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Eat the Rich! Perchè e come

In questi mesi abbiamo seguito, come tutti, il dibattito economico e politico che si è scatenato nel nostro paese. È stato subito chiaro che si metteva male per noi: che di qualsiasi cosa si trattasse, gira e rigira, questa crisi e questo debito li avrebbero pagati gli studenti, i lavoratori, i disoccupati e precari, i migranti, insomma, il caro e niente affatto “vecchio” (anzi, giovanissimo, visto che ci stanno finendo anche i ventenni e trentenni delle “classi medie”) proletariato. Perciò abbiamo cercato di capire bene cosa stesse succedendo, e poi ci siamo messi a pensare cosa potevamo fare per evitare di finire nel Nuovo Medioevo che ci stanno preparando, con la stessa schiavitù ma con in più  le telecamere…    

Be’, non abbiamo trovato la Soluzione, però delle buone idee sì, o almeno qualche punto fermo che ci possa permettere di orientarci ed agire sin da subito. Così è nata la campagna Eat The Rich!, un’insieme di analisi, film, canzoni rock, volantini, subvertising e soprattutto iniziative, che vuole essere una proposta di agitazione per quest’autunno.

Attenzione: non si tratta di una nuova Rete, dell’ennesimo Comitato, di un cartello elettorale… Si tratta solo di far passare un semplice e inequivocabile messaggio, che dovrebbe essere la base di ogni opzione politica “alternativa” a questo sistema, un messaggio che deve girare in maniera larga, in ogni luogo dove soffre e speri questo nuovo proletariato, un messaggio che sarebbe bello spuntasse in maniera “virale”, che si diffondesse ovunque, sui muri, nelle scuole, anche senza firme, perché dice una cosa che è di tutti….

Un messaggio che dovremmo imporre a chi ci governa, dal padrone a fianco a quello lontano, dal ministro al tecnocrate europeo, dal banchiere al giornalista di regime, perché capiscano una volta per tutte che noi li odiamo, come loro ci odiano, che sono loro i nostri nemici, che se siamo ridotti così è colpa dei ricchi e dei padroni, di chi ha tutto e che pure continua a levarlo a chi non ha più niente, che sono loro a dover pagare, e che li combatteremo e non ci accontenteremo finché non li vedremo faticare la vita come noi, finché non saremo tutti uguali.
 
Sembra troppo? Secondo noi è il minimo che si deve dire e provare a praticare nella durezza di quello che sta succedendo.
Sembra stupido? Certo è facile, persino banale: ma è quello che molti sanno e che pure vorrebbero sentirsi dire, perché vorrebbero che questa posizione avesse finalmente cittadinanza nel mondo delle opinioni politiche, dove tutti parlano e nessuno dice, e diventasse programma, idea-forza, coscienza di classe e coscienza di massa.
Sembra irrealizzabile? Questo dipende da noi, da quanto crediamo in quello che facciamo e dagli anni futuri: nulla resta fermo, ed il mondo cambia se noi lo facciamo cambiare. D’altronde se questo presente è insostenibile, il futuro, fra disastro ecologico e disastro economico, semplicemente non sarà.  
 
Ovviamente le cose sono molto più complicate di come l’abbiamo messa giù in queste poche righe, quindi vi invitiamo ad avere un po’ di pazienza ed a seguirci in tutto ragionamento. Magari alla fine penserete che urlare ovunque Eat The Rich! forse non è così puerile… E se sarete d’accordo, in tutto o solo in parte, riprendete quello che volete, analisi, slogan, materiali di propaganda, diffondeteli ovunque, e chissà che una volta tanto non riusciamo – non diciamo a vincere, la vittoria non è ancora alla nostra portata – ma almeno a metterci d’accordo, a segnare un punto, a cominciare a fargliela pagare.      

