non lavoro, ma attenzione “nel rispetto della sostenibilità finanziaria” prevista nelle raccomandazioni europee.

Il dettaglio degli obiettivi specifici contenuti nel piano, fornisce bene l’idea dell’assenza di vere e proprie politiche del lavoro volte a garantire una occupazione di qualità e ben retribuita.

Gli interventi si reggono infatti su quattro pilastri: politiche attive e formazione del personale, rafforzamento dei centri per l’impiego, creazione di imprese femminili e promozione dell’acquisizione di “nuove competenze”.

Insomma, la stessa inutile aria fritta degli ultimi 20anni almeno. L’inutilità di queste manovre va compresa sotto una duplice prospettiva. Quella dell’idea falsificata secondo cui la crisi del lavoro è tutta dal lato della domanda, ossia dipende dal fatto che i lavoratori non hanno le “competenze” e che non sanno cercarsi il lavoro, e da qui la necessità di investire (ancora) nei corsi di formazione e nei servizi di incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Ora, riguardo al tema delle “competenze”, sappiamo benissimo che l’Italia sta subendo una metamorfosi pazzesca dei posti di lavoro incentrata sulla diffusione massiva delle attività basate sull’uso intensivo della tecnologia, al punto che i lavoratori somigliano sempre più a meri ingranaggi di una complessa fabbrica “virtualizzata”, che li costringono a svolgere lavori standardizzati, ripetitivi e altamente controllabili, dove quindi è il tempo di lavoro e non le competenze a essere il principale, se non l’unico, valore negoziabile con le imprese, e che spinge inevitabilmente gli stipendi verso il basso, contribuendo all’aumento dello sfruttamento del lavoro tipico delle grandi fabbriche materiali.

Si ignora che sono i sistemi informatici che processano le attività e che inglobano le conoscenze, ovvero le compentenze, per cui il lavoro svolto dai dipendenti si traduce sempre più in un’attività di data entry – si pensi alle attività amministrative e contabili, all’attività di assistenza alla clientela, per fare un esempio – o in attività prevalentemente manuali – come quelle svolte dai lavoratori di Amazon e della logistica in generale, oppure ancora quelle svolte da coloro che consegnano cibo a domicilio tramite app – allo stesso modo ripetitive e totalmente controllabili attraverso la tecnologia.

Tutto ciò sta appunto spingendo verso una standardizzazione al ribasso delle competenze richieste ai lavoratori e conseguente anche degli stipendi erogati.

Questo significa inoltre che i lavori altamente qualificati (quelli che richiedono veramente le “competenze”) rappresenteranno sempre più soltanto una piccola porzione dell’offerta di lavoro.

La spinta alle delocalizzazioni all’estero sono una conseguenza di questa trasformazione, perché è ovvio che le imprese che inseguono il profitto sanno che molti di questi lavori possono essere svolti anche da persone all’estero pagate molto meno di un lavoratore italiano.

Davvero qualcuno è ancora convinto che il problema del lavoro dipenda dalle “nuove competenze delle nuove generazioni”?

Basterebbe avere posto l’attenzione almeno a una delle grandi vertenze di lavoro che si sono susseguite negli ultimi anni per comprendere l’assurdità del silenzio politico su uno dei veri grandi temi del declino del lavoro, per questo credo che l’assenza di un vero e proprio piano di rilancio, ovvero di protezione, del lavoro non sia casuale.

D’altronde, negli ultimi decenni abbiamo assistito a una lenta ma inesorabile distruzione dei diritti dei lavoratori (questa è la seconda prospettiva da cui osservare la scelta del governo e dell’Europa di relegare ai margini del PNRR il piano del lavoro), una riforma dietro l’altra per consentire alle imprese di potere ridurre gli stipendi e aumentare le possibilità del ricatto di licenziamento ingiusto con un pesante ridimensionamento dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

L’attacco ai lavoratori e ai sindacati nel capitolo “Concorrenza e imprese”: tagliare il costo del lavoro

In questa incredibile metamorfosi del linguaggio politico, dove ormai l’espressione “politiche del lavoro” viene pressoché usata solo per indicare la crisi dei lavoratori che necessitano di supporto economico, l’unico modo per comprendere cosa accadrà ai lavoratori è interpretare i capitoli dedicati alle imprese.

Tra i principali del PNRR vi è certamente il capitolo “Concorrenza e imprese” (p. 261 del PNRR), che prevede come assi portanti per accrescere la concorrenza sono i “maggiori investimenti” e la “maggiore competitività” delle imprese.

