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Malcolm X, le elezioni Usa e la politica imperialista

Sohail Daulatzai è l’autore di “Black Star, Crescent Moon: La libertà musulmana internazionale e nera oltre l’America” (2012) ed è il co-editore (con Michael Eric Dyson) di “Born toUse Mics: Reading Nas’s Illmatic”(2009). È professore associato presso il Dipartimento di Studi su Film e Media e il programma di Studi Afro-Americani dell’Università di California, Irvine. Attualmente vive a Los Angeles e sta lavorando a un romanzo illustrato.
(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
da: http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2012/11/2012111103312998744.html

Obama si era recato al Cairo come “inviato di un impero” che cercava di rendere universale la potenza usamericana, mentre Malcolm X era andato lì per “internazionalizzare le lotte per la libertà dei neri Afro-americani con le lotte dei neri del terzo mondo, tutti vittime dell’imperialismo”
Con Guantanamo ancora aperta, droni che continuano ad uccidere, e un sentimento anti-musulmano come brontolio di sottofondo dell’Impero, le elezioni presidenziali negli Stati Uniti hanno ancora una volta sollevato lo spettro dell’Islam e del terzo mondo musulmano come minaccia alla sicurezza nazionale degli USA e ai loro interessi.
E con Obama, uno dei due candidati in corsa, la questione della “negritudine” entra in campo come l’elefante nella cristalleria.
Mentre molti pretendono ancora una volta di stigmatizzare Obama come “Musulmano segreto” e come il “Candidato arabo” del 21° secolo, altri imputano alla sua negritudine il tentativo di riplasmare l’immagine dell’America e di contribuire a promuovere gli interessi degli Stati Uniti nel terzo mondo musulmano attraverso una nuova e benevolente maschera di facciata “post –razziale”.

Ma, come di recente ho esposto dettagliatamente in un mio libro, queste relazioni e vicende tra negritudine, Islam e terzo mondo musulmano non sono una novità negli Stati Uniti.
In realtà, è Malcolm X che è arrivato a definire convergenti queste storie, ed è la sua eredità che per molti versi sta causando tanta inquietudine nazionale negli Stati Uniti post-11/settembre, con un presidente nero il cui secondo nome è Hussein.
Essere nero negli Stati Uniti d’America è abbastanza per essere considerato “non-USAmericano”, ma essere nero e musulmano equivale a “anti-USAmericano”.
Mentre “la campagna diffamatoria” contro Obama come musulmano, nel clima post-11/settembre, veniva ispirata dalla minaccia rappresentata da quella entità chiamata “al-Qaeda”, la negritudine di Obama e una sua possibile “vicinanza” all’Islam generano davvero una più profonda preoccupazione, che si va a collocare sulla scia di quell’inquietudine generata da Malcolm X, che lanciava la sfida alle autorità statunitensi non solo per le vicende di un passato avverso ai neri, ma anche per un futuro “nero”, appellandosi alla gente di colore perché considerasse se stessa non come una minoranza nazionale, ma come una maggioranza globale.

Per Malcolm X, “l’Islam rappresenta la più grande forza unificante del Mondo Nero”, con la Mecca come centro spirituale; e il terzo mondo musulmano, con le sue lotte contro il colonialismo in Egitto, Algeria, Palestina, Iraq e altrove, aveva avuto un impatto determinante sulla sua vita e sulla sua visione politica.
Ma per Malcolm X, uno non aveva bisogno di essere un musulmano. Ciò che era importante era il riconoscimento di una propria realtà razziale a fronte di una sofferenza secolare provocata dalla supremazia bianca intesa come fenomeno globale, e di conseguenza era importante collegare le lotte nere con quelle del terzo mondo.

Tuttavia, vi è stata una persistente richiesta di contenere e addirittura azzerare la possibilità di un internazionalismo nero negli Stati Uniti.
In adempimento alla tradizione per i diritti civili, la presidenza Obama ha simbolicamente asserito che non solo le persone di colore devono puntare su questo paese, ma che questo sentimento è reciproco – quindi Obama nel suo ruolo di “leader del mondo libero” cerca di coniugare l’identità nera con gli Stati Uniti, la sua potenza e il suo destino.

Nel 2009, al Cairo, Obama ha cercato di catturare entusiasmi per la sua elezione durante il suo intervento molto pubblicizzato, dal titolo “A New Beginning – Un nuovo inizio”, che avrebbe dovuto segnalare un deciso discostarsi dal militarismo polarizzante del regime di Bush II.
Ma anche Malcolm X aveva parlato al Cairo, e nel 1964 si era rivolto ad una assemblea di capi di Stato presso l’Organizzazione per l’Unità Africana.
Obama si era recato al Cairo come “inviato di un impero” che cercava di rendere universale la potenza usamericana, mentre Malcolm X era andato lì per “internazionalizzare le lotte per la libertà dei neri Afro-americani con le lotte dei neri del terzo mondo, tutti vittime dell’imperialismo”.

Al Cairo, Malcolm implorava i capi di Stato di non farsi ingannare dal “lupo imperialista” degli Stati Uniti o dai tentativi del Dipartimento di Stato di usare la propaganda per convincere le nazioni africane che gli Stati Uniti stavano facendo progressi seri verso l’uguaglianza razziale, attraverso la sentenza “Brown v. Board” e l’adozione di una legislazione di tutela dei diritti civili.
[N.d.tr.: Brown et Al. c/ Board of Education of Topeka et Al. (Brown e altri contro l’ufficio scolastico di Topeka e altri) è una sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti, pubblicata il 17 maggio 1954 (sentenza 347 U.S. 483). Ad essa ci si riferisce, normalmente, come a Brown v. Board of Education. La sentenza dichiarava incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche]

Come Malcolm ribadiva, queste misure erano una “manovra propagandistica”, e “non sono altro che trucchi della potenza alla guida del neo-colonialismo del secolo”.
Malcolm implorava l’assemblea ad ascoltare il suo avvertimento: “Non fuggite dal colonialismo europeo, solo per ridurvi ancora più schiavizzati da un “dollarismo” statunitense ingannevolmente ‘amichevole’.”
Nel sottolineare l’uso della propaganda e il sapere ben amministrare all’estero la propria immagine da parte degli Stati Uniti, Malcolm anticipava non solo come, dopo l’11/settembre, il Dipartimento di Stato avrebbe posto i Musulmani in posizioni di alto profilo nel campo delle arti e della politica per influenzare l’opinione pubblica musulmana all’estero, ma anche come l’elezione di Obama e la retorica della “diversità” sarebbero state sfruttate per ridefinire gli Stati Uniti come inclusivi, “post-razziali” e progressisti, al fine di mascherare l’entrata in trincea del potere bianco, in ambito domestico e globalmente.
E nel collegare la politica razziale interna usamericana al ruolo degli Stati Uniti come “potenza neo-coloniale” e all’emergere di un “dollarismo usamericano”, Malcolm metteva a nudo come la questione razziale fosse vincolata al colonialismo europeo e all’apparire degli Stati Uniti come superpotenza globale.

