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La Tunisia: una storia del nostro futuro?

 

Per circa dodicimila persone si apre lo spettro della clandestinità o del rimpatrio forzato. In questi mesi la loro presenza nei nostri territori è stata caratterizzata da una sostanziale condizione di invisibilità. Parcheggiati, per lo più, in strutture di fortuna in attesa che il clamore degli eventi si placasse tanto da poter dichiarare cessata l’esistenza di una “emergenza umanitaria”.

Come tale emergenza sia considerata ampiamente “superata” lo testimoniano le “ultime notizie” provenienti da Lampedusa e l’allestimento delle novelle St. Louis nelle quali sono ammassati i “profughi”. Rimossi anche da quel piccolo lembo di terra che è Lampedusa, al pari delle navi dei folli, sono destinati o a una deriva permanente o ad approdare nella clandestinità. Per i nostri mondi, o per lo meno per gli ordini discorsivi dominanti, sono l’altro, l’ignoto e/o l’esotico. Continuamente a mezzo tra ciò che fa paura e incuriosisce. In ogni caso qualcosa che non è noi. Eppure, a uno sguardo solo un poco più attento, le distanze materiali tra noi e loro si mostrano assai più tenue di quanto possano apparire. La crisi dentro la quale siamo tutti quanti immersi unifica, in tendenza, le condizioni di vita ed esistenza delle classi sociali subalterne. Paradossalmente, ma neppure troppo, la Tunisia non racconta il mondo di ieri ma anticipa anche il nostro futuro.

Per questo è utile ricordare, pur sinteticamente, le tappe che hanno portato tra noi i “profughi”.

Sidi Bouzid, centro agricolo situato a circa 260 chilometri da Tunisi, 17 dicembre 2010 un giovane laureato, Mohaed Bouazizi, si dà fuoco per protesta. La polizia municipale gli aveva vietato, confiscandogli in contemporanea tutta la merce, di svolgere la sua piccola attività di venditore ambulante di frutta e verdura, unico suo mezzo di sostentamento.

Il 4 gennaio 2011 il ragazzo muore. Subito dopo in tutto il Paese si scatena un’ondata di proteste che, in rapida successione, contaminano l‘intera area del Nord Africa e del Medio Oriente. Una scintilla ha incendiato la prateria. La “primavera araba” ha inizio. Uno dopo l’altro gran parte dei regimi mediorientali e nordafricani vacillano e, in alcuni casi, le vecchie caste dirigenti sono obbligate a farsi da parte. Una nuova fase, tuttora in gestazione, è in corso. Ma, questo è il punto, da che cosa hanno preso le mosse queste rivolte? Perché la sponda sud del Mediterraneo ha preso fuoco? Per quali motivi, Governi che godevano della piena stima e fiducia di tutte le Cancellerie internazionali, sono stati costretti ad abdicare, a fuggire o, nella migliore delle ipotesi, a rinegoziare il loro peso politico dentro i rispettivi Paesi? Per iniziare a rispondere è bene chiamare le cose con il loro nome. Nei nostri mondi, forse per pudore o perché più tranquillizzante, si è molto insistito su “primavera araba” finendo con l’ignorare che, in Nord Africa e Medio Oriente, le insurrezioni popolari hanno avuto una denominazione forse più prosaica e meno poetica ma sicuramente più realista: la rivolta del pane. In poche parole sono state le condizioni materiali di milioni di subalterni a smuovere l’apparente stabile e sicuro mondo della politica. A esplodere, oggi, sono l’insieme di contraddizioni che, un non risolto processo di decolonizzazione, hanno sedimentato nel tempo. Per quanto in apparenza “inessenziali” ripercorrere le tappe di questa storia è di non poca utilità.

La Tunisia, uno dei primi Paesi del Nord Africa a conquistare l’indipendenza nazionale, ha vissuto tutte le contraddizioni tipiche dei Governi usciti dalla lotta anticoloniale. L’unione, in funzione anticolonialista e antimperialista, che aveva portato al potere un governo di “fronte nazionale” è stato a lungo oggetto di lotte e tensioni tra le varie anime politiche e sociali che avevano costituito il fronte comune antifrancese. Dal 1881 sino al 1956, infatti, la Tunisia vive la condizione di “colonia francese”. Ottenuta l’indipendenza si dota di una forma costituzionale repubblicana il cui tratto completamente laico è rimarcato nel 1959 con il varo della prima Costituzione repubblicana dello stato tunisino. Nei primi anni dell’indipendenza, la Tunisia, pur su posizioni moderate è attiva in quel fronte internazionale anticoloniale e antimperialista tenuto a battesimo a Bandung. L’aiuto fornito alla rivoluzione algerina non è di secondaria importanza. Tra il 1956 e il 1962 la Tunisia diventa un territorio franco per i partigiani e i dirigenti politici algerini del Fronte di Liberazione Nazionale. Sempre dalla Tunisia transitano, verso l’Algeria, gran parte dei rifornimenti indispensabili alla conduzione della guerra di liberazione nazionale algerina.