Frammenti di un discorso ben poco amoroso…

“La situazione dell’Italia è gravissima!”
“Non c’è tempo da perdere!”
“Dobbiamo essere tutti uniti, ognuno deve fare la sua parte!”
“Ce lo chiede l’Europa”…

È questo il leitmotiv che da qualche mese accompagna la nostra quotidianità. Pare definitivamente tramontato il tempo delle rassicurazioni, quando in particolar modo esponenti del governo e della maggioranza parlamentare si producevano in goffe esibizioni nel tentativo di spiegarci che l’Italia era un paese dalle basi solide e che mai avrebbe intrapreso la pericolosa china seguita da Atene o dagli altri PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna). La tumultuosa estate ha spazzato via tutti questi ragionamenti ed oggi la Grecia non sembra più così lontana, anche stando a sentire addetti ai lavori, economisti e politicanti. È bastato il declassamento di qualche “+” e qualche “A” da parte delle agenzie di rating, l’aggiunta di una “I”, e ci siamo ritrovati pure noi tra i PIIGS. Ed ora tutti convergono su una cosa: la situazione è pesante, occorrono riforme e sacrifici immediati se si vogliono evitare scenari ben peggiori.

All’inizio di agosto, dopo un mese di tensione sui mercati, Trichet e Draghi (rispettivamente attuale e futuro presidente della Banca Centrale Europea), d’accordo col Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, hanno indirizzato una lettera segreta al governo Berlusconi, in cui dettano le ricette che l’Italia dovrà adottare nei prossimi mesi. In sostanza, impongono sia cosa fare che quando farlo. Ma siccome il Governo Berlusconi ha fatto per un po’ finta di niente, per non attaccare il suo stesso blocco sociale e perdere consenso, la lettera è stata alla fine resa pubblica, ed in poche ore su questa lettera tutti, anche e soprattutto le opposizioni, si sono dichiarati d’accordo. Tralasciando per un attimo il commissariamento de facto che questa mossa comporta e concentrandoci invece su quelle che sono le misure indicate, non può sfuggire la portata dei cambiamenti ventilati.

Siamo di fronte ad una svolta nella storia del Paese, pari a quella dell’inizio anni ’90, alla vigilia di un rivolgimento di assetti sociali, istituzionali, economici e politici di lungo periodo. D’altronde se consideriamo la crisi come un’occasione, la possibilità di operare una rottura per costruire un sistema più competitivo e profittevole, appare evidente che, dopo più di tre anni, una frazione della borghesia  – quella più “grande” e filoeuropea rispetto al blocco sociale berlusconiano-leghista, fatto di palazzinari, professionisti ed evasori, commercianti e piccola e media imprenditoria –, spinga per ridisegnare gli assetti strutturali dell’Italia.

Nel capitalismo ogni crisi ha sempre significato una riconfigurazione: per far ripartire il ciclo di accumulazione alcune aziende devono fallire ed essere mangiate dai “grossi”, altri mercati si devono aprire, alcuni diritti vanno tagliati, altri ambiti di vita devono essere mercificati. L’Italia non cresceva molto già prima del 2008, figuriamoci adesso: per questo la “speculazione” – che non è niente di strano o cattivo, ma la “normalità” dei rapporti di mercato – la attacca…
Ora la pressione stessa dei mercati può “obbligare” a delle misure di tipo economico e istituzionale: la crisi, come ridisegna la gerarchia europea, in cui i grandi capitali, in particolare francesi e tedeschi, non devono manco più passare per la falsa collegialità delle istituzioni europee prima di dare gli ordini, così ridisegna quella interna italiana. Insomma: per fare “andar bene” i mercati bisogna rendere il paese prono alle esigenze del profitto, far sì che tutto si possa vendere e comprare, e comprimere i diritti al minimo perché costano…

La lettera di Draghi e di Trichet parte dunque dall’obiettivo del pareggio di bilancio, che dovrà comparire come obbligo nella costituzione (sulla scia di quanto già accaduto in Germania e, proprio recentemente, nello stato spagnolo) e continua con la riduzione del debito pubblico, con privatizzazioni e liberalizzazioni, invocando una maggiore flessibilità nel mondo del lavoro (soprattutto “in uscita”, vale a dire libertà di licenziamento), una riforma del sistema pensionistico che preveda l’innalzamento dell’età pensionabile e l’eliminazione delle pensioni d’anzianità, il tutto accompagnato da pesanti sforbiciate ai servizi pubblici (sanità, istruzione, trasporti, ecc.) e dalla riduzione degli stipendi.

