Da un mese l’ATAC, l’azienda dei trasporti pubblici di Roma, campeggia sulle prime pagine dei giornali locali e nazionali: tra “scioperi bianchi”, tentativi di linciaggi dei dipendenti, dichiarazioni roboanti su possibili privatizzazioni, ecc.
Tutto è cominciato a inizio Luglio, quando l’azienda decide di disdettare unilateralmente tutto quello che la contrattazione di secondo livello dal ’62 ad oggi(!) assicurava ai propri dipendenti.
Una misura volta al “recupero della produttività” e che in soldoni si traduce nella diminuzione del salario variabile e in aumenti dell’orario di lavoro. Segue immediato un piccolo presidio dei lavoratori, mentre cominciano i primi rallentamenti e proteste dei macchinisti, i primi ad essere colpiti da queste misure. Subito scattano le reazioni dell’utenza, tra aggressioni verbali e fisiche e veri e propri linciaggi ai danni dei lavoratori. A contribuire a questo clima è la voce pompata ad arte dalla stampa per cui alla base della protesta ci sarebbe il rifiuto del controllo elettronico delle presenze, il cosiddetto badge (Il Sole 24 Ore ad esempio insiste ancora su questa interpretazione), che effettivamente rientra tra le misure introdotte ma che in realtà conta poco per i lavoratori (la cui presenza effettiva viene già controllata attraverso la firma nei turni) e che ne denunciano al massimo la irrazionalità: costringe a presenziare anche durante i tempi morti e rende praticamente impossibile ricorrere agli straordinari per coprire i turni mancanti, paralizzando il servizio.
Ad ogni modo la protesta colpisce: numerosi treni registrano rallentamenti e tante corse saltano, per via della decisione dei macchinisti di attenersi alla lettera al regolamento sulla sicurezza (ad esempio non facendo viaggiare i treni privi di aria condizionata, come dovrebbe essere) e di astenersi dallo straordinario (com’è nel loro diritto), su cui si regge il 40% del servizio. La cosa di per sé sarebbe rivelatoria dello stato in cui versa l’azienda e le condizioni in cui lavorano i suoi dipendenti, senza i cui sacrifici quotidiani questo livello di disagi sarebbe la norma, ma viene coperta da una campagna stampa di pesante criminalizzazione amplificata dal sindaco Marino che, insieme al prefetto Gabrielli, subito annuncia misure repressive contro quello che viene definito uno “sciopero bianco”. Marino arriva addirittura a minacciare che se le cose non cambieranno e non si troverà un accordo con i lavoratori, l’azienda potrebbe essere privatizzata. Prepara così il terreno per l’accordo capestro che azienda e sindacati confederali firmano il 17 Luglio, con questi ultimi che accettano su tutta la linea quanto richiesto dall’azienda: aumento degli orari di lavoro, erogazione del salario accessorio vincolata a criteri di produttività, tagli ad una serie di indennità. I sindacati di base e autonomi subito si schierano contro, ed alcuni avviano le procedure di raffreddamento e annunciano scioperi. Anche gli stessi firmatari dell’accordo, CGIL in primis, approvano l’idea di passare per il parere dei lavoratori attraverso un referendum apposito proposto dal sindacato autonomo FAISA-CONFAIL. Intanto il Sindaco definisce questo un momento storico e si augura che terminino quindi le proteste e i conseguenti disagi. Sembra così segnato il passo verso la ristrutturazione aziendale che secondo Marino dovrebbe rilanciare l’azienda.
Poi però arriva una svolta improvvisa. Mentre le proteste continuano (d’altronde come aspettarsi il contrario), il Sindaco fa un annuncio shock: dopo aver ottenuto la promessa dell’agognata ricapitalizzazione dell’azienda grazie ai soldi della Regione (in debito verso l’azienda da anni), promette di cancellare il CDA, chiede le dimissioni dell’assessore ai trasporti, un nuovo piano industriale e apre a partner privati. Quella stessa dirigenza e quello stesso piano industriale che erano stati plauditi per aver voluto, e forse ottenuto, l’abbattimento del costo del lavoro, vengono sconfessati di punto in bianco. La minaccia della privatizzazione si fa ancor più concreta, nonostante fosse stata invocata proprio per ottenere quello che effettivamente sembrava ormai essersi ottenuto.
