11/01/2012
Crisi finanziaria e governo dell’economia
Alberto Bagnai
Abstract – La crisi dei subprime è stata il detonatore della crisi dell’eurozona. Fra le concause di queste due crisi molti annoverano difetti di regolamentazione dei mercati finanziari. In questo lavoro, più che considerare l’aspetto microeconomico della questione, ci soffermiamo su quello macroeconomico. L’asimmetria del sistema monetario internazionale rende ineluttabili copiosi afflussi di capitali verso gli Stati Uniti, aprendo la strada a un loro impiego inefficiente (come i mutui subprime) e quindi a ricorrenti shock reali sul resto dell’economia globale. L’asimmetria e la scarsa fondatezza teorica ed empirica delle regole europee rendono inevitabile l’accumulazione di debito privato nei paesi della periferia, fragilizzando l’intera Unione rispetto a shock esterni, come previsto dalla teoria delle Aree Valutarie Ottimali. Purtroppo, le riforme delle regole proposte nel dibattito corrente, quando non sono evidentemente insostenibili sotto il profilo politico, sembrano andare in direzione di un aggravamento di questi mali.
« L’obscurité n’est pas un défaut quand on parle à des bons jeunes gens avides de savoir, et surtout de paraître savoir. »
Stendhal, Promenades dans Rome, 17 mars 1828.
1. Introduzione
Accolgo con vivo piacere l’invito a contribuire a questo numero dedicato al governo del sistema monetario europeo e internazionale. Se posso permettermi un po’ di leggerezza, mi solleva il fatto che qualcuno sia ancora interessato a raccogliere le opinioni di un economista, in un periodo nel quale la scienza economica è particolarmente discreditata per non aver saputo prevedere lo scoppio della crisi, e per non averne saputo scongiurare le conseguenze. Non credo che questi rilievi siano del tutto corretti: esempi illustri di analisi “profetiche” non mancano. Ammetto però che da qualche tempo gli scambi più proficui su questo tema mi capita di averli con studiosi esterni alla mia professione: storici, geografi, giuristi. Questo dipende in parte dal mio percorso, che mi rende insofferente verso l’omodossia economica (non chiamerei “ortodossia” il cosiddetto pensiero mainstream, che è certamente unanime – omos – ma, visti i risultati, probabilmente non del tutto corretto – orthos). I benefici di questi scambi interdisciplinari dipendono però soprattutto dal fatto che essi costringono a riorganizzare le proprie categorie, a cercare nuove strade di trasmissione del proprio sapere “tecnico”, a reagire a stimoli imprevisti. Un esercizio utilissimo, da compiere con umiltà e con quel senso di responsabilità che deriva dal costituirsi rappresentante della categoria verso un mondo “esterno”. Il che obbliga a porsi due domande ben precise: in che modo posso aiutare la riflessione dei colleghi che hanno seguito altri percorsi (e farmi aiutare nella mia)? E in che modo posso fornire loro una rappresentazione critica ma non distorta dei risultati e delle aporie della mia disciplina?
Rinuncio fin da ora al secondo obiettivo: vivrò senza sensi di colpa la mia faziosità, sapendo di rivolgermi a un pubblico che ha gli strumenti critici per difendersi qualora le mie tesi non lo convincano, e soprattutto qualora lo convincano. Per lo stesso motivo rinuncerò al parlare oscuro (utile, come ci ricorda Stendhal, quando si parla a giovanotti ansiosi di sfoggiare il proprio sapere): parlando a un pubblico maturo sceglierò la strada della semplicità, sperando di non compromettere il rigore dei miei argomenti. Rivolgendomi a dei giuristi la linea di attacco più naturale mi sembra quella di riflettere sulle relazioni fra la crisi e le regole, scritte o non scritte, che governano il sistema finanziario internazionale. Avrete notato che in questo periodo gli economisti (non tanto quelli accademici, quanto i “tecnici” e le istanze politiche che li esprimono) stanno chiamando al soccorso i costituzionalisti: le attuali strategie di contrasto alla crisi propongono l’iscrizione in costituzione di regole di politica finanziaria particolarmente rigide, come il pareggio del bilancio. Per i giuristi, chiamati a giocare, se pure in un ruolo notarile, la parte dei salvatori, ci sarebbe di che inorgoglirsi, ma credo ci sia soprattutto di che riflettere. Quale e quanta razionalità esprimono queste richieste?
Più in generale, l’evidenza ci suggerisce che la crisi attuale dipende dall’irrazionalità di certi movimenti internazionali di capitali, e diventa urgente chiedersi quanto questo disordine sia reso possibile, quando non esasperato, dalla “costituzione materiale” del sistema monetario internazionale, e da alcune regole di rilevanza “regionale” (nell’accezione che il termine ha in economia internazionale): e qui, ovviamente, mi riferisco all’Unione Economica e Monetaria (UEM) europea.
Non possiamo certo riformare il mondo in venti cartelle, ma dare una rappresentazione accessibile e documentata dei problemi di fondo è un obiettivo degno di essere perseguito. Se sia raggiungibile o addirittura raggiunto lo giudicheranno i lettori. Articolerò il tentativo in cinque paragrafi. Nel secondo valuterò la compatibilità dei principali “fatti stilizzati” che descrivono il funzionamento del sistema finanziario mondiale con alcuni principi basilari del pensiero economico. Nel terzo li rileggerò alla luce dell’analisi keynesiana dell’instabilità dei mercati finanziari, illustrando poi le tappe della controriforma teorica che ha portato ad affermare la superiorità delle regole fisse sugli interventi discrezionali in politica economica: una controriforma che costituisce in qualche modo il sostrato della costruzione europea, tutta regole e parametri. Nel quarto mi concentrerò sulle criticità determinate dalla struttura asimmetrica del sistema monetario internazionale. Nel quinto studierò la relazione fra alcune regole proposte dal Trattato sull’Unione Europea e la cosiddetta crisi dei debiti “sovrani”. È segno di buona volontà e onestà intellettuale concludere un lavoro indicando prospettive. Ci proverò (temo con scarso successo) nel paragrafo di conclusioni.
2. Omodossia
«Il est démontré, disait-il, que les choses ne peuvent être autrement : car tout étant fait pour une fin, tout est nécessairement pour la meilleur fin»
Voltaire, Candide, I, 45.
2.1 Il bicchiere mezzo vuoto e quello mezzo pieno
Se stiamo parlando di crisi finanziaria è perché qualcuno ha preso in prestito dei soldi che non riesce a restituire, e la crisi è internazionale perché creditore e debitore risiedono in paesi diversi. Per definizione quindi il problema esiste perché esistono i movimenti internazionali di capitali, cioè perché i risparmi accumulati in un paese possono essere impiegati in un altro paese (sottolineo, en passant, che questo non è di per sé un dato distintivo della moderna globalizzazione, ma qualcosa che è sempre successo)[1]. Ci sarà utile qualche precisazione terminologica.
Gli economisti parlano di importazione di capitali quando i capitali affluiscono in un paese. Questo significa in parole povere che il paese in questione si sta indebitando con l’estero, e quindi accumula passività (perché si presume che i capitali in questione non siano regalie, ma crediti, che, per chi li riceve, sono debiti). Notiamo che all’afflusso di capitale farà riscontro il deflusso di un reddito nei periodi successivi, visto che sui debiti si paga un interesse. La fuoriuscita di capitali è invece un’esportazione di capitali: in questo caso il paese sta accumulando crediti, cioè attività, e al deflusso di un capitale farà riscontro il successivo afflusso di redditi, visto che sulle somme prestate si esige il pagamento di un interesse.
Nessun paese ha solo debiti o solo crediti: la posizione creditoria/debitoria di un paese viene quindi valutata in termini netti (attivo meno passivo). La variazione di questa posizione netta sull’estero (cioè l’accreditamento/indebitamento estero netto di un paese) è il saldo delle “partite correnti” della bilancia dei pagamenti. Concorrono ad esso il saldo commerciale e quello dei redditi, il che significa, in buona sostanza, che un paese si indebita con l’estero se spende (per importazioni e pagamenti di interessi) più di quello che guadagna (per esportazioni e riscossione di interessi); di converso, un paese, per avere risorse da prestare all’estero, dovrà aver guadagnato (esportando) più di quanto ha speso (importando)[2]. Questo dato contabile abbastanza ovvio (anche ognuno di noi si indebita se spende più di quanto guadagna) ha una conseguenza: un paese importatore netto di beni (cioè con deficit delle partite correnti) è anche un importatore netto di capitali, e simmetricamente un paese esportatore netto di beni è anche esportatore netto di capitali. Ciò raccorda le dinamiche finanziarie (indebitamento/accreditamento) a quelle reali (acquisto/vendita di beni).
La comunicazione dei fatti economici tende a essere sempre schermata da valutazioni moralistiche. Il medesimo fenomeno può essere presentato surrettiziamente come positivo o negativo a seconda di quale termine (sempre tecnicamente corretto) si decida di adottare. Esempio: quando i giornali lamentano il fatto che il nostro paese non è sufficientemente attrattivo per i capitali esteri, stanno in effetti deplorando che il nostro paese non si stia indebitando abbastanza con l’estero. Insomma, da prospettive diverse lo stesso fenomeno si presenta in modo molto diverso. In effetti, nessuna variabile economica, e quindi tanto meno l’indebitamento con l’estero (movimenti internazionali di capitale in entrata), è di per sé “buona” o “cattiva”. È banalmente una questione di misura: il troppo stroppia. Sarebbe bello poter dare una valutazione più paludata in vesti scientifiche, ma purtroppo non è possibile. Uno dei limiti, ampiamente riconosciuti e ammessi, della scienza economica è proprio quello di non essere riuscita a fornire una definizione scientificamente fondata da un lato, e operativa dall’altro, del concetto di sostenibilità del debito[3]. Ne è prova il fatto che Nigel Chalk e Richard Hemming intitolano la loro rassegna “la sostenibilità in teoria e in pratica”, proprio per sottolineare questo insanabile scollamento fra teoria economica e indicatori utilizzati in pratica da istituzioni e mercati. Questo limite riconosciuto va ovviamente tenuto ben presente ogni qual volta vengano proposte regole di politica economica che hanno per scopo quello di garantire la “sostenibilità” delle finanze pubbliche, concetto che, come abbiamo visto, può apparire univoco solo a chi non lo ha studiato in termini scientifici.
Un’ultima precisazione: un paese non coincide con il suo settore pubblico e quindi, ad esempio, il debito estero dell’Italia (cioè i soldi che il “sistema paese” riceve dal resto del mondo), non coincide con il debito pubblico dell’Italia (cioè con i soldi che il governo prende a prestito, in Italia e all’estero). È un dato ovvio, ma conviene precisarlo, perché i mezzi di comunicazione ci bombardano con un messaggio fuorviante: nei loro resoconti il debito è tutto pubblico, un po’ come nel dizionario dei luoghi comuni di Flaubert gli agenti di borsa sono tutti ladri, gli architetti tutti imbecilli, le imperatrici tutte belle. Non mi intendo di architetti o imperatrici, ma certamente il debito non è tutto pubblico, e in particolare i capitali che viaggiano da un paese all’altro lo fanno principalmente per sovvenire a esigenze finanziarie del settore privato. In altre parole, indebitamento (deficit) pubblico e indebitamento (deficit) estero non sono “gemelli”. Di norma e in media un punto di indebitamento pubblico si scarica sull’estero solo per un terzo, il che significa che di norma e in media i due terzi degli afflussi di capitale di un paese sono assorbiti dal (cioè sono debito del) settore privato[4].
