L’aspetto più inquietante dell’ultimo rapporto ISTAT non risiede nella notizia che la disoccupazione in Italia ha fatto registrare l’ennesimo picco. L’allarme principale riguarda il 2013: per l’anno prossimo l’istituto nazionale di statistica prevede ancora recessione e un incremento ancor più accentuato dei senza lavoro. L’ISTAT conferma così lo scenario depressivo che era stato già evocato ad ottobre dal Fondo Monetario Internazionale, con una pesante revisione al ribasso delle previsioni future di crescita della zona euro e soprattutto dell’Italia. Il quadro che si prospetta è dunque dei più funesti, ma in fondo non dovrebbe meravigliare. Due anni e mezzo fa, ai primi cenni della crisi europea, duecentocinquanta economisti pubblicarono una “Lettera” che lanciava l’allarme sui pesantissimi effetti recessivi che le politiche di austerity avrebbero determinato. Un appello profetico, che rimase inascoltato. Il risultato è che oggi precipitiamo nella depressione senza nemmeno intravederne il pavimento.
Le stime degli istituti di ricerca appaiono particolarmente impietose per il governo italiano. Esse ci dicono che tra il professor Monti, che con voce sempre più incerta tuttora favoleggia su una fantomatica «luce in fondo al tunnel», e la signora Merkel, che brutalmente ci comunica che non usciremo dalla crisi prima di cinque anni, la cancelliera tedesca appare molto più in sintonia con la realtà dei dati economici.
Del resto non è la sola, dalle sue parti: a Berlino in tanti ormai riconoscono che le politiche di taglio della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale deprimeranno i redditi e l’occupazione molto più a lungo e più intensamente di quanto si fosse disposti ad ammettere qualche mese fa. Sbagliano però i commentatori che interpretano questa presa d’atto della Merkel come un sintomo di ripensamento sugli effetti dell’austerity. Questa speranza è diffusa soprattutto tra le file della sinistra francese e nostrana, ma sembra mal riposta. Gli europeisti speranzosi dovrebbero infatti rammentare che questa crisi ricade in modo asimmetrico sul continente. La Germania la subisce in misura molto meno accentuata di noi e degli altri paesi del Sud Europa, e per molti versi riesce persino a sfruttarla a proprio vantaggio. Basti notare che dal 2007 ad oggi in Italia abbiamo perso settecentomila posti di lavoro, mentre l’economia tedesca ha fatto registrare un milione e seicentomila nuovi occupati. Anche la distribuzione sul continente dei fallimenti aziendali riflette questa profonda asimmetria europea. Ma soprattutto, sembra sfuggire ai più che la crisi sta determinando una caduta del valore relativo dei capitali industriali e bancari dei paesi del Sud Europa. I grandi possessori di liquidità, in buona parte situati in Germania, potranno sfruttare in misura crescente questi deprezzamenti per fare shopping a buon mercato alle nostre latitudini, col risultato di depauperarle ulteriormente.
Insomma, le autorità tedesche e i gruppi d’interesse prevalenti in Germania leggono i dati della crisi con più onestà del nostro establishment, ma non sembrano per questo intenzionati a modificare l’orientamento della politica economica europea. La Merkel e i suoi ammettono che la traversata nel deserto della crisi sarà lunga. Essi tuttavia sembrano concepirla come una sorta di passeggiata “purificatrice”, che lascerà un bel po’ di vittime per strada ma che proprio per questo favorirà il processo di egemonizzazione tedesca dell’economia europea. Al di là delle scaramucce nel consiglio direttivo della Bce, lo stesso Draghi ha assecondato questa visione, considerando la minaccia dello spread il più efficace propulsore delle “riforme” imposte da Berlino. Di fronte a queste poco rassicuranti evidenze, l’europeista speranzoso tuttora confida in una svolta keynesiana guidata dai socialdemocratici tedeschi. Ma a ben guardare nemmeno questi sembrano desiderosi di prender le distanze dall’attuale concezione “imperiale” della ristrutturazione europea. Anzi, talvolta tendono ad attaccare la Merkel proprio sul versante del “rigore”, esigendo dalla cancelliera una fedeltà se possibile ancor più cristallina alla dottrina dell’austerity.
Forse, anziché limitarsi a sperare, la sinistra europeista potrebbe iniziare a interrogarsi. Per esempio: se le buone intenzioni di riforma dell’Unione europea indicate nella “carta d’intenti” delle primarie si scontreranno con l’indifferenza dei compagni e amici tedeschi da un lato e con la realtà di una crisi produttiva e occupazionale senza freni dall’altro, la sinistra italiana farà bene a rassegnarsi o dovrà piuttosto cominciare a elaborare una strategia di uscita dalla moneta unica e una revisione critica del mercato unico europeo? La questione, per quanto scomoda, inizia a farsi urgente.
* Articolo apparso sul quotidiano Pubblico del 6 novembre 2012.
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Paul De Marco
Non serbe a nulla uscire del euro con le stesse regole del gioco.
