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Bergamasca. Una crisi in fase esistenziale

Nella ricca provincia di Bergamo, dove il lavoro era la vita, è in corso una «selezione» economica che mette a rischio ciascuno e ridefinisce tutto, dalle singole esistenze alla piramide sociale. Tra i tanti cortocircuiti, spicca la caduta della «identità leghista»

Mario Soggiu è morto il 15 luglio 2009. Cadendo da un pianerottolo senza parapetto, al termine di una scala buia che l’aveva portato al quinto piano della torre numero tre. Aveva 56 anni, era al primo giorno di lavoro da operaio tubista nel costruendo nuovo ospedale di Bergamo, appena arrivato dalla sua Alghero. Fuori c’era il sole e una luce quasi sarda, dentro la torre un buio molto nordico. In un grande cantiere con scarse misure di sicurezza e privo d’indicazioni, Mario Soggiu aveva sbagliato strada finendo in una trappola, tra i cuniculi oscuri e ingombri di laterizi del policlinico piantato nell’acquitrinio di La Trucca. Era un operaio esperto, aveva già lavorato per una decina d’anni nel bergamasco, poi era tornato in Sardegna. Ma lì lavoro non ce n’era e, allora, via libera ai contratti a termine, da dovunque arrivino. Meglio se da luoghi conosciuti.
Così è volato giù da un pianerottolo che colpevolmente dava nel vuoto, diventando uno dei 1050 caduti sul lavoro nel 2009 in Italia. Omicidio colposo, recita oggi l’imputazione per cinque responsabili della sicurezza delle imprese – la barese Dec, ormai in stato fallimentare, la bergamasca E.T.S. – che hanno progettato e realizzato il nuovo «Papa Giovanni XXIII», in un processo che si aprirà forse prima dell’inaugurazione dell’incompiuto ospedale. Con il precedente di una causa contro l’Inail, che inizialmente non voleva pagare a vedova e figli alcun indennizzo, ottenuto solo dopo l’azione legale intentata dall’avvocato Luigi Mariani con l’appoggio della Cgil, riconoscendo l’incidente come «lavorativo».

Quella di Mario Soggiu è una morte comune, in un cantiere come tanti altri, in un settore che appalti e subappalti hanno reso incontrollabile e particolarmente insicuro in termini di salute, retribuzioni, legalità. In una regione che – tra alta velocità, superstrade ed Expo – ha mascherato con il boom edilizio il proprio declino industriale e ridato fiato alla rendita.
Nell’ultimo decennio cantieri, palazzi e capannoni hanno attratto spesa pubblica e privata gonfiando qualche portafoglio e nutrendosi di un mestiere antico, a bassa tecnologia, grande intensità di lavoro, sempre più servile. Fino a qualche anno fa bastava andare all’alba a piazzale Lotto o piazzale Maciachini a Milano, oppure nelle tante piazze delle cittadine bergamasche o bresciane, per incontrare i «moderni schiavi» – in gran parte stranieri – che attendevano l’ingaggio dei caporali. Poi le chiamate sono diventate sempre più tecnologiche e ora basta un sms per l’ingaggio giornaliero. Ma ancor oggi i gruppetti dei giornalieri dell’edilizia in attesa sono ben riconoscibili lungo l’A4, tra Milano e Brescia, a ogni fermata dell’Autostradale: sono lì molto prima dell’orario d’arrivo dei pullman di linea, pronti per una giornata di lavoro in cantiere; a 5/6 euro l’ora, quando il costo orario di un edile in regola è di 22; oppure assoldati come finte partite Iva, ditte individuali pagate 6/700 euro il mese che compongono la catena dei subappalti; o dipendenti metà in regola e metà in nero, con orari che si dilatano oltre le 10 ore giornaliere. Il tutto organizzato da un «mestiere» che in Lombardia è nato prima ancora che nei campi di pomodoro campani o pugliesi, nel primo dopoguerra alla stazione centrale di Milano, dove i caporali cammellavano gli immigrati meridionali per dirottarli nei cantieri edili della ricostruzione post-bellica.
«Mestiere» facile e sicuro, quello del caporale: la domanda è alta, l’offerta non pretende nulla e gli «offerenti» si prestano ad allargare l’organizzazione diventando intermediari di nuova mano d’opera; le controindicazioni sono scarse, mal che vada si rischia una multa, perché il caporalato è un semplice reato amministrativo. Così in Lombardia si calcola che il 30-40% del lavoro edile sia «nero» – in tutto o in parte – e che il 15-20% dei lavoratori siano assoldati dai caporali. Il risultato è una grande operazione di occultamento: scompare la trasparenza degli appalti, dilaga l’illegalità, s’allarga l’infiltrazione di mafia e ‘ndrangheta, i lavoratori si fanno sempre più invisibili e la loro vita sempre più pericolosa. Ma quasi nessuno se ne accorge.

