L’Italia è un paese curioso: il presidente della repubblica va in televisione nel fine settimana e parla, di nuovo, di cessione di sovranità e nessuno lo cita o lo riprende. Il segretario del Pd non trova di meglio che passare la domenica a farsi riprendere presso la pompa di benzina di Bettola, in provincia di Piacenza, un tempo di proprietà del padre. Per sottolineare che la politica istituzionale è entrata in una sorta di X-Factor permanente, tra primarie ed elezioni, dove conta quindi la sola promozione del personaggio. C’è da chiedersi quanto conterà, nell’Europa che si è formata, un ceto politico del genere. Il resto è occupato dalle cronache di un saccheggio dissennato e, a suo modo, creativo dei beni pubblici dalla Lombardia alla Calabria. Ma quando Napolitano parla di cessione di sovranità, come abbiamo evidenziato in questo articolo non costruisce mai passaggi casuali. Tantomeno nel discorso di fine settimana.Stavolta si tratta di capire le implicazioni del discorso di Napolitano non sulle mutazioni, per certi versi clamorose, della forma stato del paese. Si tratta piuttosto di capire meglio le trasformazioni promosse dal discorso di Napolitano in materia di enti locali. Anche perchè l’abolizione delle province, nonostante la sostanziale indifendibilità del ceto politico che le abita, ha rappresentato il cavallo di Troia per una più complessiva ristrutturazione delle autonomie locali italiane.
Intanto, due parole sullo scenario. Mentre media e stampa nazionali si scatenavano su Fiorito e Formigoni, alimentando più che altro avanspettacolo, sul Guardian e sulla Frankfurter Allgemeine campeggiava in prima pagina la notizia di una bozza di progetto sulla ristrutturazione del bilancio Ue. Nel senso che undici paesi dell’area euro, tra cui l’Italia, hanno preparato una bozza d’accordo che prevede che, a livello continentale, si allarghi il budget comunitario. Budget che si ottiene con ulteriori cessioni di sovranità degli stati membri, di qui il nuovo discorso di Napolitano su questo argomento, e si esercita in autonomia rispetto ai singoli stati. E così è chiara una cosa: l’Europa si sta materialmente dividendo tra una good company e una bad company. A quest’ultima, che sia in forma di stato sovrano o di ente locale o di ricerca, tocca tutto il peso delle politiche finanziarie ed economiche dell’Ue. Nel senso che se, non è in grado di sostenerle, può anche estinguersi. E la fine, de jure oltre che de facto, dell’universalismo europeo. Ne saranno contenti gli avversari, di ogni ordine e grado, dell’illuminismo. Alla good company ristretta a stati con la tripla A, grandi imprese, grossi investitori, amministrazioni locali complesse e settori di ricerca di punta toccano politiche e risorse per l’innovazione. Ma sempre sotto il predominio delle grandi concentrazioni di capitale e delle sue necessità di riproduzione. Entro questo scenario in Italia sta avvenendo una vera e propria ricentralizzazione delle funzioni dello stato. Che altro non rappresenta però che il nodo nazionale di questo processo di divisione dell’Europa in bad e good company.
I patti di stabilità per le amministrazioni locali, l’abolizione delle province e il collegato alla legge di stabilità sulla riforma degli enti locali rappresentano, su diversi piani, questo processo. Non a caso infatti nella legge di stabilità si prevede il trasferimento di competenze dalle regioni allo stato su energia e trasporti. Funzioni tipiche delle grandi concentrazioni di capitale di oggi che vanno sottratte agli enti locali per collocarle a disposizione delle tipologie di good company previste. Insomma, la ricentralizzazione delle funzioni dello stato in Italia avviene solo per collocare gli enti locali, di qualsiasi ordine e grado, entro la categoria di bad company più o meno alla deriva. Si tratta di un processo esplicitamente richiesto dalla Banca Centrale Europea all’Italia nell’estate del 2011, nelle settimane convulse della crisi dello spread, e che è stato solo rallentato dalla crisi del governo Berlusconi e dalle prime emergenze dell’agenda Monti (legate alla pura necessità di fare cassa). Processo che prevede esplicitamente che chi appartiene alla good company europea possa estrarre risorse dalla completa privatizzazione dei servizi pubblici locali in Italia (salvo piccole aree di residuo interesse nazionale). Per rendere appetibile queste privatizzazioni bisogna però immetterle in una economia di scala più grande. Ecco quindi che le gare per i trasporti pubblici si regionalizzano, come in Toscana, oppure che si tenta di togliere competenze agli enti locali sulle grandi opere per concentrarle in più grandi bacini di appalto e di project financing (senza il quale le opere non si fanno). Cosa resterà agli enti locali italiani, dal più piccolo al più grande, se si completa questo processo?
Naturalmente molto poco: tra patto di stabilità, minori entrate fiscali a causa della crisi, dismissione di fatto della funzione di progettazione politica locale (che può generare risorse) alle amministrazioni locali non resterebbe neanche la gestione dell’esistente di un lustro fa. Sempre in condizioni difficili, con poche risorse a disposizione e senza l’appoggio della ricerca e dell’implementazione sul territorio delle innovazioni tecnologiche (tutto smantellato, come sappiamo). Perchè le risorse per tutto questo vanno ad altri, che fanno parte del mondo della good company.
Così le amministrazioni locali non in grado di entrare in progetti di innovazione scientifica e tecnologica, e quindi di finanziarsi innovando, sono destinate, nel giro di uno o due lustri, a rappresentare il ventre molle in disfacimento delle bad company europee. Con bilanci blindati dall’alto, credito sul territorio quasi allo zero (effetto della separazione tra dimensione locale e quella bancaria, che si sta ristrutturando), trasferimenti statali ridotti al minimo, economie di prossimità in sofferenza. Napolitano ha quindi parlato di nuovo di cessione di sovranità, nel silenzio pubblico generalizzato, proprio quando Monti ha presentato una legge di stabilità che intende ristrutturare le autonomie locali in questo scenario. Entro processi che guardano alla ristrutturazione delle autonomie locali in Italia come in Spagna dopo quanto già avvenuto in Grecia e Portogallo.
Napolitano proviene esplicitamente da una tradizione liberale che affonda in Amendola, passando quindi per il liberalismo presente nel Pci, per arrivare a Giolitti. E sta concludendo la sua carriere politica in modo sinistramente simile proprio a Giovanni Giolitti. Che votò la fiducia al governo Mussolini, dopo aver lavorato per una sorta di costituzionalizzazione del fascismo, subito dopo la marcia su Roma, giusto 90 anni fa. Mussolini all’epoca aveva solo 35 deputati in parlamento, effetto delle elezioni del maggio 1921, eppure quel fior di liberale che era Giovanni Giolitti gli votò la fiducia. Non senza aver prima lavorato ad una metabolizzazione del fascismo nelle agonizzanti istituzioni liberali. Perchè i politici liberali sono fatti a questo modo: una volta convinti della necessità di una svolta a destra nel paese, mai che si convincano del contrario, passano con resistibile senso del destino a favorire soluzioni autoritarie. I tempi non sono quelli per cui qualcuno chiederà il meritato conto politico a Napolitano di simile comportamento. Ma, di sicuro, gli effetti delle politiche favorite dall’attuale presidente della repubblica non sono di quelli destinati a durare una breve stagione.
per Senza Soste, nique la police
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