2.2 Le leggi dell’omodossia
Fatte queste precisazioni, cerchiamo ora di capire come dovrebbe funzionare il mondo secondo l’economia che ho deciso di chiamare omodossa, e che coincide in larga misura con la scuola di pensiero che gli economisti definiscono neoclassica o mainstream, che i giornalisti definiscono liberista, e che gli storici del pensiero tendono a definire marginalista. Sì, forse non ci sarebbe bisogno di introdurre un altro nome per un atteggiamento intellettuale che ne ha già tanti. Ma parlare di omodossia ci aiuta a ricordare che studiosi abbastanza disparati in fondo si ritrovano su alcuni principi fondanti, insomma, sotto sotto la pensano un po’ tutti allo stesso modo.
Un primo principio fondante dell’omodossia è quello dei rendimenti decrescenti, secondo il quale di norma, in un processo produttivo, successivi incrementi di un fattore di produzione determinano incrementi di prodotto sempre minori (se manteniamo costanti gli altri fattori produttivi). Tecnicamente diciamo che “la produttività marginale dei fattori è decrescente”[5]. A contrario, questa legge suggerisce che i fattori di produzione (capitale e lavoro) sono più produttivi dove sono più scarsi.
Una seconda “legge” dell’omodossia stabilisce che i fattori di produzione (capitale e lavoro), vengono remunerati in base al contributo marginale (decrescente) che apportano al processo produttivo. Tecnicamente diciamo che “in un equilibrio di concorrenza perfetta i fattori di produzione ricevono una remunerazione pari alla propria produttività marginale”. A differenza della prima legge, che ha un fondamento “oggettivo” nella struttura fisica del processo di produzione (le virgolette non sono messe a caso, ma per gli happy few), la seconda legge è determinata dal comportamento umano, e in particolare dal movente del profitto[6].
Una terza legge dell’omodossia è quella, a tutti nota, della domanda e dell’offerta. Il prezzo dei beni sui diversi mercati viene determinato dalla loro scarsità relativa, e quindi cresce se un bene è molto domandato o poco offerto, e cala nel caso contrario. Il prezzo è il segnale che orienta le scelte degli operatori e concorre a ristabilire un equilibrio fra desideri e realizzazioni.
2.3 L’armonia prestabilita in teoria…
Le prime due leggi implicano che in presenza di mercati dei capitali perfettamente integrati (cioè con piena libertà di movimento e costi di transazione ridotti), il movente del profitto indirizzerà il capitale dove è meglio remunerato, cioè dove ha la produttività marginale più alta, cioè dove è relativamente più scarso.
Notate le due caratteristiche “virtuose” di questa dinamica.
La prima è che il capitale va dove è relativamente più utile, perché ce n’è relativamente di meno. Il dato “virtuoso” è che i movimenti di capitale aiutano così il “recupero” (catch up) delle economie che “sono rimaste indietro”. Queste si indebitano fisiologicamente per finanziare il proprio sviluppo, esattamente come una giovane coppia laboriosa può accettare un prestito dai genitori per “metter su casa” (il rassicurante moralismo dell’omodossia…). Crescendo, le economie arretrate producono risorse per ripagare i propri debiti.
La seconda è il carattere autoequilibrante. A mano a mano che il capitale arriva, diventa meno scarso, quindi meno produttivo, quindi offre rendimenti sempre minori, fino a che essi non uguagliano quelli prevalenti sui mercati internazionali e l’afflusso non si smorza naturalmente: il paese non contrae più nuovi debiti, e ha capitale (infrastrutture, macchinari, know-how) sufficiente per ripagare quelli già contratti.
Anche la contropartita reale degli scambi finanziari segue una dinamica autoequilibrante, indotta dalla legge della domanda e dell’offerta. Un paese diventa esportatore netto di beni se i suoi beni sono relativamente più appetibili di quelli dei suoi concorrenti. Le conseguenze sono due: da un lato il paese raccoglie risorse finanziarie, che riesporta verso il resto del mondo; ma dall’altro, il prezzo dei suoi beni aumenta, rendendoli meno convenienti, e smorzando così l’esportazione netta di beni e quindi di capitali. Alla fine il movimento dei prezzi riporta i saldi in pareggio. Se il paese è dotato di una propria valuta, e il cambio non è mantenuto fisso dalle autorità monetarie, il primo bene ad apprezzarsi in caso di surplus sarebbe proprio la valuta nazionale (il cambio si rivaluterebbe). Il meccanismo di aggiustamento comunque opera anche in caso di cambio fisso o di unione monetaria, attraverso i prezzi dei beni.
Dovremmo concludere come Pangloss, che “quelli che hanno detto che tutto va bene hanno detto una sciocchezza: bisognava dire che tutto va per il meglio”. Un mondo simile non avrebbe bisogno di avvocati, né di storici, né di economisti: basterebbero ingegneri, giornalisti sportivi e contabili. Ma succede a noi quello che succedeva al povero Candido: il mondo non ci offre lo spettacolo di una simile armonia prestabilita.
2.4 …e in pratica.
Cominciando dal dato più macroscopico, il più grande prenditore netto di fondi, cioè il paese con il più grande indebitamento estero, è anche quello più sviluppato, cioè quello che, secondo l’omodossia, avrebbe meno bisogno di indebitarsi per finanziare il proprio sviluppo: gli Stati Uniti d’America. Nel 2007 (l’anno precedente allo scoppio della crisi), i paesi in surplus hanno prodotto un’offerta netta di risparmio sui mercati internazionali pari a 1718 miliardi di dollari (di cui circa la metà originata da Cina, Germania e Giappone), e di questa il 41% è stato assorbito dal deficit delle partite correnti degli Stati Uniti[7]. Insomma, più che il recupero di chi è rimasto indietro, i movimenti di capitale sembrano finanziare il distacco di chi è già avanti.
Nel “microcosmo” europeo le cose apparentemente erano andate per il verso giusto. In effetti, nell’ultimo ventennio i principali prenditori di fondi erano stati i paesi che erano rimasti più indietro: Spagna, Grecia e Portogallo. Nel 1993 questi paesi occupavano le ultime posizioni in termini di reddito pro capite della futura eurozona (con redditi pro capite pari rispettivamente all’84%, al 76% e al 70% della media dell’eurozona). E da allora sono stati i prenditori di fondi più importanti, con un indebitamento estero netto cumulato fino al 2007 pari rispettivamente a 556, 173 e 159 miliardi di dollari. Quindi tutto bene: una posizione panglossiana espressa autorevolmente nel 2002 da Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi[8]. Ma anche qui qualcosa non è tornato: gli afflussi di capitale, per quanto ingenti, non hanno aiutato il processo di recupero[9], e soprattutto, anziché diminuire a mano a mano che la dotazione di capitale dei paesi riceventi aumentava, sono andati progressivamente aumentando, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil[10].
I due esempi differiscono perché nel primo caso (Stati Uniti) i capitali sembrano andare nella direzione sbagliata (verso i ricchi) e nel secondo in quella giusta (verso i poveri), ma un dato è comune: il carattere persistente, quando non esplosivo, dei flussi, che aumentano nel tempo anziché smorzarsi naturalmente. Non è difficile capire che proprio la persistenza degli sbilanci è all’origine delle crisi cui assistiamo. Quando un paese è inondato di capitali esteri le possibilità di impiego redditizio si rarefanno, i rendimenti diventano sempre meno appetibili e in teoria l’afflusso dovrebbe arrestarsi. Se non lo fa l’eccesso di liquidità che affluisce al paese viene convogliato dal sistema bancario verso spese meno produttive: tipicamente, investimenti immobiliari residenziali, o consumi. Forme di impiego che non generano un reddito sufficiente a ripagare i capitali esteri. Quando poi le cose vanno male la “colpa” viene data a chi si è indebitato, ma la domanda è: perché chi ha prestato soldi, cioè i mercati finanziari, ha continuato a farlo anche in queste condizioni, cioè anche quando era palese che le somme prestate non potevano essere avviate verso impieghi redditizi?
3. Riforma e controriforma
«Quel peuple ! disait-il, quels hommes ! quelles mœurs ! Si je n’avais pas eu le bonheur de donner un grand coup d’épée au travers du corps du frère de mademoiselle Cunégonde, j’étais mangé sans rémission. Mais après tout, la pure nature est bonne, puisque ces gens-ci, au lieu de me manger, m’ont fait mille honnêtetés dès qu’ils ont su que je n’étais pas jésuite. »
Voltaire, Candide, XVI, 126.
3.1 La razionale irrazionalità dei mercati
Nel capitolo XII della Teoria generale (“Lo stato dell’aspettativa a lungo termine”), Keynes dice una cosa molto semplice: ai mercati non interessa “compiere le migliori previsioni a lungo termine sul rendimento probabile di un investimento”, convogliando i capitali verso gli investimenti mediamente più produttivi, quelli che generano più crescita e più occupazione. Ai mercati questo non interessa non perché siano “cinici”, come talora sentiamo superficialmente dire, ma perché comportarsi in questo modo non è razionale: “sarebbe sciocco, infatti, pagare 25 per un investimento il cui reddito prospettivo sia ritenuto tale da giustificare un valore di 30, se nello spesso tempo si ritiene che il mercato lo valuterà 20 fra tre mesi”; “questo è il risultato inevitabile di mercati di investimento organizzati avendo di mira la cosiddetta ‘liquidità’”, nei quali quindi “lo scopo privato dei più esperti investitori” diventa “passare al prossimo la moneta cattiva”, in un contesto “soggetto ad ondate di ottimismo e pessimismo irragionevoli”, che la razionalità individuale non può contrastare anche perché “è cosa migliore per la reputazione fallire in modo convenzionale, anziché riuscire in modo anticonvenzionale”.
Insomma, secondo Keynes i mercati non obbediscono alla logica dei rendimenti decrescenti, ma a quella delle bolle speculative. Se un iniziale afflusso di capitali spinge verso l’alto i prezzi delle attività finanziarie e immobiliari, gli afflussi successivi sono invogliati dalla prospettiva di lucrare ulteriori immediati aumenti di prezzo, più che dal rendimento a lungo termine (dividendi, interessi). Si apre così un gioco di aspettative che si autorealizzano (compro perché mi aspetto che il prezzo cresca e comprando faccio crescere il prezzo). Il gioco dura finché nuovi entranti sono disposti a “gonfiare” la bolla col loro denaro fresco. Quando si percepisce che il gioco si è spinto troppo oltre, gli afflussi cessano, la bolla esplode, i prezzi delle attività crollano, e le banche che le hanno in bilancio o a garanzia di prestiti falliscono, o vengono salvate dagli Stati con soldi pubblici. In quest’ultimo caso è agevole far passare per fallimento dello Stato quello che in effetti è il sintomo di un fallimento del mercato, cioè l’esito socialmente irrazionale di un comportamento individuale razionale[11]. E il gioco può ricominciare.
