Vista da fuori, appare come una gabbia di matti. E lo è, come comportamenti.
L’Unione Europea, di fatto, risulta incapace di darsi un “governo” – la Commissione – a cinque mesi dalle elezioni. E non è detto, a questo punto, che il “von der Leyen 2” prenda davvero il via.
Ieri tutte le contraddizioni interne, tra paesi e maggioranze politiche diverse, sono esplose facendo saltare mediazioni che sembravano blindate.
La miccia è arrivata dalle vicepresidenze, ben sei, da concedere in modo da accontentare tutti (paesi e famiglie politiche). Anche questo allargamento numerico – in precedenza erano sempre state soltanto cinque – era sembrato un capolavoro democristiano tessuto dalla “cavallerizza” tedesca, piombata in politica dopo i 40 anni e subito investita di incarichi pesanti (ministro della difesa in Germania).
Per rabberciare una maggioranza, infatti, aveva proposto una sesta vicepresidenza da affidare all’italiano Raffaele Fitto, a sua volta ex democristiano ma oggi membro influente del partito (post?)-fascista guidato a Giorgia Meloni, seppure con un mandato molto meno importante (“la coesione”) rispetto a quello lasciato da Paolo Gentiloni (gli affari economici).
La cosa aveva fatto storcere il naso ai socialisti europei, ma non ai loro rappresentanti in Italia (il Pd, non a caso). Una maggioranza con “dentro tutti” – socialisti, verdi, liberali, democristiani, conservatori e fascisti – poteva essere certamente forte sul piano numerico, ma debolissima su quello politico-operativo. Facile prevedere che ogni decisione sarebbe stata complicata da molti distinguo e altrettante indispensabili mediazioni, al dunque piuttosto paralizzanti. E infatti si è impantanata già sulle nomine…
Anche il rappresentante dell’ungherese Orbàn, Oliver Varhelyi, per quanto sullo strapuntino della “salute e del benessere animale”, disturbava parecchio i gruppi “progressisti”. Due commissari neofascisti (anche se Fitto, ricordiamo, ha origini più moderate) erano in effetti un po’ troppo per presentare la nuova Commissione come “campione della democrazia, dei diritti umani, ecc”.
Soprattutto se – e questa è forse la ragione principale – il gruppo Ecr cui appartengono non ha votato per Ursula von der Leyen a luglio, quando si era formata la nuova-vecchia maggioranza.
Il casino l’ha fatto però, alla fine, il democristiano tedesco Friedrich Merz che, recependo i maldipancia dei “popolari” spagnoli (in realtà dei post-franchisti in doppiopetto), minacciava per ritorsione di votare contro la nomina di Teresa Ribera, fin qui vicepresidente nel governo “socialista” di Sanchez. Motivazione ufficiale: la Ribera, il 20 novembre, dovrà dimostrare nel Parlamento spagnolo di non aver avuto nessuna responsabilità per la tragedia di Valencia (colpa che tutti attribuiscono al sindaco “popolare” della città, che si era rifiutato di lanciare l’allarme meteo fin quando la gente non ha cominciato a morire).
A quel punto è saltato completamente il tavolo. I delegati “progressisti” dichiaravano morta la candidatura di Fitto a vicepresidente, “non lo voteremo in nessun caso, la fiducia è rotta. Il pacchetto per noi è di cinque vicepresidenti, il Ppe lo voti con l’estrema destra“.
Von der Leyen si è quindi esibita nella parte che sa fare meglio: silenzio e scomparsa dalla scena, forse in cerca di ordini o consigli superiori. Ed è stato persino divertente vedere qualche parlamentare del Pd sbottare in pubblico con un “Parli, dica qualcosa, c…”.
Un branco di matti parecchio incompetenti, certo, ma anche una struttura istituzionale – i trattati europei – che manifestamente sono stati pensati per “gestire” autoritariamente decisioni politiche ed economiche prese in altra sede. Ma che risultano inservibili per affrontare divergenze politiche serie o semplicemente problemi imprevisti.
Un baraccone di 27 paesi governati da coalizioni molto differenti o addirittura contrapposte, interessi economici e “nazionali” ormai palesemente divergenti (persino la Germania e la Francia sono andate in crisi e non riescono ad uscirne per colpa di quell’”austerità” che avevano voluto imporre a tutti), trattati e regole che concedono il potere di veto a chiunque nel mentre si impongono politiche che danneggiano alcuni e favoriscono altri (non solo “paesi”, ma anche comparti economici e produttivi)…
Il tutto in una situazione che vede due guerre alle porte di casa, una delle quali richiede grandi esborsi in soldi, armi e rischi di guerra mondiale; un “alleato” che ora minaccia di scaricare la patata ucraina su Bruxelles mentre impone dazi sulle esportazioni europee.
In una situazione del genere, sembra banale, servono decisioni rapide, lungimiranti, strategicamente sensate e con possibilità di articolazione operativa su grande scala (qualsiasi sia la scelta strategica: reazionaria, riformista, rivoluzionaria, conservatrice, ecc).
Servirebbe perciò statisti di caratura molto superiore a quelli che, maldestramente, disegnarono l’Unione Europea alle sue origini o la folle “gabbia di Maastrcht”.
E invece abbiamo questa banda di nanerottoli miopi o ciechi. Selezionati per vincere la televendita elettorale, a forza di promesse e menzogne. Attori di serie zeta, buoni per uno spot pubblicitario e troppo scarsi perfino per i cinepanettoni.
Anche per questo, probabilmente, l’”ombra di Banquo” è riapparsa nei corridoi di Bruxelles. Ed anche questa volta si chiama Mario Draghi…
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