Lo ripetiamo: è un programma che ci consegnerebbe un paese ben diverso da quello che abbiamo conosciuto finora, ed anche per questo dovremmo muoverci presto ed in modo forte.  La crisi ha infatti contribuito a rendere improcrastinabili riforme che dovrebbero avere l’effetto di “modernizzare” il paese, di ridurre le distanze e renderlo competitivo con il modello renano e quello anglosassone. Per arrivare a questa meta, al neocorporativismo, ovvero alla compatibilità massima del lavoro al capitale, la frazione della borghesia imperialista ritiene che non ci sia più spazio per tutto ciò che costituisce inefficienza, per le sacche di “arretratezza” che hanno contraddistinto il sistema delle vecchie corporazioni italiane. Insomma, come è logico che sia, la crisi non è un’occasione solo per alcuni, ma per tutti. Almeno in potenza. Se lo è per noi figuriamoci per il nemico di classe.

Oseremo lottare?

È facile, di fronte a questo spiegamento di forze e questo martellamento assillante, farsi terrorizzare. In realtà sono proprio le manovre messe in campo o anche solo oggetto di discussione a rivelare l’asprezza delle contraddizioni che si stanno palesando. La “modernizzazione” richiesta dalla borghesia imperialista non raccoglie il sostegno di quell’altra parte di borghesia italiana, che finora si è appoggiata al governo Berlusconi, e che chiede invece altre ricette. Lo scontro inter-borghese insomma non è sopito anche se non è improbabile che si giunga ad una sorta di patto tra queste due fazioni a tutto detrimento delle classi subalterne. Ovvero: intanto continuiamo a dare mazzate pesanti al lavoro, a spremere ancora di più il proletariato, poi qualcuno di noi ci rimetterà qualcosina…

Ciononostante, le frizioni che emergono quotidianamente sono sotto gli occhi di tutti. Prendiamo in esame l’ultima manovra approvata dalla Camera dei Deputati il 14 settembre ed il dibattito che l’ha accompagnata. Il discorso ideologico che avvolge le misure approvate parla continuamente della necessità di “stringere la cinghia”: un po’ per uno in fondo non fa male a nessuno. Almeno è questo il messaggio che vorrebbero far passare. Ma operai, disoccupati, cassintegrati, lavoratori dipendenti, studenti, pensionati hanno mostrato più volte insofferenza dinanzi ad un simile ragionamento, e legittimamente si chiedono: perché bisogna colpire sempre gli stessi? Non è forse giunta l’ora in cui a pagare siano altri?

È quello che ripetiamo da tempo. Accanto a larghe fette di povertà nel nostro paese si concentrano anche ampie sacche di ricchezza. Un articolo di “Affari e finanza” del 19 settembre metteva in evidenza come la ricchezza privata in Italia sia enorme, addirittura superiore a quella della Francia, della Germania e della Gran Bretagna, in gran parte investita in strumenti finanziari e in beni immobili. Patrimoni enormi accumulati nel corso degli anni grazie allo sfruttamento della forza-lavoro, alla speculazione finanziaria ed immobiliare e grazie anche al vasto ricorso all’evasione fiscale. Perché non colpire questi patrimoni? Se c’è da “fare sacrifici”, se c’è bisogno di austerity, perché non farne fare un po’ a coloro che finora ne sono stati esenti e che dalla crisi addirittura sono riusciti a guadagnare?

Proprio l’evasione si è trasformata negli anni in un ottimo strumento di risparmio ed accumulazione, contribuendo, spesso in maniera decisiva, alla crescita della ricchezza privata ed alla tenuta del consenso sociale nei confronti dei diversi governi che si sono succeduti. Il contraltare è però costituito dalla difficoltà che lo stato, privato di risorse enormi, ha nell’essere volano di sviluppo al servizio della frazione della borghesia imperialista. Basti pensare ai tagli che hanno colpito gli investimenti nella ricerca e nell’innovazione: la perdita di competitività delle aziende italiane sui mercati internazionali è sicuramente dovuta anche ai ritardi del nostro paese su questo terreno strategico. Così come l’evasione ha anche impedito di sviluppare le infrastrutture, di rendere efficiente la pubblica amministrazione, in particolare nel settore della giustizia civile. D’altra parte, l’evasione colpisce anche le classi subalterne del nostro paese, in particolare i lavoratori dipendenti, per i quali evadere è semplicemente impossibile. Sono loro infatti a pagarne il prezzo in termini di servizi sociali sempre più ridotti (sanità, istruzione, trasporti, ecc.), di riforme del sistema pensionistico di volta in volta peggiorative, di blocco delle assunzioni, dei rinnovi contrattuali e degli aumenti di stipendio.

