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Regolarizzazione migranti. Dalla schiavitù alla servitù della gleba

Il provvedimento di regolarizzazione dei migranti per farli lavorare nei campi ha un solo titolare e beneficiario assoluto: il padrone agricolo. È lui che richiede il permesso per il proprio dipendente, è lui che decide se farlo diventare regolare o lasciarlo clandestino.

E può prendere questa decisione anche contando sull’impunità per sé stesso, nel caso in cui questo lavoratore fosse già alle sue dipendenze, ma in nero. In questo caso si regolarizzerebbe anche il padrone.

Quindi il lavoratore migrante sarà doppiamente dipendente dal suo padrone, perché questi gli fa un contratto e perché lo regolarizza.

Se il padrone decide di licenziarlo, magari perché ha chiesto il pieno rispetto di quel contratto che spesso non vale neppure per i regolari, quel migrante perderà il lavoro ed anche i diritti civili e tornerà clandestino.

Tutti i diritti del lavoratore sono nelle mani del padrone agricolo, che il migrante non potrebbe lasciare neppure se trovasse un altro lavoro, anche qui pena la clandestinità.

Tutto questo perché si è esclusa la sola misura civile, concedere al migrante la titolarità del suo permesso di soggiorno e permettergli da cittadino in regola di cercarsi un lavoro.

Ma questo sarebbe stato applicare ai migranti quelle che si chiamano le libertà borghesi, mentre essi devono essere asserviti alla terra che lavorano, come i contadini nel Medio Evo. Altro che condizioni migliori.

Se il migrante prima era uno schiavo senza diritti, ora è un servo della gleba.

Si c’è da piangere, di rabbia e di indignazione per l’imbroglio.

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