Privatizzazione e taglio del costo del lavoro, queste le direttrici che secondo il sindaco dovrebbero portare alla soluzione della crisi del trasporto pubblico romano. Più che una soluzione, questa è però una punizione. Una punizione che serve a risolvere un’altra crisi, quella della classe dirigente capitolina e degli interessi che rappresenta, profondamente delegittimata dai recenti scandali e nel mezzo di un turbine finanziario senza precedenti. Tentiamo di capire perché.
TRA CRISI FINANZIARIA E SCANDALI POLITICI
Cominciamo con un dato che già la dice lunga: ATAC quest’anno non è ancora riuscita ad approvare il bilancio (cosa che di norma avviene verso Aprile). Data l’erosione del patrimonio netto, il rischio sarebbe infatti la bancarotta dell’azienda. Secondo gli stralci del report gestionale citato dai giornali i problemi sarebbero dovuti ai minori ricavi della bigliettazione, delle multe, dei parcometri, ma soprattutto del mancato rinnovo del contratto di servizio e ai minori chilometri percorsi (il contratto con il comune prevede infatti dei finanziamenti proporzionali al servizio reso, misurato in chilometri) principalmente per via dei guasti dei mezzi stravecchi. La crisi dell’azienda insomma è grave, e in realtà lo si capisce ancora di più leggendosi i bilanci approvati negli anni precedenti. Giusto l’altr’anno l’azienda segnalava come tra le principali criticità ci fossero: la svalutazione dei crediti vantati nei confronti del Comune, gli inadempimenti della Regione nel versare 400 mln all’ATAC (per cui è in essere un contenzioso legale), le difficoltà di valorizzazione degli immobili che l’azienda è intenzionata a svendere per battere cassa e soprattutto la diminuzione degli introiti dovuti alla mancata percorrenza dei chilometri previsti. A sua volta questo sarebbe dovuto principalmente alle difficoltà di pagare i fornitori del materiale essenziale per la circolazione dei mezzi, alla diminuzione del personale di 120 unità(!), e, aggiungiamo noi, forse al fatto che al 2013 l’età media dei mezzi di trasporto è catastroficamente alta (30 anni per i treni e i tram, quasi 10 per gli autobus) e quindi i guasti sono quotidiani.
Ma ci sono cause ancor più strutturali: come abbiamo già documentato un anno e mezzo fa nella nostra inchiesta, nella crisi dell’azienda si possono trovare alcune di quelle tendenze che sono state acuite dalla crisi economica globale degli ultimi anni. I tagli dei finanziamenti statali al servizio di trasporto pubblico, complici i vincoli sempre più stretti del patto di stabilità, che rendono più difficili manovre che potrebbero aiutare a rinnovare la rete ed i mezzi e così contenere costi e garantire un servizio migliore; le tensioni creditizie delle banche; le difficoltà di vendere il patrimonio immobiliare per via del mercato del mattone in crisi; addirittura gli azzardi speculativi dell’ATAC stessa che ha perso fino a 28 milioni di euro per via di un derivato, uno strumento finanziario a cui, d’altronde, gli enti locali hanno fatto ricorso spesso negli ultimi anni nel tentativo di nascondere buchi di bilancio che poi finivano in realtà per allargare. Il tutto nel quadro di una crisi del bilancio comunale che ha avuto una drammatica accelerazione nell’ultimo anno, una crisi profondamente intrecciata a quella di un’azienda che dipende dal comune e che grava sulle sue finanze (come testimoniato, ad esempio, dal simultaneo declassamento da A a BBB+ del rating dell’ATAC e di Roma Capitale da parte dell’agenzia Standard&Poor’s nel 2012).
