In un contesto politico in cui ai valori si sostituiscono gli interessi di mercato, arrivano a flusso imponente e continuo decreti legge d’urgenza da parte di un governo dilaniato da una guerra per bande interne, e in assenza di una vera opposizione, che impongono pesanti restrizioni ai più elementari diritti di cittadinanza. Si va dalla limitazione del diritto di sciopero e di manifestazione, a una scorretta e non veritiera informazione, allo smantellamento del Welfare e delle politiche sociali, alla saturazione del Codice Penale con una produzione inaudita, tutta ideologica, di nuove fattispecie di reato e aggravamento delle pene. Per non parlare dell’irresponsabilità della
gran parte dei media e di certi schieramenti politici nel creare emergenze continue prendendo di mira, di volta in volta, particolari gruppi sociali e usare le vittime dei reati per incitare l’opinione pubblica all’odio razziale e xenofobo. I media per aumentare l’audience quindi i guadagni, i politici per incassare vantaggi sul piano del mercato elettorale. In ambedue i casi a nessuno importa dei danni procurati alla coesione sociale, di scatenare guerre tra poveri se possono perseguire i loro privati interessi materiali. L’estorsione del consenso a mezzo di terrore è un meccanismo perverso che produce un’infinità di danni collaterali tra i quali, ogni giorno più evidente, la carcerazione non necessaria.
L’idea di una gestione autoritaria della crisi economica, infatti, esige uno stato di eccezione legislativa permanente. Si tenta così di conservare ricchezze, potere e poltrone da parte di una casta impolitica corporativa e oligarchica scaricando la crisi sul lavoro dipendente e su milioni di famiglie appartenenti agli strati meno abbienti della popolazione.
Ma come l’esperienza c’insegna, se si risponde con lo Stato Penale alle turbolenze sociali, non si può ottenere che la radicalizzazione, spesso incontrollata, delle stesse. Se si assume come strutturale la precarizzazione del rapporto di lavoro, si aumentano i profitti d’impresa ma s’implementa di conseguenza l’allargamento dell’esclusione sociale, universalmente riconosciuta come principale fonte di devianza. Se si assume come normale che, la pena insiste non più solo sul reato ma sull’individuo per le sue caratteristiche, si riempiono le carceri e i Cie di immigrati. Se al disagio giovanile si risponde con politiche proibizioniste, si riempiono le carceri di tossicodipendenti e di consumatori occasionali. Se, più in generale, si persegue l´ideologia indotta da un paradigma produttivo e dal modello sociale che esso ha creato, che porta le persone a rincorrere il feticcio del denaro e l´arricchimento ad ogni costo, non si fa altro che
istigare al reato.
Ecco perciò come la pena detentiva assume un’importanza strategica, ancora di più oggi, travolti da una recessione globale di cui ancora non si conoscono la reale portata e i confini. Il carcere, dunque, come contenitore del conflitto, come discarica sociale, come non-luogo ormai deputato solo all’incapacitazione di donne e uomini relegati a classi sociali subalterne ritenute pericolose. Definiamo quindi di tutta attualità ed emergente il concetto di Carcere Sociale quale dispositivo normalizzatore bio-politico statuale per il controllo e il disciplinamento dei corpi.
Ciò nondimeno assistiamo sgomenti, dopo aver sorpassato la soglia di 67.000 detenuti, al ripetersi sempre uguale del teatrino dei politici di turno intento a proporci soluzioni populiste, a effetto mediatico di solo annuncio come il piano Alfano per la costruzione di nuove galere o altri dispositivi non meno fantasiosi se non illegittimi come il ricorso al denaro della Cassa Ammende. In altre parole si continua a ballare spensierati sul ponte del Titanic nonostante l’iceberg sia già bene in vista.