Si specifica subito che per attrarre gli investimenti e rendere i mercati più concorrenziali occorre far competere le imprese in termini di qualità dei prodotti (come se le imprese avessero bisogno della lezioncina dei politici per farlo) e – tenetevi forte – anche “in termini di costi, spesso motivo rilevante di delocalizzazione”.

Abbattere salari e stipendi

Uno dei principali obiettivi politici di questo governo per accontentare le richieste dell’Europa è quindi quello di aiutare le imprese a ridurre quei costi che spingono a delocalizzare all’estero.

Sapete qual è il principale costo che le imprese vogliono o vorrebbero abbattere attraverso le delocalizzazioni all’estero? Ovvio, il costo del lavoro, quindi il disincentivo alle delocalizzazioni su cui investirà la maggioranza ai sensi del PNRR è l’abbattimento di salari e stipendi, e più in generale dei costi legati alle condizioni di lavoro.

Un recente report dell’Istat mostra proprio come il fattore che più incide sulla scelta di trasferire all’estero attività o funzioni aziendali è per il 62,2 percento delle imprese la riduzione del costo del lavoro (Report Istat “TRASFERIMENTO ALL’ESTERO DELLA PRODUZIONE, ANNI 2015-2017 ”, 3 giugno 2019).

Anche uno studio pubblicato per la Regione Lombardia mette in evidenza che non soltanto in Lombardia ma anche ne resto d’Italia e dell’Europa, il motivo principale delle delocalizzazioni risiede nella volontà di ridurre il costo del lavoro (pubblicazione ed elaborazione PoliS-Lombardia su dati Istat, La delocalizzazione, Le imprese lombarde nel censimento 2019, working paper 4/2021).

Ora, se leggete il capitolo in discussione, vi renderete conto di come questo dato essenziale della riduzione dei costi (del personale) venga edulcorato da una combinazione tutto sommato elementare di frasi e contenuti confusi e vaghi.

Come avverrà il peggioramento delle condizioni di lavoro?

A questo punto, bisogna chiedersi come avverrà questo abbattimento del costo del lavoro.

Attenzione, non si prevede di intervenire direttamente sulla legislazione del lavoro e sulla contrattazione collettiva, così come accadde dal 2011 dopo la famosa lettera della Bce al governo Berlusconi per cui è assolutamente utile riportarne il contenuto:

b) C’é anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.

  1. c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

Seguì la riforma del lavoro Fornero con un primo attacco all’articolo 18 e ad altri importanti diritti dei lavoratori, e poi il Jobs Act con le stesse finalità.

Riguardo al tema specifico della delocalizzazione, chi lavora nel settore sa benissimo che oggi le grandi imprese fanno quello che vogliono, con un unico limite: le cause di lavoro. Migliaia di lavoratori hanno portato le imprese nei tribunali d’Italia contro le esternalizzazioni di massa che sono il preludio alle delocalizzazioni. Questo perché l’ordinamento giuslavoristico italiano, e invero anche quello europeo, pongono dei paletti ben saldi contro forme di espulsione del personale celate dietro finte cessioni di attività.

La norma perno della difesa del lavoro contro le esternalizzazioni è l’art. 2112 c.c. (qui una breve e intuitiva descrizione su lavoro ed esternalizzazioni), su cui il governo con la recente vicenda Alitalia ha scaricato non a caso tutta la sua furia capitalista facendo fuori “per decreto” migliaia di lavoratori (qui spiego come e perché).

Tolto questo piccolo argine delle norme contro l’outsourcing abusivo, non vi è alcun argine politico alle delocalizzazioni basate sul costo del lavoro, ovvero alla competitività basata sul taglio di salari e stipendi, né come già detto l’atteggiamento del governo sulla terribile vicenda Alitalia lascia intravedere un cambio di rotta.

Accadrà quindi che ai lavoratori e ai sindacati verrà posta un’unica via (There is not alternative, come direbbe la Thatcher): tagliare il costo del lavoro, seduti in civili e democratiche riunioni fino a che non si raggiunge un accordo (parafrasando il mega direttore galattico di Fantozzi).

Uno sguardo alle condizionalità imposte dalla Commissione Europea: la proletarizzazione del Parlamento

Come già accennato, la Commissione Europea impone moltissime riforme, compresi tempi e modalità di attuazione (“Traguardi, obiettivi, indicatori e calendario per il monitoraggio e l’attuazione del sostegno finanziario”).

