C’è qualcosa che non torna nella morte di Osama bin Laden: sono già passate più di ventiquattr’ore e Silvio Berlusconi non ha ancora detto che è merito suo. A parte questo, il blitz di Abbottabad (da ieri ribattezzata Abbottadiculobad), pare confermato: due mesi di appostamenti e una raffica di mitra, in poche parole la campagna elettorale vincente meno costosa della storia degli Stati uniti dai tempi di Abramo Lincoln. Il messaggio di Obama è stato perfetto: abbiamo vinto una partita importante, ma il campionato è ancora lungo, il merito è del gruppo, non perdiamo la concentrazione, l’importante è l’umiltà, non molliamo. Nemmeno Mazzone o Trapattoni avrebbero fatto meglio.
Intanto, rimbalzano nel mondo i dettagli dell’operazione e i numerosi interrogativi. Comprensibile la decisione di non aver lasciato in giro la cara salma, un modo per non dover bombardare un domani il mausoleo di bin Laden, con tutte le reliquie possibili e immaginabili: il pelo della barba di bin Laden, un pezzo di mantello, il cestino per i funghi di quando abitava in montagna eccetera eccetera. Lo stesso motivo per cui né i sauditi né i pachistani l’hanno voluta, l’idea stessa di organizzare un funerale deve avergli fatto drizzare i capelli in testa. D’altro canto, la decisione di buttarlo in mare potrebbe portare un giorno alla costruzione delle più bislacche leggende metropolitane, un po’ come Jim Morrison: Osama è vivo e fa il barista a Parigi e cose del genere. Quanto alle foto e ai filmati, li vedremo probabilmente in mondovisione, e il fatto che già esistano copie tarocche diffuse dalle tivù pachistane conferma che il mercato sarà florido. Restando ai fatti, comunque, una cosa è certa: il più cattivo del mondo viveva in una specie di villetta in periferia senza internet e senza telefono, comunicando tramite pizzini, più o meno come Totò Riina, e i tipi così di solito finisce che li beccano. Ora che il cattivo è morto, al Pentagono c’è grande fibrillazione: serve subito un altro cattivo da competizione, che giustifichi bilanci miliardari, spese assurde e, se capita, qualche utile invasione in paesi lontani. Nemmeno Gheddafi pare all’altezza del compito. In ogni caso, negli Stati uniti è festa grande, e si capisce. Giusto, una battaglia è vinta, ma la guerra non finisce qui: ora bisogna catturare George W. Bush, che probabilmente si nasconde nel suo compound in Texas.
Ci sono voluti dieci anni per prendere Osama in Pakistan, e probabilmente ce ne vorranno altri dieci per spiegarci cosa diavolo ci facciamo in Afghanistan armati fino ai denti: forse interrogando George Bush a Guantanamo potremo capirlo prima.
Intanto, rimbalzano nel mondo i dettagli dell’operazione e i numerosi interrogativi. Comprensibile la decisione di non aver lasciato in giro la cara salma, un modo per non dover bombardare un domani il mausoleo di bin Laden, con tutte le reliquie possibili e immaginabili: il pelo della barba di bin Laden, un pezzo di mantello, il cestino per i funghi di quando abitava in montagna eccetera eccetera. Lo stesso motivo per cui né i sauditi né i pachistani l’hanno voluta, l’idea stessa di organizzare un funerale deve avergli fatto drizzare i capelli in testa. D’altro canto, la decisione di buttarlo in mare potrebbe portare un giorno alla costruzione delle più bislacche leggende metropolitane, un po’ come Jim Morrison: Osama è vivo e fa il barista a Parigi e cose del genere. Quanto alle foto e ai filmati, li vedremo probabilmente in mondovisione, e il fatto che già esistano copie tarocche diffuse dalle tivù pachistane conferma che il mercato sarà florido. Restando ai fatti, comunque, una cosa è certa: il più cattivo del mondo viveva in una specie di villetta in periferia senza internet e senza telefono, comunicando tramite pizzini, più o meno come Totò Riina, e i tipi così di solito finisce che li beccano. Ora che il cattivo è morto, al Pentagono c’è grande fibrillazione: serve subito un altro cattivo da competizione, che giustifichi bilanci miliardari, spese assurde e, se capita, qualche utile invasione in paesi lontani. Nemmeno Gheddafi pare all’altezza del compito. In ogni caso, negli Stati uniti è festa grande, e si capisce. Giusto, una battaglia è vinta, ma la guerra non finisce qui: ora bisogna catturare George W. Bush, che probabilmente si nasconde nel suo compound in Texas.
Ci sono voluti dieci anni per prendere Osama in Pakistan, e probabilmente ce ne vorranno altri dieci per spiegarci cosa diavolo ci facciamo in Afghanistan armati fino ai denti: forse interrogando George Bush a Guantanamo potremo capirlo prima.
da “il manifesto” del 3 maggio 2011
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