Ebbene, la lotta all’evasione tanto enfatizzata da Montezemolo, Profumo & Co., potendo portare al recupero della gigantesca cifra di 140 miliardi di € (a tanto ammonta ogni anno in Italia l’evasione fiscale!), è una bandiera agitata da molti. I padroni, in linea con le istituzioni comunitarie, ci dicono che queste risorse dovrebbero essere utilizzate in via assolutamente prioritaria per la riduzione del debito pubblico e, in secondo luogo, per la riduzione della pressione fiscale sulle aziende. Ma è questo l’unico uso che se ne potrebbe fare? A leggere giornali o a sentire telegiornali pare proprio di sì. E invece no: si potrebbero destinare infatti alle classi subalterne!

Volete un esempio? Conti alla mano, recuperando l’evasione fiscale si potrebbero portare a 2000€ tutte le pensioni minime o raddoppiare l’importo della cassa integrazione per tutti i lavoratori estromessi temporaneamente dal ciclo della produzione… Una soluzione che, con i rapporti di forza attuali, non sarà mai fatta propria dall’attuale governo né da quelli che seguiranno, ma che non per questo non va messa in campo. Anzi, sono queste le proposte, è questa impossibilità che va agitata e portata in un discorso di massa. È bene infatti sottolineare che non esiste alcuna ineluttabilità. Semplicemente le misure “necessarie” sono quelle funzionali agli interessi delle classi dominanti. È di fronte a questa rapina, di soldi e di futuro, travestita da legge, che dobbiamo osare lottare.

Perché Eat The Rich!

Se tutto questo è vero è chiaro quindi che non ci sono margini per nessun governo “alternativo”. Chiunque sarà al Governo nei prossimi mesi non potrà fare a meno di mettere in atto le strategie della BCE, e non potrà farne a meno perché oggi stare dentro al sistema capitalistico vuol dire fare come in Grecia: licenziare, ristrutturare, privatizzare, e reprimere chi osa protestare. Si può trattare sulle briciole, si può far passare una patrimoniale che faccia il solletico ai grandi contribuenti, ma il problema vero è quello di andarsi a prendere il valore là dove lo si produce, ovvero nelle fabbriche, nei servizi, sui posti di lavoro. È così che funziona questo sistema e finché sembrerà più conveniente restarci, o mancheranno credibili alternative, nessuno sarà per davvero “alternativo”, per quanto di rosso si possa tingere.

Arrivati al nocciolo del problema come siamo, consumate tutte le mediazioni sociali, non esistono più mezze misure: o si prova a rompere la compatibilità, e si “esce”, con tutte le difficoltà del caso, dall’ordine capitalista per porre al centro il benessere collettivo, il controllo sociale della produzione etc, o si deve mettere in atto il programma barbarico del capitale, per quanto in Occidente ci possano essere sempre margini per addolcire la medicina, e dare magari qualche soldo a cooperative o amici di amici.  

Certo, la barbarie sarà lucente, sarà quella di Montezemolo e dei vari grandi imprenditori nostrani: quella che vorrebbe la precarietà spalmata su tutto l’arco di vita invece che concentrata nella fascia “in entrata”, quella che vorrebbe disinnescare la bomba generazionale dicendo ai giovani: voi siete preparati e faticate, vi rendete conto che se non trovate un posto è perché i “vecchi” hanno troppi diritti pur non facendo nulla? Sarà la barbarie di una “meritocrazia” che dividerà i compagni di lavoro, che metterà gli uni contro gli altri stabilimenti ed unità di produzione, in una corsa al ribasso che ha come fine solo l’usura definitiva dei corpi e delle menti… E sarà lucente come le ville ed i quartieri dei sempre più ricchi, come i treni della TAV, come le scuole e le università private, mentre fuori da queste “oasi” una maggioranza sempre più grande si trascinerà in quartieri desolati ed abbandonati, viaggerà su treni sporchi ed affollati, si guarderà incattivita e diffidente per la paura di perdere quel poco che riesce a strappare alla giornata.