Se, sul piano della politica internazionale, il “fronte patriottico” sembra avere una posizione sostanzialmente omogenea, sul piano interno iniziano a delinearsi le obiettive e inevitabili contraddizioni presenti tra le diverse classi sociali al potere. In particolare il grosso nodo che il Governo deve sciogliere è la riforma agraria. Un nodo che, in realtà, non riuscirà mai ad affrontare sul serio. Ciò darà vita a uno sviluppo profondamente ineguale del Paese dove, a fronte di una modernizzazione a tappe forzate dei grossi centri urbani, si assisterà a un totale abbandono del retroterra agricolo. Proprio in queste aree, sin dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, ritornerà a fare capolino l’Islam in quanto gemito degli oppressi.

Tra il 1963 e il 1970 il Governo inaugura la “fase socialista” che, a onor del vero, è ben lontana dall’affrontare i nodi essenziali della situazione economica e sociale del Paese. Non solo è elusa la “questione agraria” ma lo stesso sviluppo dell’industrializzazione lascia alquanto a desiderare tanto che, ancora oggi, non è presente in Tunisia qualcosa di vagamente simile a una industria pesante degna di questo nome. Un’assenza che, per forza di cose, obbliga il Paese a una dipendenza permanente nei confronti del mercato internazionale. Ma non solo. L’assenza di sviluppo di una industria pesante fotografa esattamente al meglio il continuo compromesso di classe, e il conseguente impasse, dentro il Governo di “unità nazionale”. Lo sviluppo dell’industria pesante non avrebbe semplicemente resa indipendente la Tunisia ma avrebbe avuto tre effetti politici fondamentali: il formarsi di una vasta area di classe operaia strategicamente importante; la possibilità di sfruttare al meglio, attraverso lo sviluppo dell’industria estrattiva, le risorse minerarie ed energetiche del Paese, con il conseguente ampliamento, quantitativo e qualitativo, di una massa operaia sempre più decisiva per il governo del Paese; portare avanti, in maniera assennata, l’industrializzazione dell’agricoltura con l’inevitabile scompaginamento dei rapporti sociali, ampiamente stratificati, presenti nel mondo agricolo. Indipendentemente da tutto, a caratterizzare questi anni, è un sostanziale immobilismo al fine di non provocare rotture dentro il blocco che aveva guidato il Paese all’indipendenza.

Ciò che, pertanto, si amplifica a dismisura è un apparato statuale, parassitario e improduttivo, nel quale trovano sistemazione parti delle classi medie mentre, la gestione del potere effettivo, si restringe sempre più a una vera e propria oligarchia. Parte non secondaria di tale potere è rappresentato dalle forze di polizia e dagli appartenenti ai servizi di sicurezza mentre l’esercito rimane, sostanzialmente, in secondo piano. La “fase socialista” si riduce a questo o poco più. A tenere insieme il tutto è un certo grado di “stato sociale” che, anche in virtù della corruzione sempre più dilagante, amplifica in maniera esponenziale il debito pubblico e il conseguente indebitamento internazionale del Paese. In virtù di ciò lo smantellamento di ogni forma di garanzia sociale inizia a diventare la “linea di condotta” del Governo.

Nel 1970 viene ufficialmente chiusa la “fase socialista”. In questo modo la Tunisia si apre anche formalmente al mondo del mercato e alle leggi del FMI. Le conseguenze sono immediate. L’immiserimento della popolazione e l’aumento delle diseguaglianze sociali, tipiche delle società liberali, non conoscono confine. Tra le masse subalterne cresce la volontà di rompere la gabbia d’acciaio in cui, il Governo e gli investitori stranieri, li hanno rinchiusi. È in questo clima che si giunge al conflitto aperto con le forze governative.

Il 26 gennaio del 1978, in seguito a uno sciopero generale proclamato dal sindacato UGTT, l’unica forma organizzativa che riesce a mantenersi in piedi senza essere, specialmente alla base, completamente colonizzata dagli apparati statuali, la polizia interviene uccidendo centinaia di manifestanti. Al contempo, i servizi di sicurezza, con base nelle ambasciate e consolati iniziano la “guerra sporca” contro i tunisini immigrati. Ciò è particolarmente feroce in Francia, dove esiste una forte e unita organizzazione di lavoratori tunisini e attivisti sindacali e politici antiregime. Gli uomini dei servizi tunisini, con pieno beneplacito dei governi francesi, sono liberi di scorazzare e agire sul suolo francese per “risolvere” le loro questioni interne.

Mentre la Tunisia diventa sempre più terra di conquista per il libero mercato, le condizioni politiche, economiche, sociali e culturali delle masse tunisine precipitano. È in questo frangente che l’Islam, come organizzazione politica e religiosa, comincia ad avere una presa non secondaria su quote importanti di popolazione anche se, a differenza di quanto accade in altri Paesi musulmani, queste forze non sono in grado di egemonizzare per intero l’opposizione al regime liberista. È soprattutto grazie alla attività del sindacato che, in Tunisia, si mantiene aperta una opzione politica antigovernativa laica e socialista mentre, le stesse formazioni religiose, sono costrette ad accentuare nei loro programmi gli aspetti sociali lasciando in secondo piano le suggestioni teocratiche. Tutto ciò sarà particolarmente evidente dentro le mobilitazioni del 2011 che, insieme alle forze di ispirazione religiosa, vedranno in prima fila le organizzazioni di sinistra e lo stesso Partito Operaio Comunista Tunisino confinato per anni nella clandestinità.