Nell’ultima sezione (da p. 555), la Commissione Europea riassume le riforme da attuare per l’erogazione delle singole rate, atteggiandosi come un investitore con le prerogative di uno Stato: non rivuole indietro tutti i soldi ma il potere di decidere le sorti di un paese. In pratica un super governo che prescinde dal consenso democratico.

In totale 10 comode rate di finanziamento da erogare man mano che vengono realizzate le condizionalità (o riforme appunto), che sono più di 600 (gli articoli stampa ne riportano poco più di 500, io ne ho contate di più, ma potrei sbagliarmi) da realizzare in 6 anni, dal 2021 al 2026.

Per poter ricevere una parte dei versamenti del 2022, secondo Giorgio Musso dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani – così come riportato dalla stampa –  entro l’anno l’Italia deve soddisfare 42 condizionalità. Si provi a immaginare a quali ritmi da catenadi montaggio deve operare il Parlamento, i cui componenti sono destinati a subire una sorta di proletarizzazione delle proprie funzioni.

Sorge spontanea una domanda: se le cose stanno così, perché andare a votare?

Dando invece uno sguardo al contenuto delle imposizioni, ancora una volta è possibile notare la gerarchia di ordine superiore che viene conferita all’interesse del capitale senza alcuna attenzione alla tutela del lavoro e degli stipendi, se non qualche timidissimo richiamo, come il tema della sicurezza “subordinata” nei porti (Eliminare gli ostacoli che impediscono ai concessionari di fornire direttamente alcuni dei servizi portuali utilizzando le proprie attrezzature, fatta salva la sicurezza dei lavoratori, purché le condizioni necessarie per proteggere la sicurezza dei lavoratori siano necessarie e proporzionate all’obiettivo di garantire la sicurezza nelle aree portuali) o un generico richiamo ai livelli occupazionali (ridurre, entro un periodo di tempo ragionevole, massimo cinque anni, la percentuale dei contratti in house dal 40 % al 20 %, fatti salvi i livelli occupazionali).

da qui

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Patto di stabilità. Il trucco dei falchi per far cadere l’Italia in trappola

Lorenzo Torrisi intervista Sergio Cesaratto

Si continua a discutere, ma non in Italia, del futuro della governance europea. Il nostro Paese rischia di rimanere intrappolato in regole all’apparenza convenienti

Nella settimana che si è appena conclusa è tornato a galla il tema del futuro delle regole del Patto di stabilità e crescita al momento ancora sospese. Il quotidiano tedesco Handelsblatt ha pubblicato in esclusiva i contenuti di un documento messo a punto dagli economisti del Mes, nel quale si suggerisce una modifica del parametro debito/Pil per portarlo dal 60% al 100%, lasciando invariato quello relativo al deficit/Pil al 3%.

Per l’Italia si tratterebbe di una modifica positiva? Secondo Sergio CesarattoProfessore  di Politica monetaria e fiscale europea all’Università di Siena, che ha appena pubblicato “Sei lezioni sulla moneta – La politica monetaria com’è e come viene raccontata (Diarkos), «una proposta del genere potrebbe essere ingannevole in quanto apparentemente più realistica. La riduzione in 20 anni del rapporto debito/Pil sino al 60% prevista dal Fiscal compact del lontano 2012 è rimasta misura inapplicata in quanto irreale.

Essa avrebbe comportato surplus di bilancio primari (surplus una volta pagati gli interessi sul debito) tali da far crollare la domanda interna e l’economia rendendo, peraltro, ancora più lontano quell’obiettivo. La natura surreale del provvedimento l’ha reso lettera morta. Rendendolo apparentemente più realistico lo si vorrebbe rendere operativo.

Ma gli effetti drammatici sull’economia sarebbero i medesimi sia che si voglia arrivare al 60% che al 100%. Le regole non vanno ideate a tavolino».

Il nostro debito pubblico andrà pur ridotto…

Ci si deve domandare se e quanto è possibile all’Italia ridurre il debito pur mantenendo una stance fiscale espansiva, chiedendosi non solo cosa deve fare il nostro Paese, ma quali politiche devono adottare gli altri Paesi e la Bce per agevolare una comunque lentissima riduzione.

Qui i guai si fanno seri, perché con il rialzo dell’inflazione sopra al 2% la Bce ha meno carte da giocare contro i ricorsi all’Alta corte tedesca dei professori tedeschi che vorrebbero la cessazione dei suoi acquisti di titoli pubblici.