3.2 La risposta keynesiana
Abbiamo raggiunto una prima tappa nella nostra riflessione su crisi e regole. È difficile attribuire l’intera responsabilità delle crisi finanziarie ai debitori, considerando che i creditori, soprattutto quando operano sui mercati internazionali, hanno fior di strumenti per monitorare il rischio, e quindi se decidono di prestare a soggetti che non hanno merito di credito sono quanto meno corresponsabili in caso di problemi. Ma è anche un po’ sleale attribuire una parte della responsabilità ai creditori, perché per loro è razionale comportarsi in modo miope. Viene quindi da dire, con una frase un po’ anni ’70, che “la colpa è del sistema”. Ci avviciniamo allora alla domanda che qui interessa: è riformabile il sistema? E come? O dobbiamo tenerci le crisi?
Keynes spiega perché è difficile concepire regole che scongiurino il fallimento dei mercati finanziari, cioè, in altre parole, che inducano i mercati a valutare gli investimenti solo in termini del loro rendimento nel medio-lungo periodo. Continuando a citare dal capitolo XII della Teoria Generale: per assurdo “un rimedio utile per i nostri mali contemporanei potrebbe essere quello di rendere un investimento permanente e indissolubile come il matrimonio”. Costringendo tutti gli investitori a comportarsi come “cassettisti” li si indurrebbe a effettuare scelte in base ai rendimenti a lungo termine (i futuri dividendi), anziché ai guadagni in conto capitale a breve termine: il sistema ne guadagnerebbe in stabilità e in crescita di lungo periodo. Ma c’è un problema: in un mondo dominato dall’incertezza, piuttosto che vincolare così i propri capitali, molti preferirebbero tenerli liquidi, metterli “sotto un mattone”. E l’economia crollerebbe per mancanza di fondi. Proprio questo è il “dilemma”: la liquidità del mercato (cioè la possibilità di vendere le azioni in proprio possesso in qualsiasi momento) “spesso facilita – benché talvolta ostacoli – il processo dell’investimento nuovo”.
Figura 1 – Un secolo di tasso di crescita reale dell’economia statunitense. Prima del 1947 il tasso di crescita si muoveva in un “corridoio” che andava dal +16% al –15%. Dal 1947 in poi, l’impegno dei governi occidentali nell’adottare politiche anticicliche ha ristretto i margini del corridoio dal +10% al –3%. L’ultima recessione (2010) è cinque volte meno intensa della recessione più grave del periodo fra le due guerre.
Allora non c’è niente da fare? Non è detto. Nella visione keynesiana lo Stato può arginare l’inerente instabilità del sistema capitalistico in due modi. In primo luogo, a posteriori, intervenendo con politiche anticicliche che contrastino le fasi di espansione e recessione. Ma oltre a questo, lo Stato svolge un’importante funzione stabilizzatrice anche a priori, tramite la sua opera di intermediario finanziario: il debito pubblico, se ben gestito, da secoli fornisce una opportunità di investimento appetibile per investitori avversi al rischio (come Voltaire; vedi la nota 1); una funzione simile viene svolta (implicitamente) dai sistemi di welfare. In entrambi i casi una porzione di risparmio delle famiglie viene sottratta al circuito intrinsecamente instabile della finanza privata, alla stazione di pompaggio delle bolle, e avviata ad altri impieghi, assolvendo al contempo una funzione redistributiva. Certo, si ripete che sia per il debito pubblico che per il sistema di welfare si pongono oggi problemi di sostenibilità. Ma abbiamo già segnalato come commentatori assolutamente mainstream (Shiller, Paul De Grauwe)[12] individuano la causa degli attuali squilibri della finanza pubblica nei suoi interventi a soccorso di quella privata. Al di là di questi aspetti, su cui torneremo, qui ci preme segnalare un dato storico non trascurabile: in termini di stabilizzazione la risposta keynesiana, basata su interventi anticiclici discrezionali, ha funzionato.
Guardate la Fig. 1. Il suo messaggio è chiaro: prima del secondo dopoguerra, periodo nel quale gli stati occidentali ritenevano di non dover intervenire attivamente nell’economia, il ciclo economico degli Stati Uniti oscillava entro un corridoio largo più di 30 punti, da espansioni del 15% a recessioni del 16%. A riportare il Pil sui livelli pre-crisi ci pensava molto spesso la guerra: l’espansione più grande della prima metà del secolo scorso coincide con lo scoppio della seconda guerra mondiale. I costi sociali di questo atteggiamento (la crisi del ’29, gli oltre 70 milioni di morti dell’ultimi conflitto mondiale), resero i politici più ricettivi al messaggio keynesiano e più disposti a intervenire attivamente nell’economia. A partire dal 1947 l’ampiezza del ciclo si riduce drasticamente, e soprattutto si riduce la gravità delle recessioni. Dopo aver osservato l’ampiezza del ciclo economico in assenza e in presenza di esse, risulta difficile contestare l’efficacia delle politiche attive.
3.3 Il dibattito sulle regole, ovvero “è della scienza il fin la maraviglia”
Ma a partire dagli anni ’70, in sincronia con l’oscillazione a destra del pendolo della politica statunitense, l’efficacia dell’intervento pubblico nell’economia veniva contestata dalla controriforma omodossa. Questa parte dal presupposto che siccome gli agenti economici sono razionali, cioè conoscono perfettamente il sistema economico e la probabilità degli eventi futuri (cioè il “modello vero” dell’economia), essi sono in grado di anticipare gli effetti delle politiche attive, annullandoli. Queste politiche diventano quindi inutili, anzi dannose, perché generano solo incertezza e inflazione, senza alterare l’equilibrio reale del sistema economico (e quindi, ad esempio, senza influire sulla disoccupazione)[13]. Di più, esse sarebbero impossibili da mettere in pratica, perché i modelli utilizzati per implementare le manovre non tengono conto del comportamento razionale degli individui e quindi emettono previsioni sistematicamente sbagliate: è la cosiddetta critica di Lucas[14]. Di più, viene a cadere la stessa raison d’être delle politiche anticicliche: il ciclo economico non sarebbe infatti la manifestazione dell’inerente instabilità del sistema, ma la risposta a shock esogeni, efficiente e perfettamente compatibile con l’equilibrio degli agenti economici, (per cui, ad esempio, la disoccupazione durante le recessioni sarebbe “volontaria”): è la cosiddetta teoria del real business cycle[15]. E allora (e questa è forse la conclusione che qui maggiormente interessa) le politiche anticicliche di carattere discrezionale dovrebbero essere sostituite da regole automatiche di gestione degli aggregati monetari e di finanza pubblica: è il cosiddetto dibattito rules vs. discretion[16]. E se proprio bisogna fare interventi discrezionali, allora è meglio farli in senso opposto a quello che Keynes suggerisce: come spiegano Francesco Giavazzi e Marco Pagano, per rilanciare l’economia, anziché manovre espansive, occorrono drastici tagli alla spesa pubblica[17].
L’idea che nel cielo turbolento dell’economia globale la cosa migliore da fare sia affidarsi al pilota automatico appare paradossale ma il suo trionfo accademico (sancito da una sfilza di premi Nobel[18]) non sorprende. Analizzando il successo dell’omodossia Keynes osserva: “il fatto che essa pervenisse a conclusioni del tutto diverse da quanto si aspetterebbe una comune persona non istruita, accrebbe – io penso – il suo prestigio intellettuale”[19]. Pensate a Zenone di Elea: i suoi paradossi ce li ricordiamo ancora (Achille e la tartaruga, ecc.). Ma chi ricorda più che per rispondere a un suo discepolo, che sosteneva non esistesse il movimento, Diogene “si alzò e si pose a camminare”[20]? Il fatto è che Diogene, riportando il dibattito sul piano fattuale, era accademicamente perdente, perché non scalfiva lo splendido (ancorché errato) costrutto della teoria eleatica, disobbedendo a una delle leggi non scritte di una certa produzione scientifica: quella che impone di épater les bourgeois. Una legge che per fortuna non ha generale applicazione: non ce lo vedo un magistrato a lamentarsi del fatto che una sua sentenza non sia “abbastanza controintuitiva” (il neologismo che gli economisti usano al posto di “paradossale”). Ma in un dipartimento di economia sentirete muovere spesso una critica simile a lavori propri o altrui. Quando Paul Krugman accusa gli economisti di essere dei romantici visionari[21] si sbaglia di un paio di secoli: più che a Hölderlin, la loro ricerca del “maraviglioso”, pardon, del “controintuitivo”, fa pensare a Giovambattista Marino.
La controriforma si basa sull’ipotesi di razionalità individuale: le politiche espansive sono inefficaci perché i consumatori sanno che se il governo spende in deficit, in futuro dovrà imporre tasse per ripagare il debito, e quindi cominciano a risparmiare da oggi per pagare le tasse future, delle quali conoscono esattamente ammontare e distribuzione nel tempo. Il comportamento “razionale” annulla così gli effetti della spesa pubblica. A contrario, se lo Stato spende di meno (tagliando istruzione, sanità, servizi pubblici locali…) i cittadini spenderanno di più, perché sono rassicurati dal sapere che il governo sta facendo la cosa giusta. Ma come possono spendere di più, se il governo sta togliendo loro delle risorse? Semplice: rivolgendosi a mercati finanziari efficienti (cioè indebitandosi). Ma abbiamo visto che i mercati finanziari non sono efficienti! E infatti, nota Krugman, in pratica nessuno ha mai visto politiche restrittive avere effetti espansivi, nonostante, aggiungo, il trionfo della controriforma abbia coinciso con un’esplosione dei debiti delle famiglie, negli Stati Uniti a partire dagli anni ’90, e in Europa dall’ingresso nell’euro: e sono questi i debiti all’origine della crisi[22].
Questi sono i fatti. Ma come la passeggiata di Diogene, così questa evidenza, e quella fornita dalla Fig. 1, non sono riuscite a orientare il dibattito: non erano “controintuitive”! Si è così affermato il principio dell’inefficacia, anzi, della dannosità delle politiche discrezionali, e del primato delle “regole”, viste come strumento per imbrigliare i politici, costringendoli a “fare la cosa giusta”. Un’idea ingenua (qual è “la cosa giusta”? come si fa a determinarla se la scienza economica non ha raggiunto un consenso intorno a concetti fondamentali come il livello sostenibile di debito o il livello ottimale di inflazione?), contraria al principio di realtà (perché fortunatamente nessun governo ha mai realmente rinunciato a interventi discrezionali), i cui presupposti non sono empiricamente verificati (ad esempio, la razionalità degli individui è stata smentita da numerosi studi scientifici[23], e su questo tema è stato anche assegnato un Nobel, quello a Daniel Kahneman nel 2002), e la cui stessa coerenza sul piano formale è stata autorevolmente messa in discussione[24]. Ma nonostante fosse sbagliata, l’idea del primato delle regole era politicamente, oltre che accademicamente, spendibile, soprattuttoin quei paesi nei quali la classe politica si rivelava regolarmente al di sotto delle aspettative degli elettori e dei compiti cui era chiamata (come il nostro). Di questa idea ha risentito fortemente, fra l’altro, la costituzione economica dell’Unione Europea, a partire dai parametri di Maastricht, fino alla richiesta di inserire in costituzione la regola del pareggio di bilancio. Un irrigidimento, questo, del tutto fuori luogo, anche perché nel frattempo si trascurava comme par hasard di regolare la cosa forse più importante per l’economia globale: il sistema monetario internazionale.