La dura selezione
Oggi ci si mette anche la crisi globale. Che oltre a deprimere il volume d’affari e l’occupazione, sta cambiando anche la divisione del lavoro. In Lombardia il Pil del 2012 avrà lo stesso segno della media nazionale (attorno a un -2,5%), la disoccupazione, che nel 2011 ha sfiorato il 6%, crescerà di un altro mezzo punto. La produzione industriale nel primo semestre del 2012 è calata del 5,4%, le ore di cassa integrazione nel manifatturiero hanno superato i 60 milioni. Gli indici degli ultimi dodici mesi sono tutti negativi anche nell’artigianato (fatturato a -10%) e nei servizi (-7,7%), in particolare nel commercio che paga la caduta dei consumi (giro d’affari che scende del 6,7% nell’alimentare e del 9,6% negli altri negozi). Il settore manifatturiero più importante, il metalmeccanico con i suoi 450.000 addetti, è messo alle strette. Comparto elettronico a parte (Abb e Ticino per ora tengono) è una Caporetto: dalle telecomunicazioni (Italtel, Nokia) a tutto l’indotto dell’auto («corrono» solo i fornitori della gamma alta, come la Brembo), fino alla siderurgia, le cui sorti sono anche legate ai mefitici fumi dell’Ilva di Taranto. La Brianza, il bergamasco e il bresciano sono le aree più colpite (produzione industriale in calo dal 5 al 7% e conseguenti picchi di Cig e mobilità). Mirco Rota, segretario regionale della Fiom, così sintetizza: «Finora la crisi è stata gestita con gli ammortizzatori e la famiglia: 850 euro al mese di Cig più i risparmi di varie vite, l’alloggio dei genitori. Così sopravvive un lavoratore in crisi. Ma le risorse – pubbliche e private – si stanno esaurendo e non si riesce a ricollocare quasi nessuno, nemmeno nella grande impresa. C’è una struttura industriale fragile, con tanti “piccoli” che rincorrono pochi “grandi” senza mai aver avuto il tempo di innovare e crescere. E oggi i “grandi” tagliano o scappano. La politica non dà risposte e cresce l’incazzatura nei confronti di partiti e istituzioni. I padroni sono persino più arrabbiati di noi». Conseguenza abbastanza naturale degli affari in corso al Pirellone formigoniano.
Ma non è tutto uguale, perché la crisi «seleziona», a iniziare dalle aziende, divide tra «sommersi» e «salvati», tra chi è destinato a chiudere e chi cresce; magari approfittandone per riorganizzare il proprio futuro. Basta passare un pomeriggio in una sede sindacale, ascoltare i racconti di lavoratori e delegati per ottenere un abbozzo di mappa che sembra la pelle di un leopardo. Giuseppe è un operaio della Vitali, fabbrica piccola ma importante nella produzione di macchine per la lavorazione dei metalli: da mesi in officina si muovono come bradipi, perché l’azienda è in crisi di liquidità, le banche hanno chiuso i rubinetti e la fornitura di materia prima arriva col contagocce. Ulisse è un dipendente dell’ingegner Bombassei alla Brembo di Curno, 2.500 lavoratori in Italia, ma lo sguardo sempre più rivolto all’estero. L’ingegnere battuto da Squinzi nella corsa per la presidenza di Confindustria, ormai investe soprattutto fuori Italia, l’ultima scommessa è la Cina. Ma «sa innovare, perché è un vero padrone, anche nel suo atteggiamento anti-sindacale» (parola di Ulisse) e così i freni della Brembo vanno ancora alla grande, fioccano gli straordinari e con essi un ottimismo difficile da trovare altrove. Roberto lavora alla Bianchi di Zingonia, nel capannone un tempo occupato dalla Faema – quella che con la maglia rosa di Eddy Merckx pubblicizzava macchinette del caffè da piazzare in ogni ufficio e officina della Penisola. Oggi il suo padrone è la Goldman Sachs, lo stabilimento è sotto la «tutela» di cinque banche, tira avanti con la cassa integrazione e il trasferimento di alcune lavorazioni dalla fabbbrica (chiusa) di Pescara. Giordano è un operaio della Reggiani, 130 dipendenti, costruiscono macchine da stampa per tessuti, che all’80% esporta in India: grazie al boom dei Brics si fanno persino nuove assunzioni a tempo indeterminato. Alberto era convinto di avere un futuro garantito, costruendo i pannelli solari e gli impianti fotovoltaici della Ser: la giovane azienda – nata nel 2001, sede nella zona industriale di Zingonia – si era sviluppata fino ad avere un centinaio di addetti. Poi i tagli del governo agli incentivi per le energie rinnovabili hanno bloccato tutto, ridotto gli occupati a 24 con frequente ricorso alla cassa integrazione e un futuro totalmente a rischio: «Una scelta politica miope, contro l’ambiente e l’occupazione». La descrizione della nuova mappa economica bergamasca potrebbe continuare, divisa sulla contingenza, unificata da stipendi sotto la media europea (dagli 850 euro al mese per chi è in Cig ai 1.700 di chi ha 30 anni d’anzianità e lavora a tempo pieno) e dal sentirsi in balia degli eventi.