Proprio giovedì c’è stato il board della Bce e il nostro spread non ha reagito bene alle parole di Christine Lagarde che volevano essere rassicuranti proprio sul livello dell’inflazione. Come mai?

La Bce ha presentato proiezioni secondo cui l’inflazione scenderà nel medio periodo sotto al 2%, e affermato che essa tollererà momentanei rialzi sopra il 2%. Essa ritiene che per ora non ci saranno riflessi dell’aumento dei prezzi (di origine esogena, energia, ecc.) nella contrattazione salariale, e dunque non vuole introdurre misure che mortifichino la domanda aggregata e la ripresa – ripetendo gli sciagurati errori del 2008 e del 2011 quando accrebbe i tassi, rispettivamente, un attimo prima del crollo di Lehman Brothers e della crisi degli spread.

La sensibilità del debito italiano a un rialzo dei tassi o a una diminuzione degli acquisti è poi una spada di Damocle per Francoforte. L’immediata reazione dei mercati, poi rientrata, non è stata convinta dalle rassicurazioni della Lagarde, e gli spread Btp/Bund sono saliti. L’aspettativa è di una Bce meno aggressiva nel futuro.

Dunque cosa bisognerebbe fare?

In questo contesto non basta riproporre formulette più o meno addolcite, va riformata la governance europea. Attenzione poi, il Mes propone anche di sostituire le regole sul debito con quelle sulla spesa pubblica. In altre parole la spesa pubblica dovrebbe variare a un tasso che rifletta la crescita pregressa dell’economia in oggetto.

Bene, così se un’economia ha avuto tassi di crescita negativi o modesti dovrà diminuire la spesa, o tenerla costante, col bel risultato che quell’economia andrà peggio! Il modello che costoro hanno in testa è quello mainstream in cui la spesa pubblica non è un fattore di crescita, anzi un ostacolo.

Ma secondo me sono anche bugiardi perché sanno che non è così, ma lo dicono condizionati dalle disgraziate rigidità mentali e dall’insopportabile moralismo di una parte dell’élite tedesca.

Stando anche alle dichiarazioni del commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, presto dovrebbe iniziare il dibattito proprio sul futuro della governance europea. Intanto, circa due settimane fa, il Direttore generale del Mes, Klaus Regling, in un’intervista a Der Spiegel ha criticato la “regola del debito”. Cosa ne pensa?

La Commissione europea ha in effetti rilanciato la revisione della governance economica europea, un processo già avviato nel febbraio 2020 e poi sospeso per la pandemia.

Mi sono riletto il documento di avvio della review. È pieno di buone analisi sul passato, in particolare si riconosce quanto le politiche di austerità della prima metà dello scorso decennio siano state controproducenti e che la Bce sia stata lasciata sola a combattere la deflazione; si giudicano negativamente i surplus commerciali di alcuni Paesi; si sostiene che vada costruita una fiscal capacity europea e che politica monetaria e fiscale debbano coordinarsi (come sostenuto anche nella strategy review della Bce dello scorso luglio).

Si ammette inoltre che regole attuali sono una astrusa Sagrada familia di norme, poco trasparenti e incomprensibili al cittadino informato. Bene dunque che Regling si accodi.

Ma è sulle proposte che poi l’Europa diventa debole. Le proposte del Mes, abbiamo detto, sono una riproposizione di quanto già visto, anzi forse peggio.

È probabile che per le vere decisioni sul Patto di stabilità e crescita bisognerà attendere non solo il nuovo Governo tedesco, ma anche le elezioni presidenziali francesi della prossima primavera. All’Italia converrà avere ancora Draghi al Governo per spuntare le modifiche più opportune al tavolo dei negoziati?

Converrà avere Draghi nella presunzione che egli abbia idee più chiare e avanzate dei politicanti che lo sostengono. Purtroppo nel Paese non si è aperto nessun dibattito sulla riforma della governance europea, né a sinistra né a destra.

Ricordiamo che Enrico Letta ha nel passato eletto il debito pubblico italiano come nemico numero uno, capendo poco e niente dei danni dell’austerity e anzi condividendo le politiche europee.

Certamente ora qualcosa avrà capito anche lui, ma un dibattito non lo sta aprendo, e per farlo dovrebbe scegliere altri economisti di riferimento. Ce ne sono di valorosi e prestigiosi, perché non lo fa? Giuseppe Conte si limita a riproporre il cashback, no comment. Letta e Conte hanno i nostri telefoni.