4. Il “non sistema monetario internazionale”
«O Pangloss! s’écria Candide, tu n’avais pas deviné cette abomination : c’en est fait, il faudra qu’à la fin je renonce à ton optimisme. – Qu’est-ce qu’optimisme ? disait Cacambo. – Hélas ! dit Candide, c’est la rage de soutenir que tout est bien quand on est mal. »
Voltaire, Candide, XIX, 55.
È un dato acquisito che il fattore scatenante della crisi europea sia stato la crisi statunitense originata dai mutui subprime. Cerchiamo di ripercorrerne la catena causale all’indietro: l’ultimo anello è il fallimento di molte famiglie americane (parliamo quindi di settore privato)che si sono trovate nell’impossibilità di rimborsare i mutui contratti. Ma perché le banche hanno prestato con tanta larghezza a debitori potenzialmente insolventi (l’eufemismo subprime indica questo)? Semplice: perché avevano tanta liquidità e, come accade, preferivano impiegarla in modo rischioso piuttosto che tenerla inoperosa. Ma perché le banche avevano così tanta liquidità? Semplice: perché tutto il mondo desidera prestare soldi agli Stati Uniti (ricordate le cifre del par. 2.4? Solo nel 2007 l’indebitamento netto con l’estero degli Stati Uniti è aumentato di 700 miliardi di dollari). Ma perché tutti desiderano prestare agli Stati Uniti?
4.1 Il dilemma di Triffin
Dobbiamo prenderla un po’ larga. Nel luglio del 1944 la conferenza di Bretton Woods adottò un sistema monetario internazionale a cambi fissi fondato sul dollaro, valuta della quale veniva garantita la convertibilità in oro, e rispetto alla quale i paesi partecipanti dichiaravano la propria parità. Il dollaro diventava così lo strumento principale di regolamento degli scambi internazionali, una decisione presa contro l’avviso della delegazione britannica, guidata da Keynes, che avrebbe viceversa preferito fondare il sistema internazionale dei pagamenti su una moneta fiduciaria (il Bancor) creata da una banca sovranazionale. Robert Mundell ricorda che nel 1867, alla vigilia della débâcle di Sedan, era stata la Francia a proporre l’unificazione del sistema monetario internazionale, ma l’Inghilterra, potenza economica dominante, si era opposta[25]. Nel 1944, grazie anche alla delirante politica monetaria di Winston Churchill, stigmatizzata da Keynes[26], gli Stati Uniti erano subentrati all’Inghilterra nel ruolo di potenza dominante, e toccò quindi a quest’ultima incassare il rifiuto.
Ma la vittoria degli Stati Uniti era foriera di gravi squilibri, previsti già nel 1960 da Robert Triffin[27]. Se il sistema monetario internazionale viene a basarsi su una valuta nazionale, il paese che la emette deve scegliere se regolarne l’emissione in funzione delle esigenze proprie o altrui. Gli Stati Uniti si trovavano a fronteggiare il seguente dilemma: decidendo di dimensionare l’offerta di dollari alle esigenze nazionali, ne avrebbero difeso il valore e garantito la convertibilità, ma avrebbero lasciato il resto del mondo senza mezzi di pagamento per soddisfare gli scambi internazionali, condannandolo alla deflazione (e compromettendo anche le proprie esportazioni); decidendo invece di stampare dollari a sufficienza per le esigenze del commercio internazionale, avrebbero evitato la deflazione mondiale, ma compromesso la convertibilità (a meno di un parallelo aumento delle riserve auree, fisicamente impossibile).
E infatti il 15 agosto 1971 il presidente Richard Nixon sospese la convertibilità in oro del dollaro statunitense, ponendo fine al sistema di Bretton Woods. L’oro ha perso rilevanza nel sistema monetario internazionale, ma il suo abbandono non ha risolto il problema, per un motivo semplice: una fuoriuscita netta di valuta da un paese è sempre la contropartita di acquisti netti di beni, cioè di un deficit delle partite correnti. Dato che il sistema monetario internazionale continua a basarsi sul dollaro, “per evitare una penuria di liquidità internazionale gli Stati Uniti dovrebbero mantenere la bilancia dei pagamenti in deficit, compromettendo la fiducia nel dollaro; d’altro canto, ovviare al deficit per rafforzare il dollaro creerebbe problemi di liquidità internazionale”[28].
4.2 Il “global saving glut”
Siamo ancora qui. Essere la “banca” del mondo ha dei vantaggi ma obbliga gli Stati Uniti a indebitarsi col mondo[29]. La crisi dei subprime è solo l’ultima manifestazione di instabilità di un sistema basato su un mezzo di pagamento che intrinsecamente tende a svalutarsi (perché la sua emissione coincide con un deficit delle partite correnti del paese emittente), ma nel quale vengono tuttavia investiti i risparmi del resto del mondo (perché con un commercio mondiale fondato sul dollaro, chi accumula surplus in dollari trova conveniente investirli negli – cioè prestarli agli – Stati Uniti, alimentando così la crescita dei consumi statunitensi e, di riflesso, delle proprie esportazioni).
Come sempre, si può vedere il bicchiere mezzo pieno. È quanto ha fatto nel 2005 il governatore della Fed Ben Bernanke in una prolusione che è rimasta celebre, affermando che il deficit strutturale degli Stati Uniti di fatto è causato dall’eccesso di risparmio (saving glut) delle economie emergenti, che essendo prive di propri mercati finanziari sufficientemente sviluppati, non possono fare altro che investire negli Stati Uniti i proventi del proprio commercio[30]. Certo, c’è del vero nell’idea che il debito estero statunitense, il più grande al mondo (attorno ai 3000 miliardi di dollari) sia reso più sostenibile dalla mancanza di impieghi alternativi per i surplus sempre più imponenti accumulati dai paesi emergenti. Alla fine il problema del debito è se sia possibile o meno rinnovarlo a scadenza, e se a scadenza non ci sono alternative credibili (l’eurozona oggi non lo è), si continuerà ad acquistare la stessa carta. Ma questa visione panglossiana urta contro una dura realtà: nessun paese, nemmeno gli Stati Uniti, ha un’offerta infinita di impieghi redditizi per i soldi che prende in prestito. E quando gli impieghi redditizi terminano, si finisce col prestare soldi per finanziare consumi o investimenti immobiliari (magari a chi non è in condizione di restituirli). Alla luce di queste considerazioni, diventano più chiare le ripetute richieste di un nuovo “Bretton Woods” emesse dai paesi emergenti (e non solo) nell’immediatezza del crollo della Lehmann Brothers[31]. Alla loro base vi era evidentemente l’idea che solo riportando la creazione della liquidità internazionale sotto il controllo di un organismo multilaterale, cioè abolendo l’attuale asimmetria del sistema monetario, si potrebbe creare un ambiente più favorevole a un’ordinata crescita mondiale[32]. Ma se dobbiamo apprendere dalla Storia, è più probabile che a fine secolo ci si trovi ad avere a che fare con un sistema monetario a base yuan (dopo sterlina e dollaro), anziché a base Bancor.
Morale: il “non sistema monetario internazionale” (Gandolfo, op. cit.), ha esposto in passato e rischia di esporre in futuro il mondo a ondate di shock finanziari. E come un velista sotto raffica evita di strozzare le scotte, per lasciarsi un margine di manovra, così sarebbe opportuno che in presenza di simili rischi la politica economica (non solo statunitense) conservasse un minimo di flessibilità. Ma questa non sembra essere la tendenza dominante.
5. La moneta unica
«Eh bien, mon cher Pangloss, lui dit Candide, quand vous avez été pendu, disséqué, roué de coups, et que vous avez ramé aux galères, avez-vous toujours pensé que tout allait le mieux du monde ? – Je suis toujours de mon premier sentiment, répondit Pangloss ; car enfin je suis philosophe, il ne me convient pas de me dédire, Leibnitz ne pouvant pas avoir tort.»
Voltaire, Candide, XXVIII, 85.
5.1 Il danno
In particolare, questa non è la strada seguita finora nella costruzione dell’Unione economica e monetaria (Uem) europea. Si arriva così all’ultimo capitolo, il più doloroso per l’autore in quanto cittadino, ma il più carico di soddisfazioni per l’economista. Perché una cosa è certa: il collasso della zona euro, rinviato, ma probabilmente inevitabile, è innanzitutto un’amara vittoria della professione economica, che attraverso i suoi esponenti più qualificati aveva messo in guardia contro i pericoli di un simile progetto, decisamente eccessivi rispetto ai benefici attesi.
Ci vuole poco a spiegarlo. Il beneficio atteso di una unione monetaria è ovvio: la riduzione dei costi di transazione dati dall’incertezza del cambio. Vige un’illusione ottica: questo vantaggio sembra rilevante, ed è quindi spendibile politicamente, perché è “vicino” al cittadino. Ma l’impatto macroeconomico è minimo[33]. In effetti, dal punto di vista macroeconomico l’idea stessa di unione monetaria è contraddittoria. A rigor di logica, se un gruppo di paesi avesse istituzioni, politiche e fondamentali macroeconomici perfettamente allineati, sarebbero tali anche i rispettivi tassi di cambio, e i costi della loro incertezza sarebbero trascurabili[34]. L’unificazione monetaria si rende quindi necessaria solo laddove i sistemi economici considerati non sono omogenei e non esistono forze che tendono a far convergere spontaneamente le rispettive valute. In altre parole, l’unificazione monetaria si rende necessaria solo laddove è dannosa, cioè solo laddove implica la rinuncia a un elemento di flessibilità (quella del cambio) utile per assorbire shock o compensare divergenze strutturali. Per questo la teoria delle aree valutarie ottimali (AVO) è esplicitamente impostata in termini di riduzione del danno, e la scienza economica ammette che la scelta dell’unificazione monetaria risponde a logiche di tipo politico, le sole in grado di giustificarla, nonostante essa venga spesso presentata (slealmente) agli elettori come una scelta di carattere tecnico-economico[35].