Mentre Obama si era recato in Egitto, al Cairo, per cooptare questa città sacra e fornire un’immagine caritatevole del potere americano, Malcolm era stato lì per strappare la maschera di benevolenza e rivelare la verità nuda dell’ingiustizia razziale degli Stati Uniti e delle loro ambizioni imperiali.
È per questo che l’eredità di Malcolm X è così importante, in quanto mette in luce le dinamiche razziali che modellano il panorama globale di oggi, sotto il potere degli Stati Uniti.

Terrore rosso, nero e verde

Nel periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti hanno sostituito l’Europa come attore dominante sulla scena del mondo, il presidente Truman dichiarava il comunismo “nemico pubblico numero uno”, perfino vedendo nel comunismo una minaccia più grande del colonialismo nei confronti del terzo mondo in fase di decolonizzazione.
Per altro, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa consideravano che un terzo mondo liberato costituisse la più grande minaccia per l’ordine post-bellico che gli Stati Uniti volevano dominare, in quanto si sarebbe creato un vuoto di potere che avrebbe potuto essere riempito dal comunismo.
La paura reale, come avevano ben afferrato Malcolm e altri, come Lumumba, Fanon e Nkrumah, era che la liberazione e l’indipendenza della maggior parte del mondo avrebbero avuto il potenziale di radicalmente ridistribuire il potere e la ricchezza globale, lontano dal mondo dei bianchi.
Per contrasto, gli Stati Uniti espandevano la propria impronta imperiale sul terzo mondo e diffondevano la logica del razzismo coloniale, utilizzando l’“anti-comunismo” come mezzo per giustificare i loro interventi, il sostegno dei dittatori, il rovesciamento dei leader democraticamente eletti, gli omicidi e la destabilizzazione in tutto il terzo mondo (di testimonianza: Mossadeq, Arbenz, Lumumba e tanti altri).
Di conseguenza, la politica estera degli Stati Uniti utilizzava l’“anti-comunismo” come agente per procura nella corsa per insidiare la decolonizzazione del terzo mondo.

Malcolm balzava fuori da questo crogiolo della Guerra Fredda, in cui gli attivisti dei diritti civili abbracciavano un’identità americana e sostenevano che la “violenza di Jim Crow” era un tallone di Achille, che arrecava pregiudizio alle ambizioni globali degli Stati Uniti verso un terzo mondo già ostile alla supremazia bianca.
[N.d.tr.: Le “leggi Jim Crow” furono delle leggi locali e dei singoli stati degli Stati Uniti d’America, emanate tra il 1876 e il 1965, che servirono a creare e mantenere la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, istituendo uno status definito di “separati ma uguali” per gli Afro-americani e per i membri di altri gruppi razziali diversi dai bianchi. Alcuni esempi di “leggi Jim Crow” furono la separazione nelle scuole pubbliche, nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto e la differenziazione dei bagni e dei ristoranti tra quelli per bianchi e quelli per neri. Anche all’interno dell’esercito venne applicata la segregazione razziale.]

Malcolm era profondamente critico nei confronti di tutte le organizzazioni a favore dei diritti civili, che cercavano di addomesticare la lotta dei neri all’interno della struttura sociale degli Stati Uniti e sostenevano la logica dell’“anti-comunismo”.
Per Malcolm e gli altri, la struttura organizzativa in favore dei diritti civili in ambito nazionale, non comprendendo la natura globale della supremazia bianca, non mirava ad ottenere conquiste contro le discriminazioni razziali.
Invece di collegare i loro destini a quelli del terzo mondo in fase di decolonizzazione, annullando il sistema del potere bianco, i mandatari per i diritti civili mascheravano il potere bianco attraverso un atteggiamento riformista nazionale, facilitando al tempo stesso il radicamento aggressivo del potere bianco in tutto il mondo, assumendo la logica incrinata dell’“anti-comunismo”.

Nel 1964, Malcolm X nel suo tanto vituperato discorso “The Ballot or the Bullet – La scheda (di votazione) o la pallottola” contestava le istituzioni in favore dei diritti civili, affermando l’inutilità del voto nero come mezzo per conquistare la parità negli Stati Uniti.
Invece, sosteneva che il popolo nero aveva bisogno di internazionalizzare le sue lotte, collegandole alle lotte che si stavano svolgendo in tutto il terzo mondo dell’Africa, Asia e America Latina.

Così Malcolm affermava: “Non portate i vostri casi davanti alle corti criminali, portate i criminali davanti alle vostre corti!”.
Per Malcolm X, il passaggio da “diritti civili” a “diritti umani” avrebbe presentato la condizione dei popoli neri negli Stati Uniti ad un forum più ampio, che avrebbe costretto gli Stati Uniti a sottoporsi ad un esame critico e alla sfida del terzo mondo, e che avrebbe potuto far pendere la bilancia del potere in favore delle nazioni nere, in quanto avrebbe rivelato le ipocrisie degli Stati Uniti, compromesso gli obiettivi di politica estera di questo paese nei confronti del terzo mondo, e rivelato il diffondersi all’interno degli Stati Uniti del razzismo coloniale di stampo europeo.