Ma se questa è la situazione – da un lato un grande rischio, e da un altro una banda di infami che aspirano alla poltrona nonostante esserci già stati ed aver inventato proprio loro “precarietà”, “riduzioni di salario” e “guerre umanitarie” – cosa è lecito sperare quest’autunno? Perché scendere in piazza? Per cosa possiamo/dobbiamo lottare? Se l’unica vera soluzione, un sistema più giusto, dove al centro sia l’uomo e non il capitale, il comunismo, non è proprio dietro l’angolo, dobbiamo per questo starcene con le mani in mano o seguire il primo cialtrone che passa solo perché la sua proposta sembra “fattibile”?   

Ovviamente no. Nella storia le opzioni politiche, soprattutto se sono di rottura, sono sempre state pazientemente costruite. Che non vuol dire solo astrattamente proclamate: ma sostanziate con vittorie, anche piccole e locali, nutrendosi di un immaginario di cambiamento e di un’aggregazione di massa, di esempi di militanza e dedizione senza tornaconti personali, dotandosi di basi solide nei posti chiave del conflitto. Certo, tanto meno tempo ci vorrà quanto prima e quanti più lavoratori capiranno chi sono i loro nemici ed inizieranno a combatterli a priori ed in maniera organizzata, invece di reagire volta per volta ed in modo scoordinato, ma non esiste altra strada oltre a questa. Faticosa, lunga, ma tant’è: chi lo ha mai detto che sarebbe stato facile?

Ok, ma subito? Subito si tratta di socializzare questi discorsi al maggior numero di persone, per produrre una reazione decisa ed incazzata, che non vada più ad implorare il politico di turno, ma spinga nel senso dell’autorganizzazione e del protagonismo dei soggetti colpiti dalla crisi. Ed è proprio per questo che proponiamo di lanciare l’“offensiva” Eat The Rich!. Spieghiamoci meglio…

Noi partiamo dalla constatazione, realista e non pessimista, che anche questa battaglia del capitale è vinta, come in un certo senso è stata vinta in Grecia. Ciò non toglie che le manifestazioni, gli scontri, gli incontri di piazza ad Atene, abbiano portato dei risultati positivi: abbiano reso più consapevoli le persone rispetto al loro destino ed abbiano rinforzato una coscienza di classe, oltre ad impedire che passasse tutto e subito il massacro sociale previsto dal governo di “sinistra”. Certo non è il paradiso, ma di sicuro senza una reazione decisa e di massa sarebbe stato peggio: ed in questo senso è vero che l’unica battaglia che si perde è quella che non si combatte (Brecht). Onore dunque ai compagni greci che hanno forse strappato il massimo che si poteva ottenere in un contesto, anche internazionale, sfavorevolissimo: far sì che la pressione dal basso portasse ad una rinegoziazione del debito, contrattando condizioni leggermente più favorevoli o procrastinando la catastrofe nel mentre si raccolgono le forze per provare l’assalto.  

È questo un margine che resta aperto anche in Italia, osso ben più grande da spolpare, quindi da un lato più appetitoso, ma anche più resistente. Il nostro compito di quest’autunno è cercare di provocare, soprattutto a partire dagli ambiti lavorativi, una forte mobilitazione che dimostri l’incompatibilità della classe con le misure del capitale, e che faccia avvertire questa incompatibilità in larghi strati della popolazione per determinare con la lotta e non con il compromesso o l’accordo sottobanco un arretramento almeno parziale delle misure, mentre accumuliamo le forze. Certo, a vedere la passività delle masse e la vaghezza dell’opposizione politica di partiti e sindacati, sembra che abbiano già vinto… ma appena passeranno le prossime misure sarà il caos, e come militanti di base avremo ampi spazi di manovra: non per ribaltare i rapporti di forza, ma di sicuro per riassestarli a nostro vantaggio.

Insomma, usciremmo bene da quest’ennesimo attacco e da questo faticoso autunno se:
a) Si avvia qualche mobilitazione in ambiti che finora ne erano estranei, in situazioni lavorative normalmente portate alla mediazione, in contesti precari, se riprende la lotta in qualche stabilimento significativo, come FIAT, FINCANTIERI etc;
b) Si rafforza il coordinamento fra le realtà politiche che già esistono, si avviano dibattiti e percorsi unitari, si prova ad organizzarsi in maniera meno sporadica o contingente, mettendo da subito in gioco sui territori processi ricompositivi;
c) Si riescono a disseminare e far attecchire alcuni elementi di coscienza di classe, per poi generalizzarli anche oltre gli ambiti di movimento.