In questa situazione, conformemente a quanto succede in tanti altri ambiti della nostra vita pubblica, la politica ha deciso di abdicare e ritirarsi. Dietro la scusa dei vincoli e delle richieste europee, impotente di fronte allo strapotere della finanza, non intenzionata a dar voce agli interessi del popolo che pretende di rappresentare, ha fatto l’unica cosa che gli riesce molto bene: saccheggiare il più possibile, elargire favori costruendo piccole reti clientelari, accontentare i potenti (privati) di turno. Si sono così susseguiti una serie di scandali: da quello di “Parentopoli”, che travolse la giunta Alemanno accusata di aver inserito parenti e amici, per lo più vecchi fascisti, tra i quadri amministrativi dell’azienda (non di certo a fare gli autisti!); a quello, ancor più grave ed incredibile, dei biglietti clonati, che secondo le stime di La Repubblica, avrebbe sottratto circa un quarto dei proventi dei titoli di viaggio, a beneficio di fondi intestati ai partiti; di recente, infine, alcune indiscrezioni lascerebbero intendere l’infiltrazione della banda Buzzi e Carminati nella gestione di alcuni appalti… d’altronde le intricate trame di appalti e subappalti dei servizi esternalizzati di ATAC offrono ampi spazi di manovra in cui possono inserirsi gli appetiti più spietati. In tutto questo i manager guadagnano stipendi stellari, pari a quelli di un migliaio di operai (clamoroso il caso della buona uscita dell’AD Antonio Cassano del valore di 1,2 mln di Euro!).
Di fronte all’acuirsi della crisi, davanti alla scadenza dell’ennesima proroga del contratto di servizio e alla necessità di prendere decisioni velocemente, l’azienda pensa quindi di colpire laddove gli è più facile,conformemente a quanto previsto dall’ultimo piano industriale (il terzo in 6 anni!): tagliare il costo del lavoro, aumentando la produttività ed estendendo l’orario di lavoro a parità di salario. Ancora una volta il prezzo del debito e di una crisi frutto della speculazione selvaggia di padroni e banchieri dovrebbe andare sul conto dei lavoratori a cui vengono imposti ulteriori sacrifici.
LAVORARE TANTO E IN POCHI
Chiaramente per coprire una manovra di questo genere serve una retorica adeguata, qualcosa che dirotti la rabbia di tutti gli utenti che subiscono i disagi strutturali del servizio e quelli straordinari legati alle proteste contro gli stessi lavoratori protagonisti. E così i dipendenti ATAC si sono ritrovati d’improvviso ad essere dei “privilegiati”, dei nullafacenti, dei raccomandati. In sostanza degli irresponsabili fannulloni che si rifiutano di lavorare quanto “si dovrebbe”, di farsi controllare attraverso il badge, e per questo mettono in ginocchio la città. A dimostrarlo sarebbero l’ammontare delle ore lavorate dagli autoferrotranviari romani, le famigerate 726 ore annue, ben inferiori a quelle dei colleghi delle altre città d’Italia, citate dall’azienda e rimbalzate a gran voce negli organi di stampa. Peccato che non si sappia proprio da dove escano fuori questi dati. Come ci racconta un macchinista della linea Roma-Giardinetti, membro della FAISA-CONFAIL, l’azienda non si è degnata di spiegare la base di questi numeri, mentre alcuni calcoli molto semplici racconterebbero una realtà ben diversa: prendendo ad esempio proprio questa linea, considerando anche solo le 4 ore effettive alla guida (questo è il limite massimo previsto dalle norme di sicurezza nazionali ed europee) delle 6h e 10 min di servizio giornaliero e moltiplicandolo per i 278 giorni di servizio annui si arriva a 1112 ore! E tutto questo senza considerare l’enorme quantità di straordinario svolto da ogni dipendente che raggiunge mediamente le 30 ore settimanali! Perché l’azienda è strutturalmente in carenza di organico e i buchi nei turni delle corse di treni e autobus vengono riempiti con il ricorso a tantissime ore di straordinario, o negando giorni di ferie, come dimostrano gli arretrati accumulati dalla maggior parte dei dipendenti! Come scrive un’autista in un bell’articolo su La Città Futura: da “ormai un quindicennio” non ci sono assunzioni che rimpiazzino “gli autisti, i macchinisti e i meccanici che andavano in pensione trasformando una parte delle relative ore di lavoro in straordinari e rinunciando alla restante parte. Anno dopo anno, le ore di lavoro straordinario sono perciò aumentate fino a coprire ormai il 30% del servizio […] In Atac, invece, s’è dilatata a dismisura la parte straordinaria del servizio approfittando dello stato di bisogno creato assumendo con paghe più basse. Ciò nonostante, anche se spinti a farli per recuperare salario, i lavoratori non riescono a coprire gli straordinari tutti i giorni, così il suddetto 30% di servizio non arriva mai a essere effettivamente 30%”.