Come parte del suo internazionalismo radicale, e in profondo contrasto con le istituzioni dei diritti civili, Malcolm sosteneva le lotte dei Palestinesi contro il sionismo, paragonava i ghetti di Harlem sottoposti a segregazione razzista alla Casbah di Algeri sotto il dominio coloniale francese, esaltava le prese di posizione di Nasser contro Inghilterra, Francia e Israele, celebrava la Conferenza di Bandung e la considerava come un modello per l’unificazione della politica culturale nera durante la Guerra Fredda, appoggiava la ribellione dei Mau Mau contro il colonialismo britannico e quella dei Vietnamiti contro la dominazione francese, incontrava Fidel Castro, lodava Lumumba come “il più grande Nero che abbia mai calpestato il continente africano”, e come Fanon, dava una giustificazione etica alla possibilità di lotta armata, fondamentalmente sfidando l’opinione generale all’epoca della Guerra Fredda.

Il post 11/settembre, ora.

Nell’epoca di iper-nazionalismo seguita all’11/settembre, che ha alimentato la guerra degli Stati Uniti contro il terzo mondo musulmano, l’eredità di resistenza lasciataci da Malcolm, con l’associazione dell’internazionalismo nero alle politiche del terzo mondo musulmano, ci fornisce un programma per sfidare il consenso all’ideologia imperiale che ha caratterizzato l’era post-11/settembre.

Proprio come l’“anti-comunismo” costituiva un pretesto per azioni razziali durante la Guerra Fredda, così l’“anti-terrorismo” è diventato il nuovo pretesto per azioni razziali e per il nuovo radicamento della supremazia bianca, a giustificazione dell’intervento degli Stati Uniti all’estero, mentre anche il dissenso interno viene represso, e la categoria…logica di “terrorismo” viene utilizzata per determinare chi è un cittadino e chi è un nemico, chi è umano e chi non lo è, e chi deve essere ucciso e chi ha il permesso di vivere.

Forgiatasi nell’era della Guerra Fredda, l’eredità di Malcolm può sfidare e contrastare l’accettazione da parte di organizzazioni sociali minoritarie (comprese le musulmane) della retorica del “terrorismo”, riconoscendone le sue radici da codificarsi razziali, e facendo assumere consapevolezza come l’“anti-terrorismo” venga utilizzato dagli organi di polizia contro il dissenso interno, ma anche per consentire la violenta espansione dell’impero degli Stati Uniti.

Non bisogna stare al gioco della logica dell’“anti-terrorismo” che tende a distinguere fra Musulmani “moderati” e “radicali”, altrimenti non si riesce a dare dignità alle sfide alla potenza degli Stati Uniti in tutto il mondo.

Mentre molti attivisti, artisti, studiosi e organizzazioni stanno infondendo le idee di Malcolm nel loro lavoro, è importante che le comunità nere e musulmane, così come le altre comunità di colore, continuino a sottolineare le profonde connessioni internazionaliste che Malcolm ha prodotto.

Il collegamento di queste lotte non corrisponde ad una visione romantica della solidarietà.

È il radicamento di una comprensione più profonda di quanto nella realtà siano strettamente connesse queste forze impetuose. Ed è la presa di coscienza che la persistenza del razzismo qui negli Stati Uniti è dovuta al fatto che la supremazia bianca è profondamente intrecciata con le stesse strutture di governo degli Stati Uniti, e perpetuamente prende respiro dal quotidiano procedere degli Stati Uniti nella conduzione dei loro affari, interni o esteri.

È il riconoscimento che la logica della carcerazione di massa negli Stati Uniti, che ha distrutto la possibilità politica dei neri e ha represso il dissenso e i movimenti di rivolta attraverso gli organi locali di polizia e di contro-insurrezione, è anche ciò che guida l’esercito americano e le sue carcerazioni imperialiste ad Abu Ghraib, Guantanamo, Bagram e in altri posti.

È il riconoscimento che la condizione dei migranti attraverso il confine pesantemente militarizzato fra Stati Uniti e Messico è del tutto paragonabile alla condizione che vede represse e distrutte le vite dei Palestinesi.

Ed è il riconoscimento che le politiche economiche neoliberiste, che hanno distrutto il salario sociale e hanno assistito all’emergere di uno stato di guerra permanente negli Stati Uniti, sono profondamente radicate nello sfruttamento del terzo mondo attraverso il capitale finanziario globale e la guerra.

Manifestare l’anti-razzismo solo in sede nazionale, e non considerare la supremazia bianca come un problema globale, o muovere solo tiepide critiche alla politica estera degli Stati Uniti, alle loro tattiche e strategie, e non criticare le loro condizioni sociali fondamentalmente razziste, suona a vuoto falsamente e fa perdere di vista l’obiettivo. Perché non fa riconoscere che la supremazia bianca è radicata nella struttura stessa delle relazioni globali che gli Stati Uniti hanno contribuito a porre in essere – un insieme di relazioni in cui diplomazia, traffici, manovre politiche, guerra e questioni di sovranità entrano in gioco in un campo decisamente dissestato, in cui Stati Uniti ed Europa esercitano un’influenza diplomatica opprimente, un potere politico e militare brutale.

Ignorare tutto ciò comporta l’adesione alle peggiori forme di internazionalismo liberista, che presuppongono gli Stati Uniti essere una “forza del bene” nel mondo, e si reitera la medesima questione che Malcolm X eroicamente ha combattuto, e per cui alla fine è stato ucciso.

Anche se le pallottole alla fine lo hanno abbattuto, Malcolm ha lasciato un’impronta indelebile sulle generazioni di artisti e attivisti. Ma la sua eredità è sotto attacco, e si tenta di cancellarla del tutto quando la presidenza Obama, con la sua narrazione trionfalistica sui diritti civili, mira a rendere le spinte propulsive internazionaliste dei popoli di colore irrilevanti e obsolete.

Mentre ci sono coloro che sostengono che il voto per Obama è l’unica cosa pragmatica da fare, e che votare per una terza parte politica (non democratica, né repubblicana) o non votare è un’opzione del tutto “impraticabile” e “sbagliata”, Malcolm potrebbe rovesciare la questione e chiedere quanto “positivo” sia votare per uno dei due principali partiti, quando le forze violente che li determinano sono così intrattabili e resistenti ad ogni cambiamento, tanto meno ad una profonda trasformazione?