«Mi si è ammosciata la Lega»
Tra chi si sente sicuro, chi rischia di cadere e chi è già rotolato nel girone della mobilità e della disoccupazione, la piramide del lavoro cambia i propri connotati e allarga il numero di quelli «disposti a tutto», anche tra i 340.000 lavoratori dipendenti della ricca provincia di Bergamo. Fino a due-tre anni fa si sentivano abbastanza sicuri e la preoccupazione prevalente sembrava mettere a valore (economico) la tradizionale predisposizione al lavoro. Permettendosi di lasciare le attività più pesanti, sporche e meno retribuite agli immigrati; maltrattandoli pure. Ora l’aria è cambiata, soffia il vento del dumping sociale, tra quelli che la crisi economica caccia verso il basso non c’è distinzione etnica, cresce la disponibilità e ci si contende anche le attività più dure. Anch’esse tutt’altro che sicure: l’edilizia lombarda, ad esempio, quest’anno segna una perdita del volume d’affari dal 10 al 20% a seconda delle zone, caduta che a Bergamo si traduce in 2.000 posti di lavoro persi. E non è un problema «solo» economico o sociale, perché nella provincia orobica dove il lavoro è sempre stato la «fede comune», la crisi non tocca «solo» i redditi e gli stili di vita colpisce anche i cervelli, cambia la percezione del mondo e si sé. Ti arriva addosso come una selezione della specie (di imprese, mestieri, lavoratori) e diventa una crisi ideologica, frantuma le certezze, incrina vecchie identità.
Per averne un esempio basta prendere le strade che dalla bassa bergamasca salgono verso nord, lungo valli per secoli depresse da cui si partiva per migrare e ora diventate tutte casa e capannone, dove il prete è sempre stato l’autorità, la Dc si gonfiava di voti poi consegnati pari-pari alla Lega, dove «chi lavora solo otto ore al giorno è considerato un lazzarone». Anzi, «era considerato», si corregge Fulvio, quarantenne operaio della Gervasoni, 170 addetti nella componentistica dell’auto: «Da noi la crisi si sente appena, perché lavoriamo per i tedeschi, mica per la Fiat. E, per ora, va abbastanza». Non tanto, però, da tenere il ritmo cui si viaggiava fino a un anno fa, «quando la normalità era lo straordinario, sabato compreso, non le otto ore giornaliere di oggi».
Siamo a Brembilla – poco più di 4.000 abitanti, poco meno di 2.000 operai – capoluogo dell’omonima valle, tra la più grande val Brembana di cui è una diramazione minore e la val Imagna, la «valle di Pinocchio», dove il burattino più famoso del mondo viene riprodotto in tutte le dimensioni possibili diventando un bel affare. A Brembilla c’eravamo già venuti nel 2010, per trovare una spiegazione a un’accoppiata – originale quanto diffusa in alta Lombardia – tra politica e sindacato: «Iscritti alla Fiom perché ci difende dal padrone – spiegava allora Fulvio, insieme ad alcuni sui colleghi -, votiamo la Lega perché ci difende dai ladri romani». Il Carroccio da queste parti raccoglieva tra il 30 e il 40% dei voti. Ora che i ladri sembrano avere anche la camicia verde e quelle percentuali elettorali Maroni se le sogna, Fulvio prima abbozza la teoria del complotto: «Quel pirla del Trota… è caduto in una trappola a prendere i soldi… brutta botta per Bossi che s’è circondato di gente sbagliata… e così Maroni ne ha approfittato…». Poi si lascia andare in una confessione para-esistenziale: «Stan mollando tutti. Sarà la crisi. Lavoro ce n’è meno, una volta ti alzavi e pensavi a quello, ne trovavi uno anche quando eri in cassa integrazione. Studiare era considerato una perdita di tempo. Adesso fai il tuo e basta. Anche i padroni non tirano più, han perso grinta, quasi non ci tenessero. In politica, uguale: si sono ammosciati pure i leghisti». Una depressione cosmica, in cui si incrociano recessione economica, spaesamento sociale e crisi della politica, in uno sfibrante corto circuito generale. Si salva – per ora – il sindacato «perché la fabbrica è sempre quella», ma per il resto è come se, improvvisamente, fosse venuto giù un mondo; perché il lavoro non ne è più il centro ineluttabile e sicuro, perché le appartenenze territoriali che «difendevano» dai pericoli esterni si rivelano costruzioni astratte e fragili. Anche se hai voglia di lavorare e sai farlo, anche se vivi in una valle chiusa dove conosci tutti, anche se voti Lega e sei iscritto al sindacato, nonostante tutte le «difese» immaginabili «ti può succedere di perdere tutto». E finire sul mercato delle braccia, magari all’alba a una fermata dell’Autostradale sulla Brescia-Milano. Solo, con il tuo bisogno di lavorare, che quasi non è più una voglia.


da “il manifesto”

(2 – fine. La precedente puntata è uscita il 18 ottobre)

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