Ma noi della Papillon quell’iceberg lo conosciamo bene, la sua parte immersa ci è nota: carceri sovraffollate all’inverosimile, detenuti ammassati e abbandonati in celle di pochi metri quadri spesso infestate da topi e scarafaggi lì chiusi ventidue ore al giorno. E per dormire si fanno i turni. Altrove, dove mancano le brande, per aggiungere detenuti, è frequente buttare materassi per terra. Il mix tra sovraffollamento e mancanza cronica di educatori e psicologi provoca l’impossibilità di attivare percorsi di responsabilizzazione e reinserimento. Il drastico taglio dei finanziamenti rende impossibile fornire pasti anche solo minimamente decenti, rende impossibile eseguire manutenzione e disinfestazione degli istituti, procura turni massacranti al personale di custodia il cui nervosismo si scarica poi sui detenuti, rende impossibile una sanità adeguata alla situazione. In questa emergenza di degrado e regressione, non a caso, sono in aumento i
detenuti che presentano malattie psichiche, che s’infliggono pratiche autolesionistiche, che si suicidano. E come se tutto ciò non bastasse la Magistratura di Sorveglianza, evidentemente inchinandosi all’attuale clima politico, ha radicalmente ristretto la concessione delle misure alternative contenute nella legge Gozzini. Una buona legge che ha dato ottimi frutti favorendo il graduale reinserimento sociale e lavorativo abbattendo così la recidiva a percentuali risibili. La propaganda politica chiama questo “certezza della pena”. Per noi è l’articolo 27 della Costituzione preso a calci.
Nel maggio 2006 è stato promulgato un indulto che ha contribuito a deflazionare le presenze in carcere, a donare sollievo a chi ci è rimasto, a riportare un minimo di legalità nel circuito, ma soprattutto a cogliere l’occasione per intervenire velocemente nel rendere stabile quella nuova situazione. Poco prima che si emanasse quel provvedimento, mentre ancora i detenuti erano impegnati nelle loro proteste pacifiche per ottenerlo, noi della Papillon avevamo detto, e con noi tanti della società civile che ci hanno appoggiato in quei momenti difficili, che l’indulto, per essere veramente efficace e risolutivo nel lungo periodo, sarebbe dovuto essere l’apripista alle improrogabili riforme del Codice Penale, del Codice di Procedura Penale e dell’Ordinamento Penitenziario. Si trattava, dicevamo allora, di ridurre drasticamente le fattispecie di reato, di depenalizzare i reati minori, di abolire l’ergastolo, la legge Bossi-Fini
sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la ex Cirielli sulla recidiva, di potenziare la legge Gozzini e renderne omogenea l’applicazione su tutto il territorio nazionale, di limitare fortemente la custodia cautelare in carcere, che il problema non è costruire nuove carceri ma al contrario far scendere drasticamente il numero di detenuti tramite i provvedimenti di cui prima, e tantissimo altro che per questioni di spazio non riuscirei qui a elencare. Avevamo avvertito che in difetto tutto sarebbe tornato come prima nel volgere di due anni. Lo diciamo con la morte nel cuore: siamo stati facili cassandre.
Oggi, di fronte alla gravità dello stato della Giustizia e del circuito carcerario, di fronte al più che probabile prodursi di eventi violenti incontrollabili, vogliamo ribadire, se possibile, con ancora più determinazione le proposte già avanzate nel 2006 più un’altra ancora: la rapida introduzione del reato di tortura (come del resto l’UE ci chiede da tempo), perché già solo questo obbligherebbe le autorità preposte a cambiare radicalmente le odierne modalità di applicazione dell’esecuzione penale in carcere. Insistiamo, dunque, pur consapevoli che le forze politiche sorde e cieche alle evidenze sono straordinariamente preponderanti a fronte di un’opinione pubblica annichilita dalla paura artificialmente indotta da un’informazione mediatica etero diretta che ha sostituito la verità dei fatti con la propaganda di regime. In conclusione, preso atto dell’assenza di una reazione democratica della società civile, essa nostra unica
speranza, non ci resta, pur nel rifiuto di ogni rassegnazione, che prepararci al peggio. Al momento solo un’ampia amnistia generale e indulto immediati possono, forse, salvarci.
24/06/2011i
* Papillon Bologna
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