È su quest’ultimo punto in particolare che insiste la campagna Eat The Rich!. Si tratta di far passare, alcuni concetti che sono preliminari ad ogni tattica politica: chi sono i nemici e chi sono gli amici, cos’è il proletariato oggi, per mostrare il punto esatto delle contraddizioni e far capire a che altezza è il livello dello scontro, che è europeo, e persino mondiale. Eat The Rich! è una campagna che prova a rompere con la retorica dei “sacrifici”, della “coesione sociale”, della “fratellanza nazionale”. È una campagna d’odio verso i ricchi, i padroni e chi ci comanda, perfettamente contrapposta a quella che loro ci fanno ogni giorno dai giornali, a quella violenza “invisibile” che ci impongono con i diktat del mercato e con le lettere di licenziamento – è odio, perché odiare è la prima forma di distinzione, e distinguersi è il primo passo per poter combattere ed essere riconosciuti. D’altronde, come ci ricorda Benjamin, l’odio è il nerbo migliore della forza della classe lavoratrice.

Insomma, in un momento in cui il sistema dominante in crisi, e molti nel mondo iniziano a pensare che non vada proprio tutto liscio, dobbiamo rilanciare senza alcun complesso di inferiorità la nostra prospettiva: è proprio quando non c’è più niente da perdere che bisogna giocarsi tutto.

Praticare Eat the rich!

Se ci fermassimo qui avremmo però detto (e soprattutto fatto) ancora poco. Qualche spiegazione, nella migliore delle ipotesi convincente, qualche proposta alternativa e nulla più. Ma la campagna Eat The Rich! non è solo retorica o simbologia o immaginario d’assalto. Può diventare anche una proposta operativa, che vuole provocatoriamente tendere allo stremo i discorsi dominanti per rovesciarli, sfruttando tutte le contraddizioni che si aprono nella breccia del nemico. Una proposta che scenda sui territori facendo lo sforzo di individuare percorsi concreti che possano raccogliere la mobilitazione di quanti con sempre più difficoltà accettano le restrizioni e costrizioni del presente. Dimostrando che, al di là delle macroquestioni del debito, che rischiano di spingere così in alto il problema da renderlo quasi ideologico ed inaffrontabile (perché “non pagare” vorrebbe dire far saltare il meccanismo di credito e di debito, cioè fare il socialismo), ci sono miriadi di opportunità di intervento a livello locale. La differenza con i riformisti che propongono di mettere le pezze a questo sistema è che per noi strappare qualcosa vuol dire strapparlo con una lotta pubblica e non con l’accordo sottobanco, che per noi strappare qualcosa è funzionale all’accumulazione di forza per riprodurre rotture ad un livello più alto!

Proviamo ad azzardare qualche esempio. Bisogna fare sacrifici perché altrimenti l’Italia fallisce? Bene, allora noi sappiamo chi può e deve farne! Siccome noi abbiamo già dato, quasi tutto ormai, facciamoli fare agli altri, ai ricchi. Prendiamo l’evasione fiscale e leghiamola all’emergenza abitativa. Ogni giorno avvengono sfratti, ci sono famiglie in attesa di una casa ormai da decenni ed i giovani ritardano sempre più l’età di uscita dall’alveo familiare. Tutto questo mentre un milione e duecentomila abitazioni sono inutilizzate: spesso i proprietari preferiscono tenere vuota la seconda o la terza casa, per mantenere alti gli affitti o non metterci dentro una famiglia che poi farebbe storie per andarsene. Questo accade anche perché le tasse che bisogna pagare sulla seconda casa sono praticamente irrisorie. Ma su questo si può intervenire, anche restando a livello locale: lottare per un forte aumento della tassazione sulla seconda casa che di fatto “costringa” i proprietari ad “usare” i beni immobili permetterebbe di ridurre il fenomeno dell’emergenza abitativa. Inoltre, portando molti ad affittare abitazioni fino ad ora inutilizzate, aumenterebbe di molto l’offerta di case, favorendo con ciò una riduzione del prezzo degli affitti. Una misura simile andrebbe pensata anche per la fuoriuscita del sommerso, degli affitti in nero, in modo da mettere fine a questa piaga che è tutt’altro che esclusivamente locale.