La scienza economica dice che la rigidità introdotta abbandonando la flessibilità del cambio deve essere compensata in altri modi, e ne indica molti: una maggiore mobilità dei fattori di produzione (come sa bene il Sud dell’Italia), una maggiore flessibilità dei salari (come sta imparando la Grecia), una maggiore diversificazione produttiva (che aiuta il paese a superare difficoltà specifiche in un determinato settore industriale – un criterio che, guarda caso, sfavorisce ancora una volta le piccole economie periferiche). Se questo manca, occorre almeno che i tassi di inflazione fra i paesi membri convergano: altrimenti i paesi a minore inflazione, potendo offrire beni a prezzi sempre più convenienti, andranno in surplus, diventando esportatori di merci e quindi di capitali verso i paesi a maggiore inflazione, che a loro volta diventeranno finanziariamente fragili (perché importatori di capitali). In assenza di un simile allineamento, bisogna che le istituzioni che governano l’economia siano progettate per poter ovviare “a valle” agli squilibri regionali, prevedendo un sistema efficiente e politicamente condiviso che in caso di crisi consenta trasferimenti dalle zone in espansione a quelle in recessione: si chiama integrazione fiscale, ed è quanto ha contribuito a tenere in piedi per 150 anni un’altra unione non particolarmente felice dal punto di vista economico, quella italiana, a prezzo di ovvie tensioni politiche[36].
Inutile ricordare che in Europa non c’è nulla di tutto questo. Mercati del lavoro e sistemi previdenziali sono disomogenei, il che spiega perché l’integrazione monetaria non ha portato a una convergenza dei fondamentali, ma ha solo facilitato il finanziamento degli squilibri in una specie di “Bretton Woods II” alla rovescia[37]: mentre a livello globale è il paese più povero (la Cina) a finanziare la propria crescita export led prestando fondi a quello più ricco (gli Stati Uniti), a livello regionale è il paese più ricco (la Germania) che finanzia la propria crescita export led prestando fondi ai paesi più poveri (quelli periferici dell’eurozona). Questi hanno così visto aumentare il proprio debito estero, mentre quello pubblico diminuiva, o restava stazionario, a riprova del fatto che la crisi trae le proprie origini dall’indebitamento dei settori privati della periferia (Fig. 2). Al primo shock importante, il sistema, finanziariamente fragile e irrigidito dalla fissità del cambio e da regole fiscali poco sensate, è andato in pezzi: l’intervento pubblico a sostegno del sistema finanziario ha trasformato il debito da privato a pubblico, anzi, pardon, “sovrano”, e ora motivi di convenienza politica suggeriscono di ignorare il fatto che nel primo decennio dell’euro le finanze pubbliche dell’eurozona si erano in effetti consolidate, e che i problemi sono sorti per l’irresponsabilità della finanza privata, che ha prestato a chi evidentemente non poteva restituire, per motivi non dissimili a quelli evidenziati già da Keynes[38].
Tutto prevedibile, tutto previsto. Rudiger Dornbusch aveva avvertito che, trasferendo il peso dell’aggiustamento dal cambio al mercato del lavoro, l’euro avrebbe condannato l’Europa a recessione e disoccupazione, mettendo alle corde in particolare l’Italia; Martin Feldstein aveva criticato come particolarmente dannosa l’assenza di procedure formali di uscita dall’eurozona, che rischiava di condurre a una accresciuta conflittualità intra-europea; perché, come diceva Paul Krugman, l’euro non è stato fatto per rendere felici tutti, ma per rendere felice la Germania, e, come incalzava Martin Feldstein, l’aspirazione francese all’uguaglianza è incompatibile con le aspettative tedesche di egemonia. E se questi problemi non vengono risolti, passare all’unione monetaria, concludeva Dominick Salvatore, è come mettere il carro davanti ai buoi[39].
Ma in Italia mettere il carro davanti ai buoi viene ancora spacciato da molti per “visione”. A pagamento.
Figura 2 – L’incremento del debito pubblico e di quello estero nei paesi periferici dell’eurozona fra il 2000 e il 2007, espresso in punti di Pil. La figura mostra che (con l’unica eccezione del Portogallo), nel periodo pre-crisi tutti questi paesi hanno ridotto il debito pubblico (Irlanda, Italia, Spagna), o lo hanno mantenuto stazionario (Grecia), mentre in tutti questi paesi è aumentata l’esposizione finanziaria verso l’estero, che quindi traeva origine dal settore privato (come nota De Grauwe, op. cit.). I dati confermano che la genesi della crisi attuale ha poco a che fare col debito “sovrano”.
5.2 Le regole che ci sono…
Il costo di questa “visione” è reso salato dalle regole che governano l’eurozona, regole che aggiungono asimmetria e rigidità a un sistema già di per sé indebitamente sclerotizzato dall’abbandono della flessibilità del cambio. Asimmetria e rigidità non fondate nella teoria economica e quindi puramente ideologiche. Ideologia, aggiungo, che trapela sia dalle regole che l’unione si è data, sia da quelle che non si è data.
Cominciando da quelle che si è data, tutti hanno sentito parlare dei criteri di convergenza di Maastricht: per entrare, e poi per restare, dentro l’eurozona, occorre (fra l’altro) che il rapporto fra deficit pubblico e Pil rimanga sotto al 3%, mentre quello fra debito pubblico e Pil deve essere inferiore al 60%[40]. La convergenza verso questi criteri è stato il “tormentone” degli anni ’90. Rimane un dato fondamentale: il requisito che i paesi appartenenti a un’unione monetaria debbano “convergere” verso dei comuni parametri fiscali non è fondato in alcuna teoria economica. In particolare, la convergenza fiscale (cioè il fatto di avere tutti lo stesso rapporto deficit/Pil) non è un requisito delle aree valutarie ottimali, che richiedono invece integrazione fiscale (cioè la possibilità di trasferire rapidamente risorse dalle aree in espansione a quelle in recessione). Un semplice riscontro ce lo conferma: la teoria delle aree valutarie ottimali è stata formulata nel 1961 da Robert Mundell[41], ma se si effettua sulla base dati bibliografica EconLit una ricerca con le chiavi “convergence” e “currency area” il lavoro scientifico più antico risale al febbraio 1992, subito dopo la firma del Trattato. Chiaro, no? L’idea che in un sistema reso rigido dall’abbandono della politica valutaria i problemi si risolvano ingessando anche la politica fiscale era tanto assurda da non poter venire nemmeno a un feticista del “controintuitivo”[42]. In effetti, è stata la politica a dettare l’agenda all’economia (e non il contrario, come ora la politica vorrebbe far credere). E l’economia ha raggiunto abbastanza presto la conclusione che le regole di convergenza fiscale, oltre a essere indebitamente stringenti in termini di sostenibilità delle finanze pubbliche[43], erano controproducenti perché incompatibili con il tasso di crescita di lungo periodo dell’economia europea, perché limitavano lo spazio di manovra dei paesi in risposta a shock, e infine perché se da una parte il loro rispetto avrebbe determinato l’annientamento fiscale (fiscal overkill)di alcuni paesi, dall’altra il mancato rispetto avrebbe minato la credibilità dell’intero Trattato[44]. Credibilità puntualmente compromessa dal fatto che la regola del debito non è stata applicata (perché applicandola si sarebbe dovuto lasciar fuori il Belgio, un paese appartenente all’area del marco), e dal fatto che il primo paese a violare la regola del deficit (nel 2002) è stato quello che aveva più insistito per imporla: la Germania[45].
Che fare la voce grossa rischi di rendere poco credibili è un dato dell’esperienza di ogni genitore assennato. Così come è esperienza di ogni insegnante che atteggiamenti da “primi della classe” minano la coesione del gruppo. E immancabilmente il Trattato di Maastricht, scritto dai “primi della classe”, premia questi atteggiamenti, ponendo i germi della disgregazione futura dell’Unione Europea. Ciò avviene stabilendo che possano accedere all’Unione solo i paesi che hanno un tasso di inflazione non superiore di più di 1.5 punti alla media dei tre “best performing” (i primi della classe, appunto). Il requisito che i tassi di inflazione dei partecipanti siano uniformi è giustificato e razionale, lo abbiamo detto sopra, ma la regola adottata ha un problema: è asimmetrica. Sposando il principio semplicistico che “l’unica inflazione buona è quella morta”, Maastricht attribuisce la patente di “primi della classe” ai paesi con l’inflazione più bassa. Ora, mentre la teoria economica non fornisce un credibile sostegno all’idea che chi ha l’inflazione più bassa sia per forza “migliore”[46], d’altra parte è certo che in una unione monetaria chi tiene la propria inflazione sistematicamente al di sotto di quelle degli altri sta praticando una svalutazione reale competitiva. Detto in altri termini: la razionalità economica vorrebbe che, in un contesto nel quale una banca centrale indipendente fissa un obiettivo di inflazione, venisse “punito” non solo chi se ne discosta al rialzo, ma anche, simmetricamente, chi se ne discosta al ribasso, perché sta attuando una politica beggar-thy-neighbour.
Ed è proprio questo l’obiettivo della Germania fin dal secondo dopoguerra, per ammissione esplicita degli stessi responsabili della sua politica economica. Già nel 1951 il presidente della futura Bundesbank, Wilhelm Vocke, affermava che “incrementare le esportazioni è vitale per noi, e ciò dipende dal mantenimento di un basso livello di prezzi e di salari… Mantenere il livello dei prezzi inferiore a quello degli altri paesi è l’obiettivo principale dei nostri sforzi[47].” Non volete andare così indietro nel tempo? Allora leggete sul Corriere della Sera del 4 dicembre 2011 l’intervista a Roland Berger, consulente del governo Merkel: sono i “sacrifici” dei lavoratori tedeschi fra il 2000 e il 2010 che hanno permesso ai prezzi dei prodotti tedeschi di diminuire del 18.2% rispetto a quelli dell’eurozona, aumentando competitività ed esportazioni tedesche. Da 60 anni a questa parte la politica economica tedesca persegue il current account targeting: l’obiettivo dichiarato è quello di avere sempre un po’ meno inflazione degli altri, per poter essere sempre in surplus e accumulare crediti verso il resto dell’Europa. Che sono debiti (per lo più privati) del resto dell’Europa. Questa non è la logica di una unione.
5.3 Tafazzi vs. Vocke
Ma alla lucida determinazione dei Vocke e dei Berger, nell’opinione pubblica italiana si contrappone l’esterofilia un po’ provinciale e un po’ masochista, alla Tafazzi, di chi obietta: “non è colpa dei tedeschi se riescono ad essere più bravi di noi?”[48]. Le cose che non vanno, e che rendono la regola di Maastricht sull’inflazione se possibile più dannosa delle regole fiscali, sono almeno tre: primo, che non esiste un criterio scientificamente fondato che determini il tasso di inflazione “ottimo”, e consenta quindi di stabilire se chi ha meno inflazione degli altri è più “bravo” o semplicemente più furbo; secondo, che il perseguimento dell’obiettivo di inflazione minima richiede politiche di estrema moderazione salariale (lo dice Vocke, lo dice Berger), e mentre un paese sovrano è libero di adottare simili politiche a casa propria, in un’unione monetaria gli altri paesi si vedono costretti ad adottarle per non soccombere, anche se non riflettono le preferenze dei suoi cittadini, il che è inaccettabile[49]; terzo, che se pure tutti i paesi volessero giocare al gioco dei “sacrifici”, lo scopo dichiarato dell’euro era quello di unirsi per essere più competitivi nei riguardi del resto del mondo, e non per farsi una guerra commerciale reciproca a suon di deflazioni competitive.