E quando ci si confronta con tali forze, tenendo ben presenti alla mente tutti coloro che in passato hanno tentato tanto valorosamente di contrastare queste forze, è praticabile continuare ad investire e ad impegnarsi in questo processo e aspettarsi qualcosa di diverso? A ben vedere, tutto ciò non risulta “impraticabile” e il percorso non pertinente?

Per contatti su Twitter: @SohailDaulatzai

Note del traduttore su personaggi ed eventi citati nel documento:

Malcolm X, pseudonimo di Malcolm Little, (Omaha, 1925 – New York, 1965), è stato un attivista statunitense a favore dei diritti degli Afro-americani e dei “diritti umani” in genere.
Figlio di un predicatore negro, dopo avere aderito al movimento dei “Musulmani neri” ne uscì nel 1964 in seguito ai contrasti sorti sulla linea separatista del movimento e formò l’Organizzazione per l’unità afro-americana, ispirata ad una linea di nazionalismo negro e di solidarietà con tutti i popoli oppressi non di razza bianca.
Malcolm X teorizzava il ricorso all’autodifesa armata in nome dei “diritti umani”, che si collocano al di sopra dei “diritti civili”.
Fu assassinato durante un comizio a New York il primo giorno della Settimana Nazionale della Fratellanza per mano di membri dell’organizzazione di cui era stato portavoce, la Nation of Islam.
È considerato uno dei più grandi, ma anche controversi, capifila afro-americani del XX secolo. Alla fine di una lunga evoluzione del suo pensiero, sostenne che la religione islamica fosse capace di abbattere ogni barriera razziale e ogni forma di discriminazione.
Il fascino della personalità di Malcolm X resta consegnato soprattutto alle pagine della sua “Autobiografia”, uscita postuma nel 1965; sono state pubblicate, anch’esse postume, due raccolte di scritti, “Ultimi discorsi” (1965) e “Con ogni mezzo” (1970).

Patrice Émery Lumumba (Onalua, 1925 – Katanga, 1961) uomo politico della Repubblica Democratica del Congo, è stato il primo premier della neonata Repubblica Democratica del Congo, tra il giugno ed il settembre del 1960.
Nel 1958, in occasione dell’Esposizione Universale, alcuni Congolesi furono invitati in Belgio. Lumumba vi partecipò e ne approfittò per contattare gli ambienti anticoloniali. Tornato in Congo, il 5 ottobre 1958 Lumumba creò a Léopoldville il Movimento Nazionale Congolese (MNC), portatore di un programma nazionalistico rigoroso, e in questa veste partecipò alla conferenza panafricana di Accra. Al ritorno riuscì ad organizzare una riunione per rendere conto dei lavori della conferenza, nel corso della quale rivendicò l’indipendenza dal Belgio, di fronte a più di diecimila persone.
Nell’ottobre 1959 cominciarono le prime contese politiche: il MNC ed altri partiti indipendentisti organizzarono una riunione a Stanleyville. Malgrado il forte sostegno popolare di cui godeva, le autorità belghe cercarono di isolare Lumumba – il risultato fu una sommossa con una trentina di morti. Lumumba fu arrestato alcuni giorni dopo, giudicato e condannato a 6 mesi di prigione, il 21 gennaio 1960. Nello stesso tempo, però, le autorità belghe organizzavano riunioni con gli indipendentisti, alle quali partecipò anche Lumumba, liberato di fatto il 26 gennaio.
Con generale sorpresa, il Belgio accordò l’indipendenza al Congo. La data fu fissata al 30 giugno 1960.
Il MNCL, Movimento Nazionale Congolese di Liberazione vinse con i suoi alleati le elezioni organizzate per maggio e il 23 giugno 1960, Patrice Emery Lumumba divenne il 1° Primo Ministro del Congo indipendente e toccò a lui pronunciare lo storico “discorso dell’indipendenza”.
Ma le autorità belghe (e soprattutto le compagnie minerarie) non pensavano ad un’indipendenza piena ed intera: una buona parte dell’amministrazione e i quadri dell’esercito dovevano restare belgi.
Lumumba sfidò il Belgio colonialista decretando l’africanizzazione dell’esercito. Il Belgio rispose inviando truppe in Katanga (la regione mineraria), sostenendo la secessione di questa regione guidata da Mosè Tschombe.
A settembre, il presidente della Repubblica Democratica del Congo, Joseph Kasa-Vubu, revocò Lumumba e gli altri ministri nazionalisti. Lumumba dichiarò che sarebbe rimasto in carica e su sua richiesta il parlamento, acquisito alla sua causa, revocò il presidente Kasa-Vubu.
La politica di Lumumba era antisecessionista, anticolonialista, antimperialista, filocomunista e mirava a diminuire il potere e l’influenza delle tribù, e a una maggiore giustizia sociale e autonomia del paese.
In dicembre il colonnello Mobutu, succeduto a Kasa-Vubu, con un colpo di stato fece arrestare Lumumba. Il 17 gennaio 1961, Lumumba e due suoi fedeli (Mpolo e Okito) furono trasferiti in aereo alla presenza dei loro grandi nemici a Elisabethville (l’attuale Lubumbashi), in Katanga.
Furono giustiziati la sera stessa alla presenza di Tshombe, Munongo, Kimba e di altri dirigenti del Katanga secessionista.
L’indomani i resti delle vittime furono fatti sparire nell’acido. Molti dei suoi sostenitori furono giustiziati nei giorni seguenti, pare con la partecipazione di mercenari belgi.
Lumumba fu molto rimpianto da tutta la comunità dei paesi non allineati e da numerosi esponenti politici (quali ad esempio Che Guevara, che protestò con fermezza contro il suo assassinio).
Il generale Mobutu, uno dei suoi boia, lo consacrò nel 1966 eroe nazionale, mossa dettata dalla demagogia del dittatore.
Gli Stati Uniti favorirono la morte di Lumumba con il pretesto che la sua politica filocomunista faceva temere una deriva dell’ex Congo Belga verso l’Unione Sovietica. In effetti Lumumba fece appello ai Sovietici, al momento della guerra del Katanga, perché l’ONU non rispose alle sue richieste di aiuto militare per mettere fine alla guerra civile.
La CIA aiutò finanziariamente gli avversari di Lumumba e fornì armi a Mobutu.
Il governo belga ha riconosciuto, nel 2002, una responsabilità negli eventi che portarono alla morte di Lumumba: “Alla luce dei criteri applicati oggi, alcuni membri del Governo di allora ed alcuni personaggi belgi dell’epoca portano una indiscutibile responsabilità negli eventi che hanno condotto alla morte di Patrice Lumumba. Il Governo considera perciò appropriato porgere alla famiglia di Patrice Lumumba e al popolo congolese il proprio profondo e sincero rincrescimento e le proprie scuse per il dolore che è stato loro inflitto da quell’apatia e da quella fredda neutralità.”
Lumumba fu il primo, e per oltre quarant’anni l’unico, dirigente politico democraticamente eletto nella Repubblica Democratica del Congo.

