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Ankara incendia il “corridoio curdo”

Stati Uniti, Nato e Turchia si stanno infilando nel “corridoio curdo” e nei territori sotto controllo del Califfato per insediare una “fascia di sicurezza” senza sapere bene che fare e quali saranno le conseguenze. Dopo avere chiesto ai curdi siriani e ai peshmerga del Pkk di esercitare il ruolo sacrificale della “fanteria” contro l’Isis, appoggiati dall’aviazione della coalizione internazionale, gli occidentali hanno salutato con entusiasmo la svolta turca di partecipare alla guerra contro i jihadisti, accorgendosi poche ore dopo di essere inciampati in una gaffe: alla Turchia interessa prima di tutto evitare la nascita di uno stato curdo ai suoi confini, poi si parlerà del resto.

Quello che è accade è il risultato fatale di quattro anni di politiche ambigue e di clamorosi errori di valutazione sul conflitto in Siria (e in Iraq), al punto che persino l’Alleanza atlantica, dopo avere schierato un paio d’anni fa i Patriot ed essere piombata nel torpore, si è improvvisamente svegliata convocando oggi, su richiesta di Ankara, una riunione straordinaria per esaminare quanto accade ai confini del Patto. Lo stesso segretario generale Jens Stoltenberg ha precisato che non ci saranno aiuti militari e la Turchia «deve esercitare un’auto-difesa proporzionata per non vanificare i colloqui di pace con il Pkk».

Deve esser sfuggito a Stoltenberg che il presidente Erdogan aveva di fatto già congelato da mesi le trattative quando ha capito che l’ascesa del partito curdo Hdp, entrato in Parlamento, e i successi militari dei curdi siriani contro l’Isis lo stavano mettendo spalle al muro, indebolendo la posizione negoziale del governo con il Pkk di Abdullah Ocalan.

Che cos’è il corridoio curdo? È la posta in gioco di una guerra dove si decideranno, un giorno, anche i nuovi confini della Siria e dell’Iraq. Sottraendo allo Stato Islamico il controllo di alcune città strategiche al confine turco-siriano, i curdi sono riusciti a unificare due dei tre cantoni del Rojava, quelli di Hasaka e Kobane, creando i presupposti per collegare il cantone occidentale di Afrin alla parte centro-orientale del Rojava.

Uno scenario da incubo per la Turchia. Ankara teme che l’unificazione dei cantoni porti a uno Stato curdo nel Nord della Siria connesso anche al Kurdistan iracheno di Massud Barzani. Non solo. Visti i profondi rapporti tra le forze curde siriane e il Pkk, il partito marxista leninista creato da Ocalan avrebbe un nuovo status da esibire sul piano internazionale.

Anche se non viene fondato uno stato curdo, la Turchia è in difficoltà perché sarebbe costretta a negoziare con il Pkk e la sua ala siriana il sostegno ai ribelli anti-Assad e alla coalizione, per altro strapiena di qaedisti, forgiata dall’accordo di Riad tra Erdogan e il re saudita Salman.

Questa alleanza è il pilastro dell’eventuale rivincita dei sunniti contro alauiti e sciiti in Siria e in Iraq per la futura spartizione del Levante: agli occhi delle potenze sunnite è diventata sempre più urgente dopo l’accordo di Vienna sul nucleare che amplia i margini di manovra dell’Iran. In pratica l’Occidente potrebbe regalare la Siria ai jihadisti “buoni”, amici di Riad.

Cosa vuole La Turchia? Ankara è divisa tra ambizioni e paure. Teme di dovere confinare con una zona curda e allo stesso tempo vorrebbe decidere la sorte della Siria e la fine di Assad. Cosa chiedono i turchi alla Nato? Un assenso, da contrattare con gli americani, a una no-fly-zone tra il confine turco e l’area di Aleppo per insediare zone di sicurezza dove infilare i profughi siriani e i militari turchi spezzando i tentativi di unità territoriale dei curdi.

La Turchia «non invierà truppe di terra in Siria», ha assicurato il primo ministro, Ahmet Davutoglu, ma lui stesso qualche mese fa, entrando in territorio siriano con un convoglio militare per visitare la tomba di Suleyman Shah, aveva dichiarato con enfasi che «la Turchia rimuoverà il confine con la Siria», riecheggiando lo slogan di Erdogan «la Turchia è la Siria, la Siria è la Turchia». Forse i turchi muoveranno le truppe dopo le trattative con gli americani per la base di Incirlik e la nomina di un nuovo capo di stato maggiore più gradito a Erdogan che vede in questa guerra la possibilità di imporre, come già sta facendo, una sorta di stato d’emergenza e decidere il futuro politico del Paese, anche con elezioni anticipate.

La verità è che i leader turchi sono degli improvvisatori non meno di quelli occidentali. Persino Putin, con tutte le sue vere e presunte malefatte, appare meno confuso e ha telefonato a Erdogan per proporre una sorta di alleanza «sulla base del diritto internazionale», contro lo Stato islamico e il terrorismo. La guerra che verrà riserverà per tutti amare sorprese.

* da http://www.ilsole24ore.com

 

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