Questo gioco è necessariamente a somma zero. Lo prova il fatto che mentre nell’ultimo decennio i surplus di Giappone e Cina sono decollati, la posizione netta dell’eurozona è cambiata di poco (e in peggio): certo, finché le esportazioni della Germania sono le importazioni di Italia e Spagna, è chiaro che il risultato commerciale complessivo sarà nullo. Il dizionario dei luoghi comuni economici prevede che ogni “svalutazione” sia “competitiva”, associando a quella che in fondo è una manifestazione della legge della domanda e dell’offerta di valuta un giudizio morale fortemente negativo. Mentre la svalutazione del lavoro, attraverso tagli dei salari, sarebbe indice di virtù, quella del cambio nominale, si tende a far credere, sarebbe una pratica intrinsecamente sleale e masturbatoria, poiché arreca un sollievo temporaneo e sterile, i cui effetti sarebbero immediatamente neutralizzati dal Nemico: l’inflazione. Ma se la svalutazione è una cosa così turpe, allora il suo contrario, la rivalutazione, sarà una cosa bella, e allora povera Germania, con i suoi surplus crescenti: che rinuncia dolorosa sarà stata per lei l’essersi privata della possibilità di rivalutare! In realtà la Germania non vuole rivalutare, come dovrebbe naturalmente avvenire secondo la legge della domanda e dell’offerta, perché questo significherebbe compromettere la sua politica beggar-thy-neighbour. Insomma: dobbiamo riconoscere che per i paesi aggrediti dal current account targeting della Germania la svalutazione ha avuto soprattutto un legittimo valore difensivo. La difesa ha funzionato, finché ha potuto, anche perché gli effetti della svalutazione sui prezzi interni non sono così meccanici come alcune analisi superficiali o tendenziose vogliono far credere (rinviamo all’op. cit. di Gandolfo). Basti pensare che dopo l’ultima svalutazione nominale di circa il 20%, nel 1992, il tasso di inflazione dell’Italia scese dal 5% al 4%, al punto che perfino l’attuale premier, Mario Monti, ne riconobbe senza difficoltà gli effetti sostanzialmente positivi per l’economia italiana[50]. Ma in assenza di una simile possibilità di reazione, l’adozione di regole asimmetriche sull’obiettivo di stabilità dei prezzi non poteva che condurre dove ha condotto, cioè al dissesto finanziario della periferia.
5.4 Le regole che non ci sono
Veniamo così a parlare di una regola che non c’è. La discussione precedente ha cercato di evidenziare quanto fosse prevedibile che la rinuncia allo strumento del cambio avrebbe portato all’accumulazione di debito estero: Marcus Fleming aveva adombrato questi esiti fin dal 1971[51]. E in effetti le cose sono andate così. La Germania, che nel decennio seguito al crollo del muro di Berlino aveva visto scendere dal 22% allo 0% del Pil le sue attività nette sull’estero (in conseguenza degli afflussi di capitali – debiti – necessari per finanziare l’unificazione), dall’ingresso dell’euro all’inizio della crisi le ha viste risalire fino al 26% del Pil (circa 900 miliardi di dollari), a spese di un simmetrico incremento dei debiti dei paesi periferici. Dopo l’inevitabile crisi alcuni economisti hanno lamentato la mancanza di una regola che disciplinasse l’indebitamento estero dei paesi dell’eurozona, tramite un “patto di stabilità esterna”[52].
Un’osservazione tanto impeccabile dal punto di vista dottrinale (visto che ormai ovunque si concorda sul fatto che la crisi dell’eurozona è causata dagli sbilanci esterni, non da quelli pubblici[53]), quanto naïve dal punto di vista politico. Perché il Trattato di Maastricht, all’art. 109j(1), già considera l’indebitamento estero nel monitoraggio del processo di convergenza. E siccome il problema era noto, il fatto che non sia stata definita una regola quantitativa, come quella del 3% per il deficit pubblico, significa una sola cosa: che non la si voleva (e non la si vuole) definire. Questo per almeno due motivi: primo, perché se “calmierare” il deficit pubblico significa limitare l’intervento dello Stato nell’economia (aprioristicamente considerato dannoso), “calmierare” il deficit esterno significherebbe intralciare i movimenti di capitale privati (che l’omodossia vede come sempre e comunque forieri di buona crescita); secondo, perché nell’elaborazione delle regole di Maastricht ha predominato politicamente il blocco dei paesi dell’area marco, guidati dalla Germania. E chi si aspetta di essere in surplus ovviamente non ha interesse a contenere i deficit altrui! As simple as that.
Sbilanci esteri persistenti possono presentarsi in ogni sistema di cambi fissi. Il problema se lo erano posto anche a Bretton Woods, dove la delegazione britannica, della quale facevano parte Keynes e Roy Harrod, propose come soluzione la cosiddetta “clausola della valuta scarsa”. Questa prevede che quando un paese ha un surplus persistente, tale da compromettere la capacità dei suoi partner di finanziare i propri deficit, e quella del Fondo di sostenerli finanziariamente, il Fondo possa dichiarare “scarsa” la valuta di quel paese, autorizzando così gli altri paesi ad attuare misure protettive nei riguardi del paese in surplus[54]. Nonostante gli Stati Uniti nel 1944 fossero certi di essere nel prossimo futuro il paese in surplus (per il semplice fatto che erano l’unico paese importante con la struttura produttiva ancora intatta), ebbero la saggezza di accettare questa clausola. Ma nel 1944 si poteva constatare de visu dove avesse condotto l’intransigenza francese a Versailles, stigmatizzata da Keynes nei citati Essays on persuasions: “una politica che riducesse la Germania in servitù per una generazione, o che degradasse milioni di esseri umani, o che privasse di gioia un intero popolo, sarebbe da rifuggire e con paura: da rifuggire e con paura anche se fosse attuabile, anche se ci rifacesse più ricchi, anche se non preparasse il crollo di tutta la civiltà europea”. Era il 1919. In un secolo la situazione si è rovesciata e la memoria di dove può condurre la cattiva gestione di una vittoria si è persa. Ed è ora la Germania a propugnare simili politiche, ad esigere l’impoverimento e la degradazione di milioni di esseri umani, senza ricordare perché e con chi sono stati contratti certi debiti, senza chiedersi se chi deve pagare è in condizioni di farlo, e senza ascoltare le voci autorevoli, come quella di Helmut Schmidt, che dal suo interno si levano per stigmatizzare l’assurdità e la miopia di questo comportamento.
6. Conclusioni
«Tous les événemens sont enchainés dans le meilleur des mondes possibles : car enfin, si vous n’aviez pas été chassé d’un beau château, à grand coups de pied dans le derrière, pour l’amour de mademoiselle Cunégonde, si vous n’aviez pas été mis à l’Inquisition, si vous n’aviez pas couru l’Amérique à pied, si vous n’aviez pas donné un bon coup d’épée au baron, si vous n’aviez pas perdu tous vos moutons du bon pays d’Eldorado, vous ne mangeriez pas ici des cedrats confits et des pistaches. – Cela est bien dit, répondit Candide, mais il faut cultiver notre jardin.»
Voltaire, Candide, XXX, 155.
Al termine di un percorso che ha toccato molti temi, dobbiamo trarre una sintesi e lo facciamo concentrandoci sulla più immediata attualità, dominata dalla crisi dell’eurozona, insistendo sul tema delle regole.
Imponendo una moneta unica a una regione che non costituisce un’AVO i politici europei hanno esposto i paesi periferici di questa zona al prevedibile rischio di una crisi che, nata nella finanza privata, per motivi di tattica politica viene presentata come un problema di finanza pubblica. Il rischio si è materializzato anche per l’irrazionalità delle regole dettate per scongiurarlo: l’asimmetria delle regole sull’inflazione, e l’immotivata rigidità delle regole fiscali. Fare la voce grossa serve solo a perdere credibilità: quello che ognuno di noi capisce nella sua famiglia, è ora che tutti insieme lo capiamo nel nostro continente. Ma dobbiamo rassegnarci: come Candido, anche noi difficilmente riusciremo a riportare alla ragione i partigiani dell’armonia finanziaria prestabilita, soprattutto perché, a differenza del povero Pangloss, è improbabile che essi siano tutti in buona fede. Ma, come Candido, anche noi abbiamo un giardino da coltivare, il “giardin dell’impero”. E allora occorre fare delle proposte e darsi una direzione.
Sono ormai molti a percepire come esito inevitabile la disgregazione dell’euro. I costi di questo evento, enfatizzati dai media, atterriscono l’opinione pubblica, e così anche chi è convinto dell’insostenibilità dell’euro si chiede se non ci sia qualcosa da fare per salvare la baracca. Proposte in tal senso abbondano. Temo le si possa classificare in tre categorie: quelle assurde, quelle inefficaci, e quelle irrealizzabili.
Sono chiaramente assurde le proposte di “rafforzamento” del Patto di stabilità. Esse ci ripropongono lo spettacolo stantio e indecoroso di un paese che fa la voce grossa per imporre regole che sa di non poter né voler rispettare. In particolare, la cosiddetta “unione” fiscale propugnata dalla Germania, si articola su un rafforzamento della “convergenza” fiscale, tramite l’inserimento nelle costituzioni dei paesi membri dell’eurozona del principio di pareggio del bilancio, cioè, in definitiva sul portare da 3% a 0% il parametro sul deficit, rendendo meno discrezionali le sanzioni in caso di sforamento, e attribuendo anche formalmente ai paesi virtuosi quel potere di “polizia fiscale” che già stanno esercitando in pratica. Il rafforzamento di una regola già discreditata e disapplicata serve solo a renderla ancora meno credibile e fondata nella teoria economica. L’aritmetica del debito pubblico mostra che il pareggio del bilancio azzera il rapporto debito/Pil nel lungo periodo. Esso quindi mira non tanto a limitare l’intervento pubblico nell’economia, riducendone le capacità di finanziamento, quanto a eliminare completamente l’opera di intermediario finanziario dello Stato, togliendo di mezzo quella forma di investimento finanziario risk free (almeno, finché gli Stati non devono salvare la banche private) costituita dai titoli di Stato.
