Consigliamo questo articolo come sintomo di un malessere in campo avverso, non certo come materia da cui trarre “consigli”.
I tagli imposti dai governi hanno avuto enormi costi economici e sociali in Europa. Bisogna cambiare rotta prima che la stagnazione e il caos politico diventino inevitabili
Gli eventi degli ultimi giorni nell’eurozona lanciano un serio avvertimento sulle conseguenze dell’austerità e dell’individualismo. Sono la dimostrazione di quello che succede quando si mette la finanza al di sopra dell’economia e della società. Ora i mercati stanno scommettendo non solo sul crollo dell’euro, ma sull’arrivo di un nuovo medioevo economico. L’economia mondiale è sempre più vicina all’orlo dell’abisso e i politici sono paralizzati dalle loro stupide teorie. Come dice Yanis Varoufakis, collaboratore dell’ex primo ministro greco Giorgos Papandreou e ora professore di economia negli Stati Uniti, “non c’è nessuna possibilità che l’austerità funzioni. È come pensare di poter sfuggire alla forza di gravità agitando le braccia”. I segni della crisi vanno dalle mense per i poveri di Atene alle proteste degli indignados spagnoli contro l’austerità e il fallimento del capitalismo. La disoccupazione giovanile è alle stelle. E un fiume di denaro fugge dalla Spagna, dalla Grecia e dalle altre economie periferiche verso presunti rifugi sicuri negli Stati Uniti, in Germania e in Gran Bretagna. I segni d’indebolimento dell’economia mondiale sono ovunque. In Gran Bretagna la produzione ha subìto il calo più pesante degli ultimi tre anni. Negli Stati Uniti diminuiscono i posti di lavoro, mentre in Europa la disoccupazione è in media dell’11 per cento. A maggio la Cina ha registrato un forte calo della produzione.
Tutto questo non ci dovrebbe sorprendere. Stiamo pagando le conseguenze di uno dei più gravi errori finanziari mai commessi. Per un’intera generazione il mondo, con al centro l’asse formato da Londra e New York, ha abbracciato la teoria errata che il credito e la inanza potevano crescere molto più rapidamente dell’economia reale. Tutti erano ciecamente convinti che in un regime di libero mercato le banche fossero infallibili. Il libero mercato non sbaglia, dicevano, succede solo alle maldestre burocrazie statali. E invece ha sbagliato, provocando la crisi del 2008. Se i governi non avessero sostenuto le banche con migliaia di miliardi di dollari, euro e sterline, ci sarebbe stata una crisi ancora peggiore. Ma anche se le banche hanno potuto continuare a svolgere le loro attività, le migliaia di miliardi di debiti che avevano accumulato non sono scomparse nel nulla. E dato che i governi hanno garantito i depositi, come in Irlanda, o hanno dovuto iniettare nuovi capitali, come ha fatto di recente la Spagna, i debiti delle banche private sono diventati debito pubblico. È stato il classico caso in cui tutti i guadagni sono stati privatizzati e tutte le perdite sono state socializzate. E il tanto vilipeso stato ha dovuto intervenire per risolvere i problemi creati dal settore privato. Il libero mercato non era poi così libero. Anzi, si è rivelato straordinariamente costoso per le casse pubbliche. E i cittadini europei ne pagano ancora il prezzo.
Spazio di manovra
Le banche sono diventate molto caute nel prestare denaro. Comprese quelle più forti, che hanno paura di essere travolte dal vortice del calo dei prezzi degli immobili e del declino delle attività economiche. Quando gli istituti di credito rinunciano alla loro funzione principale, che è quella di fare credito, i governi e le banche centrali devono intervenire per generare la domanda che non c’è più. Ma non lo hanno fatto in misura adeguata. Uno dei problemi è che più i governi garantiscono i debiti delle banche, più ristretto è il loro spazio di manovra, in particolare quando la stagnazione economica fa salire la spesa sociale e riduce le entrate dello stato. Ma il problema più grave è di tipo teorico. L’ideologia dominante, che nasce dalle stesse radici che hanno provocato la crisi, impedisce ai governi di agire. Dai repubblicani statunitensi ai cristianodemocratici tedeschi ino ai conservatori britannici, tutti continuano a sostenere che lo stato è la fonte dei mali dell’economia, perché frena l’imprenditorialità, impone tasse dannose ed è la causa principale dell’inflazione galoppante. Di conseguenza, deve tenere i conti in ordine come il settore privato. Questa non è solo una necessità economica, dicono, ma anche morale. Vivere con i propri mezzi senza “sforare” rientra nei canoni del protestantesimo individualista americano, inglese e tedesco. L’inflazione è un ulteriore segno di degrado morale: significa rimangiarsi le promesse, premiare chi sperpera e penalizzare chi risparmia.