Frantz Fanon (Fort-de-France, 1925 – Washington, 1961) è stato uno psichiatra, scrittore e filosofo francese della Martinica.
Nacque in una famiglia discendente da schiavi africani. La sua famiglia apparteneva alla piccola borghesia, ciò permise a Fanon di frequentare un liceo per soli neri. Fin dall’adolescenza maturarono in lui sentimenti di alienazione e di disgusto per il razzismo colonialista.
Durante la Seconda guerra mondiale combatté con la Resistenza Francese e in seguito proseguì i suoi studi di psichiatria, ottenendo la laurea nel 1951.
Divenne responsabile di una divisione dell’Ospedale psichiatrico di Blida, in Algeria, e durante la Guerra d’Algeria, egli collaborò apertamente con il Fronte di Liberazione Nazionale Algerino (F.L.N.) e ne divenne il portavoce.
Nel 1957 venne espulso dal paese a causa della sua collaborazione con il Governo Provvisorio della Repubblica Algerina (G.P.R.A.).
Si trasferì in Tunisia, dove scrisse molti saggi raccolti nel libro “Pour la révolution africane”, uscito postumo. In questo libro Fanon si occupa di strategia militare, di come organizzare e aprire un fronte meridionale di guerra contro i colonialisti Francesi.
In questo periodo di frenetiche attività gli venne diagnosticata la leucemia. In occasione di una visita clinica a Roma incontra Jean-Paul Sartre; in seguito si trasferì negli Stati Uniti, per seguire una nuova cura. Morì il 6 dicembre 1961, nel Maryland, sotto il nome di Ibrahim Fanon..
Nelle sue opere più famose, egli analizza il processo di decolonizzazione dal punto di vista sociologico, filosofico e psichiatrico.
Nella sua opera più conosciuta, “I dannati della terra”, un manifesto per la lotta anticoloniale e per l’emancipazione del Terzo Mondo, pubblicata per la prima volta nel 1961 con la prefazione di Jean-Paul Sartre, Fanon analizza il ruolo della classe, razza e violenza nell’ambito delle lotte di liberazione nazionale, si auspica l’avvento di un nuovo modello mondiale, totalmente svincolato dai modelli politico-sociali precedenti, realizzabile tramite una rivoluzione globale (avente qualche richiamo con le idee rivoluzionarie trozkiste), che innanzitutto formi una classe sociale svincolata dall’influenza e dai “benefici” degli imperialisti.
L’idea dell’“uomo nuovo” e della “coscienza nera” ha esercitato la sua influenza su tanti leader rivoluzionari, uno fra tutti Che Guevara, estendendosi ai movimenti di liberazione palestinese, alle Pantere Nere, e a tutti quei movimenti che nel mondo lottavano per la autodeterminazione.
Durante il suo soggiorno in Francia, Fanon ha scritto il suo primo libro “Black Skin, White Masks – Pelle nera, Maschere bianche”, un’analisi degli effetti della soggiogazione coloniale sulla psiche umana, in particolare descrive la sua personale esperienza di intellettuale di colore immerso in un contesto bianco ed elabora, in questa opera che è a metà strada fra un saggio di analisi ed un manifesto, le modalità attraverso le quali le relazioni fra colonizzatore e colonizzato vengono, per così dire, normalizzate dalla psicologia e dalla cultura.
Fanon, che, per cultura e istruzione, si riteneva un Francese a tutti gli effetti, evidenziò tutto il suo disorientamento causato dal razzismo francese provato sulla sua pelle.
Secondo Fanon, il linguaggio assume un ruolo importante nella formazione di una coscienza e di una consapevolezza individuale, quindi esprimersi in lingua francese vuole significare l’accettazione, volontaria o coercitiva, della cultura francese, comprendente “l’identificazione del nero come simbolo del male”. Questi valori della cultura dominante, quando vengono assimilati e interiorizzati, creano una frattura fra la coscienza, la consapevolezza dell’uomo di colore e il suo corpo, che produce una alienazione.
La recente pubblicazione in due volumi degli “Scritti politici” per i tipi di DeriveApprodi rende interamente disponibile in lingua italiana tutta la produzione dell’autore.