Della destra che vogliamo dire? Se fosse stato per Salvini & Meloni saremmo come il Brasile di Bolsonaro. Hanno sempre remato contro nella lotta alla pandemia. Che c’è da aggiungere?

Si sono date diverse interpretazioni in merito: lei cosa pensa delle dimissioni di Weidmann dalla Bundesbank? Il suo passo indietro significa un indebolimento dei “falchi” e una rafforzamento delle “colombe”, quanto meno nella Bce?

È una tradizione della Bundesbank! Nel 2011 avemmo già le dimissioni prima di Axel Weber da presidente della Buba, e poi di Juergen Stark da membro del consiglio esecutivo della Bce in polemica con le scelte di politica monetaria. Vedremo con chi Weidmann verrà sostituito, probabilmente un falco.

Isabel Schnabel che è anche membro dell’executive board sarebbe un’ottima scelta (per noi), ma troppo squilibrata verso l’attuale conduzione della Bce per i conservatori tedeschi. In realtà, la Schnabel sarebbe una scelta equilibrata anche dal loro punto di vista (né falco né colomba), consentendo una direzione consensuale della Banca, tenuto anche conto che essa continua a essere sotto tiro.

Insomma, quali mosse il Governo italiano dovrebbe intraprendere nei prossimi mesi, anche in vista della revisione del Patto di stabilità?

Naturalmente farsi forza degli spunti di “autocritica” da parte delle autorità europee sugli errori di dieci anni fa. E con forza sottolineare che non si può dire “scurdammoce ‘o passato”, troppo facile. La Germania ha avuto enormi risparmi di spesa per interessi simmetrici al peggioramento delle nostre finanze pubbliche.

Perché professore?

Perché quando gli investitori venivano lasciati fuggire dai nostri titoli senza che la Bce muovesse un dito per sostenerci, essi si rivolgevano ai titoli tedeschi. Poi quando la Bce è intervenuta, essa ha dovuto acquistare anche titoli tedeschi, con ulteriori benefici in termini di interessi negativi per Berlino. Beh, questo va fatto pesare almeno come responsabilità politica dell’aggravamento del debito italiano.

L’avevamo ridotto con grandi sacrifici dal 120% al 99% nel 2007 o giù di lì, poi l’austerità e l’inazione della Bce (sino a Draghi) lo riportarono al 130%.

Ma, soprattutto, non si deve cadere nella trappola delle regole: rendendo queste ultime più “realistiche” i falchi alla Regling (ora travestiti da colombe) intendono renderle più “applicabili”. Meglio allora regole assurde e inapplicabili.

Va ribaltato il discorso: cosa si deve fare per rendere il nostro debito sostenibile e al contempo assicurarci una crescita decente (ciò che renderebbe anche l’unione monetaria più solida)?

Le regole sulla spesa che potrebbero prevalere in luogo delle regole sul debito possono essere persino peggiori, risultare cioè pro-cicliche invece che anti-cicliche. La politica economica è più un’arte che una scienza.

Meglio allora rinunciare alle regole?

Basta regole. O meglio, manteniamo pure un regola sui bilanci nazionali, ma si avvii la costituzione di un bilancio federale che federalizzi il finanziamento degli investimenti pubblici sia in funzione di aggiustamento strutturale degli squilibri interni all’euro area che, via disavanzi federali, in funzione anticiclica.

Si metta inoltre per iscritto che politica fiscale federale e monetaria debbano coordinarsi ai fini della crescita e del riequilibrio strutturale e ambientale dell’euro area, pur non lasciando cadere l’obiettivo della stabilità monetaria nel medio periodo. Ça va sans dire che l’Italia dovrebbe presentarsi con adeguata fermezza la tavolo europeo.

Presumo che Draghi sappia come stanno le cose, e la sua flemma sia la più adatta per mettere politicamente all’angolo i falchi. Poi i rapporti di forza sono quelli che sono, ma la nostra debolezza può essere la nostra forza.

Sia ben chiaro, in tutto questo non assolvo Draghi dalle passate responsabilità, dal “collaborazionismo” nelle privatizzazioni alla famigerata lettera “lacrime e sangue” al Governo italiano scritta con Trichet del 2011.

Ma Draghi è anche quello del discorso keynesiano a Jackson Hole nel 2014. Da buon cattolico ed essendo persona intelligente egli sa forse imparare, e certamente adattarsi alle circostanze storiche.

Opportunismo professore?

Mah, uno dei simboli dei primi cattolici era il pesce, credo.

da qui

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* da La Bottega del Barbieri

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