Ma per andare oltre e per cercare di illustrare con maggior chiarezza quello che è un metodo che crediamo sia necessario adottare, piuttosto che concentrarsi sulle singole possibilità, passiamo alla questione dei servizi sociali. Da anni continui tagli minano il nostro diritto alla salute, all’istruzione, ai trasporti. La cantilena è sempre la stessa: non ci sono soldi ed è quindi necessario un aumento dei prezzi o (ma oggi è sempre più spesso un “e”) un peggioramento delle prestazioni erogate. È indubbiamente vero che i trasferimenti statali, regionali e comunali si sono ridotti, in particolar modo negli ultimi anni. Ma, anche accettando questo quadro “ineluttabile”, è necessario che l’aumento dei prezzi tocchi tutti alla stessa maniera? Non sarebbe più giusto che chi più ha più paga? Non si può pensare ad un prezzo del biglietto dell’autobus, ad un ticket sanitario o ad una tassazione universitaria modulati in base ad una fasciazione fortemente progressiva, con esenzione per i redditi bassi? Anche in questo caso la risposta è sì. Sarebbe una misura di redistribuzione della ricchezza che permetterebbe di far ricadere il costo della crisi su chi non la subisce o su chi la sente di meno.

Questi sono solo degli esempi, in ogni realtà locale ci sono dei margini, e ce ne sono anche perché le stesse riforme del capitale puntano ad una maggiore autonomia dei territori. È allora anche su questi margini che si possono alzare polveroni, per dimostrare che la non volontà di applicare certe misure è tutta politica, cioè che non esiste nessuna forza che rappresenti gli interessi della classe sfruttata e dunque dobbiamo mobilitarci in prima persona.

Ancora. A Napoli e a Milano ci sono due sindaci di “sinistra” che hanno opportunisticamente fatto della novità ed il rinnovamento la loro bandiera, per poi guardarsi bene dal dare segnali di discontinuità che non fossero di “facciata”. Pur avendo ampi margini di intervento economico, visto che si sta parlando di due grandi metropoli, hanno messo al centro il pareggio del bilancio e la pulizia/presentabilità della città borghese, con lo sgombero di ambulanti o la repressione della movida notturna. E se invece con una lotta dal basso li costringessimo a tassare i ricchi? Se li costringessimo a implementare una “carta sociale” che in base al reddito dia l’accesso gratuito o quasi ai servizi essenziali? Se li costringessimo a mettere la polizia municipale a controllare la situazione delle case sfitte o gli abusi dei costruttori? Se li costringessimo a far pagare multe pesanti ai locali dove i camerieri non sono in regola? Se li obbligassimo a mandare gli ispettori dove non si rispettano i criteri sanitari e le regole sulla sicurezza? Se li costringessimo a pubblicare in rete la dichiarazione dei redditi dei cittadini, permettendoci così di scoprire chi è che fa il furbo e dichiara di guadagnare solo qualche migliaio di euro all’anno mentre va in giro con la Ferrari, mentre sul lavoro dipendente e sulle “finte” partite IVA (in realtà lavoratori subordinati a tutti gli effetti) il prelievo fiscale è massimo? Forse la Ferrari non gli resterebbe proprio intatta. Forse ci penserebbe su e piuttosto che pagare il meccanico inizierebbe a pagare le tasse. Forse quei soldi che finalmente gli escono dalle tasche andrebbero ai servizi per l’infanzia o per le case popolari.  

Insomma, in maniera rozza abbiamo provato solo a fare qualche esempio, ma è chiaro che “solo chi fortemente vuole identifica gli elementi necessari alla realizzazione della propria volontà” (Gramsci). In questo senso la campagna Eat The Rich! resta aperta a tutte le contaminazioni e sperimentazioni possibili. L’importante è che si propaghi: si tratta di portare questo rifiuto della società di classe ovunque, non in maniera ideologica, ma agganciandolo alla vita concreta delle persone. Forse se quest’autunno riusciremo, accanto alle mobilitazioni di piazza ed ai processi ricompositivi necessari, a far attecchire questi elementi nella coscienza di ogni studente o lavoratore, i prossimi mesi ed anni potrebbero essere molto duri per chi pretende di governarci…

Eat the rich! Che i sacrifici li facciano i padroni!

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