Francis Nwia-Kofi Ngonloma, meglio noto come Kwame Nkrumah (Nkroful-Costa d’Oro, 1909 – Romania, 1972), è stato un rivoluzionario e politico ghanese, figura di spicco nella storia della decolonizzazione e del panafricanismo.
Fu il primo presidente del Ghana indipendente e il primo leader dell’Africa nera a far ottenere al suo paese l’autogoverno. Ancora molto popolare tra i suoi connazionali e tra gli Africani in genere per il suo impegno a favore di un’unione politica tra gli Stati africani e la sua denuncia del neocolonialismo, è stato spesso oggetto di critiche negli Stati Uniti e in Europa per i suoi metodi autoritari di governo e il suo radicalismo.
Specializzatosi in sociologia all’università negra di Lincoln in Pennsylvania e alla London School of Economics, nell’immediato dopoguerra militò nel movimento nazionalista della Costa d’Oro, divenendo nel 1947 segretario della Union Gold Coast Covention, quindi fondando nel 1949 il Convention People’s Party (CPP), di tendenze laburiste e indipendentiste.
Incarcerato dalle autorità coloniali inglesi nel 1950, torna libero in seguito alla vittoria elettorale del proprio partito e nel marzo 1952 diviene primo ministro della Costa d’Oro, fino alla completa indipendenza del paese, nel 1957, che assunse il nome di Ghana.
In questo anno divenne presidente della Repubblica del Ghana.
Di tendenze marxiste, Nkrumah si affermò ben presto alla conferenza di Accra del 1958 come uno dei più prestigiosi capi di Stato africani per il suo coerente impegno antimperialista e panafricanista in politica estera. I suoi sforzi erano orientati a collegare la decolonizzazione economica e politica del suo paese all’edificazione di una società socialista aderente alla realtà africana.
Dotatosi di potere assoluti (Costituzione del 1960), ma comunque considerato un capo carismatico col titolo di Osagyefo (il Redentore), Nkrumah incontrò notevoli resistenze negli ambienti conservatori del paese. Il 24 febbraio 1966, mentre era impegnato in una missione di pace ad Hanoi, l’esercito e la polizia annunciarono la sua estromissione dal potere, la sospensione della Costituzione e la formazione di un governo militare provvisorio. Nkrumah trovò ospitalità in Guinea.
Il 27 aprile 1972 Kwame Nkrumah morì di cancro in Romania, dove si era recato per curarsi. Nkrumah è stato e resta un punto di riferimento per tutta l’Africa e una delle figure più importanti nella lotta contro il colonialismo e per l’emancipazione dei popoli del terzo mondo, tanto da essere stato votato dagli ascoltatori africani della BBC “Uomo del Millennio” nel 2000.

Mohammad Mosaddeq, (Teheran, 19 maggio 1882 – Ahmadābād, 4 marzo 1967), uomo politico iraniano, appartenente ad una ricca famiglia di proprietari terrieri, si laurea in diritto in Svizzera, e nel 1915 viene eletto deputato al parlamento di Teheran.
Con l’ascesa al trono nel 1926 dello scià Reza Pahlavi, Mossadeq viene allontanato per le sue idee
riformatrici e liberali. Incarcerato dal 1938 al 1941, con l’arrivo del nuovo scià Pahlavi, gli Alleati ne ottengono la liberazione e quindi torna in Parlamento nel 1943 come esponente della sinistra moderata.
Nel 1949 fonda il Partito del Fronte nazionale, che si batteva contro l’autocrazia della corona e contro le ingerenze straniere nella vita politica dell’Iran.
A lui risale in particolare la campagna in favore della nazionalizzazione della società petrolifera britannica Anglo-Iranian Oil Company, che portò alla caduta del governo filo inglese nel marzo 1951.
Appena nominato primo ministro il mese seguente, impegnò una risoluta prova di forza con la Compagnia, requisendone le proprietà ed espellendone i tecnici. Dette inizio allo smantellamento dell’Anglo-Iranian Oil Company e alla costituzione della National Iranian Oil Company. Questo condusse alla rottura con Londra, che minacciò addirittura un intervento armato. La Gran Bretagna congelò i capitali iraniani che si trovavano in gran parte nelle sue banche, rafforzò la presenza militare nel Golfo Persico, attuò un blocco navale che impediva l’esportazione di petrolio e dispose un embargo commerciale.
La questione fu portata all’attenzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Mossadeq si recò personalmente a New York per difendere il suo Paese e riportò una schiacciante vittoria diplomatica sull’Inghilterra. Egli proseguì il suo viaggio negli Stati Uniti con una visita a Washington dove incontrò il Presidente Truman . Per la sua vittoria all’ONU egli fu proclamato “Uomo dell’anno 1951” dalla rivista Time.
Nonostante i successi diplomatici, nell’impossibilità di esportare il suo petrolio, l’economia iraniana giunse al collasso e a Mossadeq – che intendeva trasformare il paese in una monarchia costituzionale – furono concessi dal Parlamento poteri straordinari per limitare l’influenza dello Scià. Diminuì il budget della Corte e delle forze armate per finanziare la sanità, vietò al sovrano di mantenere contatti con i capi di governi esteri (prerogativa attribuita al ministero degli Esteri), fece approvare una riforma agraria che tendeva a un minimo di ridistribuzione dei raccolti (nelle campagne vigeva ancora una sorta di sistema feudale) e impose una riforma fiscale efficace in un paese in cui i ricchi e i potenti non pagavano le tasse.
L’appoggio popolare e l’apertura tardiva all’estrema sinistra non impedirono ai poteri forti della corte di preparare la caduta di Mossadeq, che nel 1953 venne rovesciato da un colpo di Stato militare. Condannato a morte, poi graziato, il vecchio statista rimase in carcere fino al 1956 e poi si ritirò a vita privata, al confino ad Ahmadabad.

Il Colonnello Jacobo Arbenz Guzmán (Quetzaltenango, 1913 – Città del Messico, 1971) è stato un politico e militare guatemalteco.
Nel 1944 Guzmán, fra i promotori della rivoluzione popolare, appoggiò la ribellione che depose il dittatore Jorge Ubico e fu Ministro della Difesa nel governo del riformista e progressista Juan José Arévalo.
Ispirato da ideali politici della sinistra socialista, fu il presidente riformista, democraticamente eletto, del Guatemala dal 1951 al 1954. Il suo programma elettorale, basato sull’indipendenza economica del Guatemala dagli Stati Uniti, ricevette il sostegno soprattutto delle classi meno abbienti.
Dopo essere stato eletto, Arbenz Guzmán tentò di nazionalizzare la United Fruit Company (UFC), una compagnia degli Stati Uniti che controllava gran parte del terreno agricolo della nazione.
In base alla legge internazionale, un giusto compenso deve essere concesso per le proprietà straniere che vengono nazionalizzate. Venne calcolato un compenso di 600.000 dollari, basandosi sul valore sottostimato dei terreni, che la UFC aveva dichiarato allo scopo di non pagare le tasse e che la compagnia ovviamente non ritenne sufficiente.
Nel 1952 il Partito Comunista dei Lavoratori guatemalteco venne legalizzato; come conseguenza i comunisti guadagnarono una considerevole influenza all’interno di importanti organizzazioni contadine, nei sindacati e nel partito politico al governo (Guzmán aveva deciso di allargare con loro la sua maggioranza parlamentare).
Per proteggere i suoi interessi nella nazione, l’UFC e le banche che la sostenevano, collaborarono con la CIA per persuadere l’amministrazione statunitense (Truman presidente) che Arbenz era un comunista o al meglio un socialista che stava aprendo la strada a una presa del potere da parte dei comunisti. All’epoca, Allen Dulles era direttore della CIA. L’amministrazione ordinò alla CIA di sponsorizzare un colpo di stato. Accusato dalle destre di filocomunismo, Arbenz fu costretto alle dimissioni da un’invasione di esiliati guatemaltechi finanziata dagli Stati Uniti e comandata da C. Castillo Armas.
Venne istaurata una brutale dittatura, una delle più sanguinose della regione per lungo tempo.
Arbenz trovò inizialmente rifugio a Cuba (Fidel Castro e Guzmán si stimavano a vicenda) dove rimase fino al 1965, per poi trasferirsi trasferì nello stesso anno in Messico.
Jacobo Arbenz Guzmán morì nel gennaio del 1971, in circostanze misteriose: fu trovato esanime nel suo bagno ed il suo decesso fu dovuto o ad un annegamento o alle ustioni causate dall’acqua troppo calda. La dinamica, particolarissima, della morte ha destato numerosi sospetti e varie sono state le ipotesi che descrivono la sua scomparsa come un omicidio.