Non si capisce bene cosa si guadagnerebbe uscendo dall’euro conservando pero le stesse regole del gioco dettate dalla banca detta “universale”.
Forse la sinistra dovrebbe studiare il paradigma della banca universale e come questo paradigma viene messo in applicazione. La critica la conosciamo: (vedi ad esempio il mio “Credi without collateral” e il mio « The Treasury and the FED » nella Sezione International Political Economy del mio sito http://la-commune-paraclet.com ; vedi pure sulla legge del valore di Marx il mio “Contra-pitre” nella sezione Italia del medesimo sito.)
La banca universale porta al suo termine logico l’illusione marginalista – nata con J.B Say con la sua perversione della paper currency di Ricardo-Rothschild – la quale consiste a credere che la scienza economica possa ridursi allo studio del valore di scambio, cioè allo studio dei segni senza nessuna referenza alla realtà. Ogni prodotto senza eccezione ha un valore di scambio e un valore di uso. Il valore di scambio non è niente senza il suo sopporto, il valore di uso, in particolare quando si tratta del valore di uso della forza di lavoro, e della sua riproduzione necessariamente sociale – la quale implica lavoro dignitoso, infrastrutture, sicurezza, educazione e ricerca, sanità, pensioni dignitose, programmini sociali, divertimento ecc. Proprio tutto quello che Monti e tutti gli altri trasversalmente stano sacrificano sull’altare delle banche universali, imponendo ingenti mutilazioni alla nostra Repubblica e alla nostra società. Il fattore di produzione lavoro umano non può essere liquefatto sotto forma moneta e messo in concorrenza sulle borse mondiali che operano 24 ore sopra 24.
Non serve perciò a nulla uscire del euro con le stesse regole del gioco. E se si cambiano le regole del gioco sarebbe ciocco uscire dell’euro. Serve mettere fine, almeno parzialmente, all’egemonia della banca universale. Ad esempio, invece di liberalizzare e privatizzare, distruggendo quello che rimane del tessuto industriale del nostro Paese, si dovrebbe utilizzare i beni ancora pubblici come garanzia per una banca pubblica dedicata a comprare e cancellare il debito sovrano, in modo di ridare margine al budget, e risanare i finanziamenti agli Enti locali assieme a quelli destinati ai programmi sociali e alla creazione di posti di lavoro. Insomma, passare ad un regime dove si lavorerà tutti pur di lavorare meno con la stessa paga iniziale ma con programmi sociali ripristinati – salaria differito e reddito globale netto. Poi la paga individuale aumenterebbe con la spartizione degli incrementi della produttività reale.
Compagni francesi parafrasando Jean Jaurès affermano con ragione che, nella società capitalista, il lavoro dignitoso e i programmi sociali repubblicani sono il patrimonio di chi non ha patrimonio. Dunque, questa banca pubblica avrebbe una leva finanziaria importante, quella media oggi usata delle banche private attuali, cioè di 40 o 60 per 1. Con questa potenza di intervento potrebbe non solo comprare e cancellare il debito sovrano (nel 2013 l’Italia dovrà finanziare attorno a 400 miliardi di euro di debito), ma potrebbe di più offrire credito agevolato per finanziare le medie e spicole imprese, oggi strangolate. Oggi le banche non prestano più (nemmeno tra di loro.) Per parte loro, le grande impresse in Occidente hanno un mucchio di soldi in casa (120 miliardi di dollari ad esempio in Canada secondo il governatore della banca centrale; in Europa è molto peggio perché i paesi sono più grandi e c’è una reale sovrapproduzione e un reale sotto-consumo) Pero questi soldi non servono più per investire – nemmeno in prodotti derivati come prima – questo essendo un prodotto paradossale del credit crunch. Senza investire, strangolare i lavoratori rimane l’unico metodo possibile per conservare un poco di competitività a brevissimo termine prima di sparire come d’altronde sia giusto per questi legni morti e questi parassiti indegni e incompetenti.
Insomma la sinistra deve smettere di gargarizzarsi con inutile sciocchezze e cominciare a parlare sul serio di problemi seri, concreti e urgenti. Anche per le prossime elezioni. Perché cosi non si va più avanti. Tutto la zona euro stato andando giù – Germani inclusa – e l’industria italiana è già in calo del 10,6 % !
Serve anche capire che il tasso di scambio dell’euro è competenza congiunta, dunque non appartiene solo alla BCE : si deve perciò rivendicare il ritorno dell’euro al livello della sua introduzione a confronto con il dollaro : il che permetterebbe una ripresa generale del export e del turismo nel Sud Europa.
Uscire dell’euro senza riprendere il controllo pubblico del finanziamento del debito? Meglio lasciare queste asinate a tizi del genere Grillo (il Coluche italiano sovra-pagato che fa pensare alla confusione mentale stipendiata dell’inizio del XX secolo in Italia, quando cominciava a fare buio e quando il programma era appunto l’assenza di ogni programma per dare spazio alla « duce » … oggi il Re Ubu Grillo)
Vostro,
Paul De Marco