Per un po’ di anni siamo stati bene, ma ora dobbiamo ingoiare la medicina. Il settore pubblico e quello privato devono ridimensionarsi. Il libero mercato farà il resto: “l’esercito dei creatori di ricchezza” interverrà per colmare il vuoto lasciato dalle misure d’austerità imposte dai governi.
Questo è un enorme errore etico ed economico. Gli esseri umani hanno bisogno di aiutarsi a vicenda. In termini economici significa che nessuno, sia esso una persona o un’impresa, è in grado di gestire i rischi dell’esistenza da solo. Questi rischi devono essere condivisi e attenuati, altrimenti non sono accettati. Nessuno lancerebbe più un’iniziativa o un’innovazione, perché i pericoli legati al fallimento sarebbero troppo grandi. I governi forniscono i mezzi grazie ai quali possiamo assolvere ai nostri obblighi sociali e condividere i rischi.
Questo è il concetto centrale dell’economia keynesiana, un insieme di proposte morali ed economiche molto diverso di quello che prevale oggi. Stiamo assistendo a una dimostrazione scientifica su scala globale del motivo per cui Keynes aveva ragione e i suoi critici avevano torto. Non ci sono dubbi su quello che proporrebbe oggi: un aumento della domanda incoraggiato dal maggior numero di stati possibile e l’accettazione di un aumento temporaneo, ma rigorosamente controllato, dell’inlazione per ridurre il valore reale del debito.
Non sarà facile risanare l’enorme debito privato in Gran Bretagna, Germania, Spagna, Stati Uniti o Grecia né cambiare il modo diabolicamente complicato in cui tanti prestiti sono stati costruiti e distribuiti nel sistema inanziario globale. Secondo Philip Hampton, presidente della Royal Bank of Scotland, potrebbe volerci un’intera generazione prima che gli investitori della sua banca possano recuperare i loro soldi.
Si può scegliere di accettare decenni di stagnazione economica, la disgregazione dell’eurozona, il rischio del protezionismo e dell’autarchia, lo smantellamento del contratto sociale in tutto l’occidente, un alto tasso di disoccupazione e le conseguenze politiche di tutti questi eventi. Oppure si può cambiare rotta. I mezzi tecnici sono relativamente semplici. I governi dovrebbero sostituire l’obiettivo di combattere l’inflazione con quello di favorire l’aumento dei prezzi e della produzione. Le banche centrali dovrebbero iniettare denaro nei sistemi inanziari, comprando i prestiti concessi per sostenere nuovi investimenti, innovazioni o infrastrutture, con una parziale garanzia dei governi. Anche i governi dovrebbero far crescere la domanda. Possono farlo direttamente, con sgravi iscali mirati e limitati nel tempo o aumentando la spesa. Oppure indirettamente, tassando di più i ricchi e usando i proventi per ridurre la pressione iscale sui redditi medio-bassi, che tendono a spendere di più. Un po’ come hanno proposto Barack Obama e François Hollande. Si potrebbe anche introdurre una tassa sulle transazioni inanziarie, sia per aumentare le entrate sia per frenare la finanza, che è diventata troppo potente.
L’occidente è a un bivio. Probabilmente la destra britannica, tedesca e statunitense, ostacolerà ferocemente queste proposte, ma bisognerà farla tacere. Dopotutto, sono state le sue idee a metterci in questa situazione. Non è troppo azzardato dire che il futuro del capitalismo occidentale dipende da quale teoria avrà la meglio e da quanto ci metteremo, se mai lo faremo, a cambiare rotta.
Will Hutton è un giornalista britannico. Ha diretto il settimanale The Observer, di cui oggi è columnist. In Italia ha pubblicato Il drago dai piedi d’argilla. La Cina e l’Occidente nel XXI secolo (Fazi 2007).
da “Internazionale”
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