In questa follia c’è del metodo, illustrato bene da Julie Froud e dai suoi coautori in un saggio tanto premonitore quanto ignorato nel dibattito successivo[55]. Analizzando la matrice dei flussi di fondi degli Stati Uniti, essi notano come nel periodo 1980-98 (che copre, fra l’altro, la fase iniziale della New Economy), le imprese americane hanno di fatto autofinanziato la loro acquisizione di capitale produttivo. I risparmi delle famiglie convogliati verso il loro circuito finanziario (per 5000 miliardi di dollari) quindi non sono serviti ad acquistare capitale produttivo, ma attività finanziarie generate da operazioni di fusione e acquisizione, hanno cioè alimentato una bolla finanziaria, materializzatasi in enormi plusvalenze (differenze fra prezzo di acquisto e valore contabile di una società). È soprattutto in questo modo che l’aumento della scala delle imprese, realizzato tramite le fusioni, ha contribuito a creare valore: attraverso l’acquisto a prezzi maggiorati da parte dei late comers della carta nella quale gli early joiners avevano investito i propri risparmi, in una sorta di gigantesco schema di Ponzi. Ma uno schema di Ponzi regge solo finché ci sono nuovi entranti[56]. L’economia delle bolle ha bisogno di denaro fresco: smantellamento dei sistemi pensionistici di tipo retributivo e azzeramento del debito pubblico sono un mezzo efficace per renderlo disponibile. Dietro la regola del pareggio c’è anche, consapevole o meno, la spinta verso una ulteriore “americanizzazione” del circuito del risparmio europeo, con l’inevitabile aumento della diseguaglianza che questo processo porta con sé[57].
Sono inefficaci certe proposte di “più Europa” care alle forze che si definiscono “europeiste”, come la proposta di un cambiamento di statuto della Bce, che dovrebbe diventare “più simile” alla Fed americana, inserendo fra i propri obiettivi la crescita e, soprattutto, intervenendo come lender of last resort nei riguardi degli Stati in difficoltà. Intanto c’è da capire perché l’opera di prestatore di ultima istanza dovrebbe svolgersi a beneficio degli Stati sovrani, dopo che questi si sono indebitati per salvare le banche private, anziché rivolgersi direttamente a queste ultime. Ma tralasciando questo aspetto, rimane il fatto che se il problema sono gli squilibri regionali, nessuna politica centrale potrà ovviare ad essi. A cosa è servito, per colmare il divario Nord-Sud italiano, disporre di una Banca d’Italia che fino agli anni ’80 interveniva sul mercato primario dei titoli? L’idea che moneta unica significhi inflazione unica è figlia di una concezione ottocentesca dell’inflazione, quella secondo la quale è la moneta a “causare” il livello dei prezzi. Ma le analisi teoriche ed empiriche a partire dal secondo dopoguerra hanno confermato il ruolo cruciale del mercato del lavoro nel determinare la dinamica dei prezzi[58]. E con un mercato europeo del lavoro segmentato per motivi culturali e istituzionali la Bce, da Francoforte, può fare molto poco per comporre i differenziali di competitività che hanno messo in ginocchio la periferia.
Sono improponibili, anche se non insensate teoricamente, altre proposte di “più Europa”, quelle che passano attraverso l’idea di una maggiore “unione” fiscale, vuoi nel senso di “integrazione” (dotare il bilancio della Commissione di più risorse e di meccanismi per ridistribuirle in senso anticiclico, come richiesto fin da Kenen, op. cit.), vuoi nel senso di “coordinamento” (mantenere bilanci separati, ma creare meccanismi che inducano chi si trova in posizione di surplus esterno a stimolare la crescita con la propria domanda interna). In effetti l’integrazione fiscale è uno dei motivi di tenuta dell’unione monetaria statunitense, come notano fra gli altri Tamim Bayoumi e Paul Masson, o Xavier Sala-i-Martin e Jeffrey Sachs. Dai loro studi risulta che il bilancio federale compensa in media per più di un terzo gli shock avversi ai redditi individuali (attraverso riduzioni di imposte o aumenti di trasferimenti), contribuendo così a bilanciare gli squilibri regionali[59]. Meccanismi di questo tipo, che intervengano “a valle” degli squilibri, sono politicamente improponibili in Europa, dove il dibattito politico è condizionato dall’atteggiamento falsamente moralistico dei paesi del centro. Per la classe politica di questi paesi è ormai impossibile richiedere all’elettorato atteggiamenti cooperativi con chi finora è stato additato, per motivi di tattica politica interna, come origine della crisi. Nessun politico tedesco potrà mai fare in queste condizioni “la cosa giusta” (ovvero spendere di più, trasformando la Germania in una locomotiva che tira nella direzione giusta[60]), anche se questo migliorerebbe la posizione del suo stesso elettorato: se ci provasse, si vedrebbe immediatamente fare lo sgambetto dal politico della parte opposta, che avrebbe buon gioco a deplorare la prodigalità dell’avversario. E destra e sinistra in questo gioco si equivalgono.
Capisco che questa disamina sia deludente, ma temo non ci si possa sottrarre al fatto che si è voluto usare la moneta (o meglio, il feticcio della rigidità del cambio) come strumento di dominio e sopraffazione (Vocke docet), anziché di cooperazione e integrazione. E in mancanza di volontà politica, la tecnica ha il fiato corto. Forse l’unico accorgimento che potrebbe contribuire a tenere insieme i cocci è quello proposto da Christian Farholz e Cezary Wojcich: dotare l’Unione di regole di uscita, che ridurrebbero i problemi di moral hazard della costruzione europea, rendendo più credibile l’impegno degli Stati membri[61].
Ma siamo sicuri che tenere insieme i cocci sia un obiettivo degno di essere perseguito? Non vorrei, nel trarre le conclusioni, essere offuscato dall’atteggiamento mentalmente ristretto del “tecnico” che vede offesi dai “politici” i principi della propria disciplina. Il rischio di soggiacere a questa mancanza di visione, certo, esiste. Ma, ripeto, dove ci ha portato il magnanimo disprezzo di una certa classe politica verso i suggerimenti della tecnica economica? Col senno di poi, non sarebbe stato meglio avviare la costruzione europea su basi diverse, quelle suggerite dalla “tecnica”, e quindi procedere dalla (vera) integrazione dei sistemi educativi, dei mercati del lavoro, dei sistemi previdenziali, ponendo le basi per una vera mobilità dei fattori, passare quindi a un bilancio federale che gestisse politiche infrastrutturali, di ricerca e redistributive comuni, e, poi, dopo, eventualmente, passare alla moneta unica? È questo “difetto di visione”?
E allora, forse la conclusione è che la cosa più onesta e meno distruttiva da fare, anziché invocare regole di chiara matrice ideologica, è riconoscere l’errore, pagare per esso, sopportando i costi dell’uscita dall’euro, per poi eventualmente riprendere su basi più corrette il percorso verso di esso. Posto che se ne abbia nostalgia.
§ Ringrazio Roberta Capasso e Alessandro Cianci per gli utili suggerimenti, e i lettori del mio blog http://goofynomics.blogspot.com, in particolare Sergio Polini, per le molte segnalazioni e i molti stimoli. La responsabilità di ogni residuo errore è naturalmente mia.
[1] Una lettura piacevole e istruttiva in tal senso è il capitolo IV (parte seconda) di Carlo Maria Cipolla (1974), Storia economica dell’Europa preindustriale, Bologna: Il Mulino (nuova edizione 2002), con i riferimenti ivi citati. Sfogliando il Candide per controllare le citazioni leggo che nel 1757 Voltaire aveva prestato 130.000 livres all’elettore palatino (al tasso del 10%): i movimenti internazionali di capitali si annidano dove non te li aspetti! L’edizione è quella critica a cura di René Pomeau, Parigi: Nizet, 1959.
[2] La bilancia dei pagamenti si basa sul principio della partita doppia, e quindi a ogni registrazione a credito corrisponde una uguale registrazione a debito. Nel caso che qui interessa, all’accreditamento/indebitamento espresso dal saldo delle partite correnti faranno riscontro registrazioni di segno opposto nel cosiddetto “conto finanziario”. In questo conto le importazioni di capitale sono registrate col segno più e le esportazioni col segno meno. I debiti hanno segno positivo perché la bilancia dei pagamenti è redatta con un criterio di cassa: quando la valuta entra il segno è positivo, e indebitarsi è uno dei modi per far entrare valuta in un paese.
[3] Me ne sono occupato in Bagnai (1996) “La sostenibilità del debito pubblico: definizioni e criteri di verifica empirica”, Economia Politica, pp. 13-52. Una rassegna più recente è quella di Nigel Chalk e Richard Hemming (2000) “Assessing fiscal sustainability in theory and practice”, IMF Working Paper, N. 81, Washington: International Monetary Fund. La teoria della sostenibilità si basa sulla nozione di vincolo di bilancio intertemporale, che a sua volta riposa sull’ipotesi di razionalità delle aspettative (cioè sull’ipotesi che la struttura dell’economia sia perfettamente nota agli operatori). Il carattere estremamente stringente di questa ipotesi svuota la teoria della sostenibilità di contenuto empirico.
[4] Questa regolarità è comprovata da decine di studi. Si veda ad esempio Alberto Bagnai (2006) “Structural breaks and the twin deficit hypothesis”, International Economics and Economic Policy, vol. 3, pp. 137-155; Leonardo Bartolini e Amartya Lahiri (2006) “Twin deficits, twenty year later”, Current Issues in Economics and Finance, vol. 12, n. 7; Dominick Salvatore (2006) “Twin deficits in the G-7 countries and global structural imbalances”, Journal of Policy Modeling, vol. 28, pp. 701-712, e i numerosi riferimenti contenuti in questi studi.
[6] Per capirci: se l’ultimo assunto (l’operaio “marginale”) produce 10, remunerandolo 12 evidentemente ci rimetto 2, e il mio profitto diminuisce, per cui a queste condizioni preferisco non assumerlo; se la remunerazione prevalente invece è 8, allora posso assumere non solo lui (che aggiunge 10-8=2 al mio profitto), ma magari anche altri operai, finché i loro contributi marginali sono maggiori di 8. L’idea che i fattori di produzione siamo remunerati alla loro produttività marginale tende a proporre la dinamica dei salari e la distribuzione del reddito come un dato tecnico, legato alle tecnologie di produzione prevalenti. Un pensiero certo non sgradito a quella che John Maynard Keynes chiamava la “dominant social force behind authority” (John Maynard Keynes, 1936, The general theory of employment, interest and money, Londra: Macmillan, edizione italiana a cura di Alberto Campolongo, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino: Utet, 1971).
[7] L’offerta netta complessiva di risparmio è calcolata come somma dei surplus delle partite correnti, espressi in miliardi di dollari a prezzi correnti. I dati provengono dalla base dati del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale, edizione settembre 2011, accessibile all’indirizzo web http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2011/02/weodata/index.aspx.
[8] Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi (2002), “Current account deficits in the Euro area: the end of the Feldstein-Horioka puzzle?”, Brookings Papers on Economic Activity, No. 2. Una posizione critica è espressa da Emiliano Brancaccio (2008) “Deficit commerciale, crisi di bilancio e politica deflazionista”, Studi Economici, No. 96.
[9] Portogallo, Grecia e Spagna continuano a occupare le ultime posizioni nella graduatoria del reddito pro-capite, mentre, ad esempio, la Finlandia (per restare ai paesi periferici) ha scalato due posizioni, passando dall’87% al 103% del reddito medio europeo, pur essendo un prestatore netto di fondi. In generale, la dispersione dei redditi europei attorno alla media è aumentata nel periodo in cui trovava compimento l’integrazione finanziaria dell’eurozona.