Gamāl Abd al-Nāṣer (Nasser) (Alessandria d’Egitto, 1918 – Il Cairo, 1970) è stato un militare e politico egiziano, secondo Presidente della Repubblica, dal 16 gennaio 1956 al 28 settembre 1970.
Di famiglia modesta, entrò nell’Accademia militare del Cairo e combatté nella guerra di Palestina del 1948-49, arrivando poi al grado di colonnello.
La constatazione della clamorosa impreparazione dell’esercito e del Paese rafforzarono i suoi sentimenti repubblicani. A quel tempo, l’Egitto era una monarchia fantoccio della Gran Bretagna e sul trono sedeva re Fārūq I.
Partecipò così ai dibattiti all’interno dell’esercito, che sfociarono nella costituzione dell’organizzazione segreta dei “Liberi Ufficiali”, divenuta poi il modello di riferimento di quasi tutti i movimenti clandestini filo-repubblicani del mondo arabo nel secondo dopoguerra.
Nella notte fra il 22 e il 23 luglio 1952 la monarchia fu abbattuta da un colpo di Stato, fu formato un governo provvisorio, e a guidarlo fu chiamato il generale d’origine nubiana Nagīb, che il 18 giugno 1953 divenne il primo Presidente della Repubblica.
Nel 1954 Nasser assunse tutti i poteri come leader riconosciuto della rivoluzione egiziana, il Rais, e presidente della repubblica, ininterrottamente dal 1956 alla sua morte.
La rivoluzione detta “nasseriana” modificò profondamente le istituzioni e le strutture economico-sociali dell’Egitto attraverso un processo, non sempre coerente, che distrusse la vecchia stratificazione sociale, che vedeva il predominio dell’aristocrazia e della borghesia terriera, e promosse uno sviluppo che, sotto alcune parole d’ordine “socialiste”, di fatto portò al potere la burocrazia e i nuovi ceti legati all’apparato dello Stato.
Nasser era ben cosciente che la rivoluzione si stava evolvendo in fasi di transizione, dal feudalesimo a forme di capitalismo nazionale di Stato, che non vedeva l’avvio di passaggi che avrebbero dovuto, da una parte democratizzare il regime, e dall’altra fare delle classi lavoratrici le vere protagoniste di una rivoluzione autenticamente socialista.
Per quasi vent’anni Nasser fu comunque il centro della rivoluzione, il suo animatore, per certi aspetti il garante, ma anche il mediatore fra le diverse tensioni. A lui si deve la politica del panarabismo e, dopo la conferenza di Bandung del 1955, la scelta del neutralismo.
Per recuperare appieno l’indipendenza dell’Egitto, il 26 luglio 1956, Nasser nazionalizzò il canale di Suez, fino allora gestito da una Compagnia franco-britannica, sfidando il colonialismo occidentale, ma questa azione fornì anche il pretesto per Francia e Regno Unito di organizzare un’operazione militare congiunta contro l’Egitto, cui si unì Israele che riuscì a condurre una brillante operazione militare, in risposta alla minaccia di Nasser d’impedire allo Stato ebraico il transito attraverso il Canale di Suez.
Questa operazione militare si concluse con la rapida conquista dell’intero Sinai, il 31 ottobre truppe anglo-francesi bombardarono Il Cairo, e il 5 novembre occuparono Port Said.
La guerra del 1956 fu interrotta dall’intervento congiunto sovietico-statunitense, il “cessate-il-fuoco” entrò in vigore l’8 novembre, ed il 15 dello stesso mese, truppe di pace dell’ONU giunsero nella zona di guerra.
La guerra del 1967 fu ancor più devastante per l’Egitto e per le sorti del “nasserismo” e della sua concezione panaraba. Alla testa di una coalizione militare che, oltre all’Egitto, comprendeva la Siria e la Giordania, ottenne il ritiro delle truppe interposte dell’ONU lungo il confine israelo-egiziano e decise di bloccare i passaggi marittimi verso Israele.
Malgrado fosse stato ammonito da Tel Aviv che la chiusura alla navigazione degli Stretti di Tiran avrebbe rappresentato un casus belli, l’aviazione e l’esercito egiziani si fecero cogliere il 5 giugno 1967 del tutto impreparati nelle loro basi (con la distruzione in un solo attacco di 300 velivoli militari, tutt’altro che in stato di allerta e posizionati a terra) dalle forze armate israeliane guidate dal Capo di Stato Maggiore, generale Moshe Dayan.
Israele, che aveva con grande determinazione scatenato il suo attacco e conseguiti i suoi obiettivi tattici e strategici, non ebbe alcuna difficoltà ad inglobare quanto restava della Palestina (Cis-Giordania sotto amministrazione giordana), le alture siriane del Golan e l’intera penisola del Sinai egiziana mediante una rapidissima azione di accerchiamento, come pure la palestinese Striscia di Gaza che l’Egitto amministrava dal 1948.
Nonostante la colossale sconfitta militare, Nasser continuò ad avere l’appoggio delle grandi masse di popolazione egiziana, grazie al suo innegabile carisma. Ciò nondimeno l’esperienza nasseriana era ormai segnata dalla catastrofe militare e politica del 1967 ed anche il dibattito interno – che pure era inizialmente stato molto vivace – fu sempre più mal sopportato dal regime che, negli anni precedenti, aveva provveduto a soffocare qualsiasi tipo di opposizione, specie quella rappresentata dai Fratelli Musulmani.
Gamāl Nasser morì il 28 settembre 1970 nella residenza presidenziale per un attacco cardiaco e al suo funerale al Cairo partecipò una folla commossa di vari milioni di persone. Alla Presidenza della Repubblica salì il vicepresidente Anwar al-Sādāt, che con lui aveva fatto parte del movimento dei “Liberi ufficiali”.