Con la “svolta” del 1970 le condizioni politiche e sindacali presenti in Tunisia si mostrano particolarmente ghiotte per le imprese multinazionali. L’opera di neocolonizzazione della Tunisia marcia a pieno regime. Tipico di questo processo è lo “sviluppo” del settore turistico. Oasi turistiche, ovviamente deputate a ospitare un pubblico prevalentemente straniero insieme alle ristrette classi dirigenti indigene, vengono costruite con una certa intraprendenza. La Tunisia diventa anche uno dei tanti “Paesi balocco” per i colonialisti occidentali.

Fatte le tare del caso la storia sembra essere tornata indietro di 60, 70 anni. Come in piena epoca coloniale la miseria delle campagne favorisce una migrazione interna che porta, dentro i centri urbani, quote di aspiranti lavoratori i quali, nella maggior parte dei casi, finiscono con l’ampliare il già corposo esercito industriale di riserva presente nel Paese. La crisi del modo di produzione capitalista manifestatasi in tutta la sua drammaticità a partire dal 2008 e ulteriormente aggravatasi trascina le masse tunisine nella piena indigenza. Con l’entrata in crisi anche del turismo la situazione tunisina precipita. L’autodafé di Mohaed Bouazizi ne rappresenta, al contempo, la sintesi e il dramma. Il Paese si mostra radicalmente spaccato in due solo che, questa volta, nella città europea abitano i potentati locali, è contro di loro che si concretizza la rivolta. Le proteste assumono una radicalità tale che, il 14 gennaio 2011, il presidente Ben Ali è costretto ad abbandonare il Paese.

La Rivolta del pane è il prodotto di tutto ciò. Sulla scia di questi eventi un numero in fondo limitato di tunisini, per lo più giovani in cerca di lavoro, lasciano la Tunisia cercando una qualche chance di vita in Europa. Nel loro immaginario, l’Europa, è la terra del lavoro regolamentato e garantito, il Continente dei diritti politici e sociali, il mondo dove una vita dignitosa è alla portata di tutti. Scoprono ben presto che, come in un noir da manuale, nulla è come appare. L’Europa che si è delineata è l’Europa del capitale finanziario, delle guerre coloniali, dello smantellamento a tappe forzate di tutti i diritti sociali. È l’Europa che sperpera denaro pubblico per finanziare le Banche private, è l’Europa della macelleria sociale a tutto tondo. Quella stessa Unione Europea per anni così prodiga nei confronti del regime liberista tunisino, alle vittime di questo, gli vieta l’ingresso entro i suoi confini mentre l’Italia si appresta a ricacciarli in mare o a farli diventare non – persone, clandestini.

I diritti negati oggi ai “profughi” tunisini non sono un’anomalia, il classico bubbone all’interno di un corpo sostanzialmente sano, bensì la norma dell’Europa liberista.

La condizione di invisibilità politica e sociale, il loro confinamento dentro i mondi dell’esclusione sociale non è altro che un’avvisaglia di ciò che l’Europa delle Banche sta progettando per gran parte delle classi sociali subalterne. Ciò che si sperimenta oggi su immigrati e “profughi, in un domani che è già oggi diventa moneta corrente per quote sempre più vaste di popolazione indigena. Al proposito è sufficiente ricordare come, in un recente passato, le forme di lavoro sperimentate sul corpo migrante si siano, gradatamente ma irreversibilmente, estese alla forza lavoro autoctona. La stessa cosa può ormai tranquillamente dirsi per tutto ciò che concerne i diritti sociali. Infine, ma non per ultimo, la tecnica del dispositivo (di cui CPT e CIE ne sono elemento paradigmatico) come modello di gestione delle masse degli esclusi è qualcosa che ritroviamo puntualmente nella gestione dell’ordine metropolitano. Sotto questa luce, allora, la “questione profughi” diventa qualcosa che ci riguarda da vicino. Imporre il rinnovo del permesso di soggiorno è una battaglia, per quanto di modeste proporzioni, che si inserisce esattamente nel fronte di massa contro l’Europa delle Banche e delle Multinazionali.

Il loro permesso è in scadenza. Questo permesso deve essere rinnovato. Nessun rimpatrio coatto. Nessuno deve diventare clandestino.

La “questione immigrazione” è parte integrante della lotta contro l’Europa delle Banche e delle Multinazionali. Le loro lotte sono le lotte di tutte le classi sociali subalterne le cui esistenze sono sacrificate agli imperativi del capitale finanziario e del comando capitalista internazionale. Queste lotte stanno di diritto dentro la mobilitazione generale del 15 ottobre.

People of Europe, Rise Up

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