[10] L’indebitamento estero netto della Grecia era 2 miliardi di dollari nel 1993 (il 2% del Pil) e 45 miliardi nel 2007 (il 14% del Pil); quello del Portogallo era praticamente nullo nel 1993 e ha raggiunto i 23 miliardi di dollari (il 10% del Pil) nel 2007; quello della Spagna è cresciuto nello stesso periodo da 5 a 144 miliardi di dollari (cioè dall’1% al 10% del Pil).
[11] Va osservato che l’idea che i mercati finanziari privati siano dominati da comportamenti intrinsecamente irrazionali è tutt’altro che eterodossa. Questo dato di fatto è ben chiaro a autori ben inseriti nel cosiddetto mainstream, quali ad esempio Werner De Bondt e Richard Thaler (1985) “Does the stock market overreact”, Journal of Finance, vol. 40, pp. 793-805, o più recentemente Irrational Exuberance, Princeton University Press (2000), di Robert Shiller, professore di economia a Yale (se non è mainstream questo!).
[20] Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Bari: Laterza, 1976, vol. 1, p. 217. Anche gli stoici negavano il movimento, quindi il riferimento agli eleatici potrebbe essere scorretto: perdonate l’eventuale forzatura retorica, e lo sfoggio di erudizione, che però serve a ricordare come le idee sbagliate abbiano sempre catalizzato un grande consenso, purché fossero paradossali!
[21] Paul Krugman (2011) “Boring cruel romantics”, http://www.nytimes.com/2011/11/21/opinion/ boring-cruel-euro-romantics.html.
[22] Il debito (passività finanziarie lorde) delle famiglie statunitensi è costantemente aumentato dal 66% al 135% del loro reddito disponibile nel periodo 1984-2007 (fonte: Flow of Funds Accounts of the United States, Federal Reserve, http://www.federalreserve.gov/releases/z1/); quello delle famiglie italiane è passato dal 45% nel 1999 al 75% nel 2007 (fonte: Base Informativa Pubblica della Banca d’Italia).
[24] L’inconsistenza degli argomenti a favore delle regole fisse, anche in caso di perfetta razionalità individuale, era stata dimostrata da Willem Buiter in due lavori: “The macroeconomics of Dr Pangloss – A critical survey of the New Classical Macroeconomics”, The Economic Journal, vol. 90, pp. 34-50 (1980), e “The superiority of contingent rules over fixed rules in models with rational expectations”, The Economic Journal, vol. 91, 647-670 (1981).
[30] Ben Bernanke (2005) “The global saving glut and the US current account deficit”, prolusione tenuta il 10 marzo 2005 alla Virginia Association of Economists, Richmond, Virginia. L’ipotesi di Bernanke è sostanzialmente allineata alla cosiddetta “ipotesi del secondo Bretton Woods”, avanzata da Michael Dooley e dai suoi coautori, secondo cui fra l’economia statunitense e i paesi emergenti si sarebbe creato un sistema di cambi fissi de facto, la cui stabilità sarebbe garantita dal fatto che tutti i partecipanti vi trovano un tornaconto: i paesi emergenti lo trovano nel fatto di poter esportare prodotti e capitali verso gli Stati Uniti, stimolando la propria crescita basata sulle esportazioni; gli Stati Uniti lo trovano nel fatto di poter disporre di capitali a buon mercato, con i quali finanziare la propria crescita basata sui consumi interni (Michael Dooley, David Folkerts-Landau, Peter Garber, 2004, “The revived Bretton Woods system”, International Journal of Finance and Economics, vol. 9, 307-313.
[33] Nel 1993 Barry Eichengreen ricordava che secondo Michael Emerson et al. (“One market one money”, European Economy, vol. 44, 1990) il risparmio di costi di transazione sarebbe stato di appena lo 0.4% del Pil europeo, una cifra che lo stesso Eichengreen definisce “inadeguata per un progetto così incerto e rischioso” (Barry Eichengreen, “European Monetary Unification”, Journal of Economic Literature, vol. 31, pp. 1321-1357, 1993). Si consideri che lo studio di Emerson era probabilmente viziato da un conflitto di interessi e distorto nel senso di fornire una valutazione ottimistica, essendo finanziato dalla Commissione Europea. Quanto ai benefici sul commercio della riduzione dell’incertezza di cambio, gli studi disponibili all’epoca li quantificavano in pochi punti decimali di Pil (sempre Eichengreen, op. cit.). Questo non sorprende, visto che il passaggio a un “non sistema” di cambi flessibili dal 1971 non aveva influito sulla crescita del commercio mondiale. Un successivo studio di Andrew Rose (“One money, one market: the effect of common currencies on trade”, Economic Policy, vol. 15, pp. 7-46, 2000) ha emesso valutazioni molto più ottimistiche, stimando che l’ingresso in una unione monetaria in media porti a triplicare il volume del commercio fra i paesi membri. Questa evidenza, oltre che dal senso comune, è messa in discussione dal lavoro di Richard Baldwin (In or out:does it matter?An evidence based analysis of the euro’s trade effect, Londra: Centre for Economic Policy Research, 2006), il quale, sulla base dei dati riferiti all’esperienza dell’Eurozona, nota come l’effetto dell’euro sul commercio europeo sia stato molto inferiore (intorno al 9%), e non abbia condotto a un sensibile aumento della competitività dell’area (le cui esportazioni nette verso il resto del mondo sono leggermente diminuite).
[36] L’importanza della mobilità dei fattori è centrale nello studio che ha valso a Robert Mundell il premio Nobel per l’economia (“Theory of optimum currency areas”, American Economic Review, vol. 51, pp. 657-665, 1961), quella della flessibilità dei salari era stata evidenziata da Milton Friedman (“The case for flexible exchange rates”, in Essays in Positive Economics, Chicago: University of Chicago Press, pp. 157-203, 1953), quella della diversificazione produttiva e dell’integrazione fiscale da Peter Kenen (“The theory of Optimum Currency Areas: an eclectic view”, in Robert Mundell e Alexander Swoboda, Monetary Problems of the International Economy, Chicago: University of Chicago Press, pp. 41-60, 1969), quella dell’allineamento dei tassi di inflazione da Marcus Fleming (“On exchange rate unification”, Economic Journal, vol. 81, pp. 467-488, 1971).
[39] Rudiger Dornbusch (1996) “Euro fantasies”, Foreign Affairs, vol. 75, n. 5, pp. 110-124; Martin Feldstein (1997) “EMU and international conflict”, Foreign Affairs, vol. 76, n. 6, pp. 60-73; Paul Krugman (1998) “The euro: beware of what you wish for”, Fortune, http://web.mit.edu/ krugman/www/euronote.html; Dominick Salvatore (1997) “The common unresolved problems within EMS and the EMU”, American Economic Review, vol. 87, n. 2, pp. 224-226.
[40] L’esigenza di evitare deficit “eccessivi” è espressa dall’articolo 104c del Trattato sull’Unione Europea (http://eur-lex.europa.eu/en/treaties/dat/11992M/htm/11992M.html); i valori di riferimento sono specificati dall’articolo 1 del Protocollo sulla procedura contro i deficit eccessivi, annesso al trattato. Risparmio la storia degli sviluppi successivi (Patto di stabilità e crescita), perché nota e ampiamente superata dagli eventi, come accenneremo nel testo.
[42] Il modello standard per l’analisi di una economia aperta (modello di Mundell-Fleming), segnala che in caso di rigidità del cambio e perfetta mobilità dei capitali la politica fiscale è particolarmente efficace, e quindi, a contrario, vincolarla in modo arbitrario è particolarmente dannoso, come l’esperienza odierna conferma (Marcus Fleming, 1962, “Domestic financial policies under fixed and floating exchange rates”, IMF Staff Papers, vol. 9, pp. 369–379).
[43] Ricordiamo che non esiste una teoria universalmente accettata della sostenibilità del debito pubblico, e che il criterio più utilizzato dall’omodossia, quello del cosiddetto “vincolo di bilancio intertemporale”, considera come sostenibili anche traiettorie lungo le quali il rapporto debito/Pil non converge a una costante data (si veda il mio studio citato del 1996).
[46] Mohsin Khan e Abdelhak Senhadji del Fondo Monetario Internazionale (un’istituzione certo non “eterodossa” o “antagonista”) stabiliscono che nei paesi industrializzati l’inflazione comincia ad avere effetti depressivi sulla crescita quando supera il 4% all’anno (vale a dire il doppio del target della Bce), e questi effetti sono comunque contenuti, in ragione di circa 0.1 punti di crescita in meno per ogni punto di inflazione in più (“Threshold effects in the relationship between inflation and growth”, IMF Working Papers, n. 110, Washington: IMF, 2000).
[49] Ricordiamo che dal 1999 al 2007 la Germania ha avuto in media un punto di tasso di disoccupazione in più rispetto all’Italia (fonte: Fmi, http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2011/02/ weodata/download.aspx), il che ha “favorito” una discesa dei suoi salari di circa il 6% in termini reali, mentre i salari reali italiani restavano costanti (fonte: Ocse, http://stats.oecd.org/index.aspx).
[53] Il consenso va da economisti accademici come Barry Eichengreen (2010) “Imbalances in the euro area”, http://elsa.berkeley.edu/~eichengr/Imbalances_Euro_Area_5-23-11.pdf, o Martin Wolff (2011) “Merkozy failed to save the eurozone”, Financial Times,, 6 dicembre, ad economisti applicati come Thomas Mayer (2011) “Euroland’s hidden balance-of-payment crisis”, Deutsche Bank Research EU Monitor, n. 88 (si noti, su sponde opposte dell’Atlantico).
[54] La si trova negli Statuti del Fondo: http://www.imf.org/external/pubs/ft/aa/index.htm#art7.
[58] Più dei dibattiti teorici, mi sembra conclusivo in tal senso il fatto che i ricercatori che emettono previsioni economiche si affidano sempre di più alla curva di Phillips (la relazione “keynesiana” fra inflazione e disoccupazione), il che indica un elevato grado di consenso nella professione; si vedano Ralf Fender, Eliza Lis e Jan-Christoph Rulke (2011) “Do professional forecasters believe in the Phillips curve? Evidence from the G7 countries”, Journal of Forecasting, vol. 30, pp. 268-287.
[59] Tamim Bayoumi e Paul Masson (1995) “Fiscal flows in the U.S. and Canada: lessons for monetary union in Europe”, European Economic Review, vol. 39, pp. 253-274; Xavier Sala-i-Martin e Jeffrey Sachs (1991), “Fiscal federalism and Optimum Currency Areas: evidence for Europe from the United States”, National Bureau of Economic Research Working Paper, n. 3855.
[60] Si veda Sergio De Nardis (2010) “Se la locomotiva va nella direzione sbagliata”, http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001966-351.html.
[61] Christian Fahrholz e Cezary Wójcik, (2011) “Bail-out! A positive political economics of a Greek type crisis in EMU”, CESifo Working Paper, n. 3178, e “The Eurozone needs exit rules”, http://www.voxeu.org/index.php?q=node/7184.
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