Conferenza di Accra del 1958 .All’insegna del panafricanismo si svolge la prima Conferenza degli Stati Africani Indipendenti, promossa da Kwame Nkrumah e tenutasi ad Accra nel 1958, poco dopo l’indipendenza del Ghana. Vi parteciparono tutti gli Stati africani già indipendenti, (ad eccezione del Sudafrica, emarginato per la sua politica razzista): Egitto, Sudan, Libia, Tunisia, Liberia, Marocco ed Etiopia. Era il primo appuntamento “panafricano” ad essere indetto dai governi africani in Africa, e non dagli Africani della diaspora in Europa.
Alla fine dello stesso anno Nkrumah convocò un’altra conferenza alla quale vennero invitati a partecipare i leader e i movimenti che lottavano per l’indipendenza dei loro paesi, per un totale di 62 movimenti nazionalisti e di liberazione. Tra i partecipanti figuravano Frantz Fanon, Patrice Lumumba, l’algerino Ahmed Ben Bella, Modibo Keita del Mali e Sekou Touré della Guinea.
Il termine “panafricanismo” fu inventato nel 1900 dall’avvocato di Trinidad Henry Sylvester Williams che convocò a Londra una conferenza per “protestare contro il furto di terre nelle colonie, la discriminazione razziale e discutere in generale dei problemi dei neri”.
In generale la parola ha due significati collegati fra loro:

1) Un movimento che promuove l’unità politica e il sentimento di identità comune tra i paesi africani (in particolare quelli dell’Africa nera) e si sforza di costruire istituzioni che rendano effettiva questa unità.

2) L’idea che le persone di colore in ogni paese del mondo siano per prima cosa cittadini dell’Africa (Africani della diaspora), concetto che è alla base dei movimenti neri nazionalisti e, nella variante del ritorno all’Africa proposta dal giamaicano Marcus Garvey, ha una qualche affinità con il sionismo ebraico.

La Conferenza afroasiatica di Bandung si tenne dal 18 al 24 aprile 1955, in Indonesia. Essa fu convocata su iniziativa di India, Pakistan, Birmania, Ceylon, Repubblica Popolare Cinese e Indonesia allo scopo di cercare una coesione fondata sui caratteri comuni di povertà e arretratezza e di riunire tutti i paesi neutrali durante la guerra fredda (i “paesi non allineati”).
I protagonisti dell’incontro al vertice furono l’indonesiano Sukarno, lo jugoslavo Tito, l’indiano Nehru e il cinese Zhou Enlai. Il più prestigioso leader del mondo arabo che prese parte alla conferenza fu l’egiziano Nasser.
I delegati dei 29 paesi partecipanti, 23 asiatici e 6 africani, sottoscrissero cinque principi, che avrebbero dovuto regolare i rapporti fra le nazioni: rispetto della integrità territoriale e della sovranità; non ingerenza negli affari interni; non aggressione; relazioni economiche basate sulla parità e sul mutuo vantaggio; coesistenza pacifica.
La Dichiarazione finale della conferenza proclamò l’eguaglianza tra tutte le nazioni, il sostegno ai movimenti impegnati nella lotta al colonialismo, il rifiuto delle alleanze militari egemonizzate dalle superpotenze e i principi fondamentali di cooperazione politica internazionale fra i Paesi aderenti.
La Conferenza segnò l’affermazione del Terzo Mondo e del movimento dei “Non Allineati” sulla scena mondiale.
Il termine “Terzo Mondo” fu utilizzato per la prima volta dal giornalista francese Sauvy, non ha una connotazione denigratoria, ma riprende il dibattito della Rivoluzione francese sul “Terzo Stato”.
La conferenza di Bandung contribuì ad accelerare il processo di decolonizzazione e all’emergere di un nuovo gruppo di paesi, quel “Terzo Mondo” non compreso né nel blocco comunista né in quello occidentale. In seguito sarà la Conferenza di Belgrado, tenutasi nel 1961, che riunirà alcuni di tali paesi e porrà le basi del Movimento dei Non-Allineati.

Mau-Mau è il nome di un movimento politico nazionalista sorto nel Kenya nel 1948 in opposizione al dominio coloniale della Gran Bretagna.
Nato dalla Kikuyu Central Association fondata intorno al 1920 da Jomo Kenyatta e altri patrioti di colore, il movimento Mau-Mau divenne poi il braccio armato dell’organizzazione Kenya Africa Union che, sempre sotto la guida di Kenyatta, tendeva a creare un fronte unitario anti-coloniale.
Anche se male armati, i Mau-Mau seppero dare del filo da torcere alle truppe britanniche per molto tempo, impiegando la tattica della guerriglia nelle boscaglie dell’interno e del terrorismo nelle grandi città e contro le fattorie isolate.
Il movimento Mau-Mau venne represso dalle forze britanniche che operarono molto duramente, creando perfino campi di concentramento destinati alla popolazione kikuyu, per controllare molto meglio i ribelli. Anche se sconfitto sul piano militare, il movimento Mau-Mau restò una delle maggiori esperienze politiche della nuova Africa e particolarmente del Kenya indipendentista, fornendo molte delle figure che, dopo la concessione dell’indipendenza al paese, avrebbero poi guidato il Kenya: primo fra tutti Jomo Kenyatta, per anni presidente della Repubblica.

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