Questo invece ci diceva una macchinista della linea Roma-Lido rappresentante dell’Or.SA. nell’intervista che raccogliemmo un anno e mezzo fa: “Effettuo circa trenta ore settimanali a straordinario e trentasei ordinarie. Il che ammonta a circa 120 ore mensili. La legge stabilisce 120 ore annuali massime. […] Il ritmo degli straordinari viene ‘accelerato’ dall’ufficio turni nella speranza di coprire sempre il servizio, ma ogni lavoratore lo ridimensiona in base alle proprie esigenze. C’è comunque una pressione continua. In alcuni periodi sono stati concessi tre turni quotidiani, che nominalmente ammonterebbero a circa 18 ore. […] Le pause, generalmente, sono di 8 minuti a corsa, nelle quali di volta in volta si fanno rientrare le esigenze fisiologiche, la chiacchiera col collega, l’espletamento di pratiche burocratiche, il panino del pranzo.” Riprendiamo queste parole perché sono un caso tutt’altro che isolato e spiegano molto meglio di quanto non potremmo fare noi il modo in cui l’ATAC è andata avanti: basta andare a guardare le tabelle dei turni delle corse e vedere tutti quelli non coperti, o semplicemente parlare con i dipendenti e sentire l’esperienza quotidiana dei diretti interessati per rendersene conto. Qualcosa di molto semplice, che però i giornalisti e la stampa hanno smesso di fare da tempo, nonostante i mezzi che avrebbero a disposizione.
Così, in sostanza, la manovra dell’azienda non è quella di risolvere i problemi che affliggono migliaia di pendolari ogni giorno, quelli dei mezzi fatiscenti, delle corse che saltano, degli orari non rispettati. L’unica cosa che ha in mente l’azienda è risparmiare sul costo del lavoro per tappare i propri buchi! Quello che accadrebbe con l’accordo del 17 Luglio sarebbe semplicemente l’estensione dell’orario di lavoro ordinario senza variazione dello stipendio, che rende così norma parte dello straordinario su cui si basa il servizio e porta quindi a una drastica diminuzione del salario-orario.
A questo si aggiungerebbe un’ulteriore decurtazione dello stipendio dovuta al taglio del cosiddetto salario “accessorio”, che verrebbe vincolato a criteri di “produttività”. Si tratta di una strategia che molti dipendenti pubblici romani (e non solo) conoscono bene e su cui si sono concentrate le lotte dell’ultimo anno e mezzo dei lavoratori comunali (amministrativi, maestre d’asilo, vigili). Nella sostanza rappresenta l’introduzione mascherata del cottimo: dopo aver definito “accessoria” una parte dello stipendio necessario ad arrivare a fine mese, si pretende che questa non venga erogata se non sulla base di fumosi criteri di “merito” che si traducono semplicemente nell’aumento dei carichi di lavoro e nel controllo sempre più tirannico dei propri superiori in un clima di divisione e concorrenza tra lavoratori. Nel caso di ATAC, con l’accordo del 17 Luglio, si vincola l’erogazione di una quota essenziale del salario – è improprio infatti definire “accessori” 300-400 euro per uno stipendio medio di 1500 ! – alla percentuale di assenze, per cui, superata una certa soglia annuale, ci si vedrebbe privati del tutto di essa. Il fatto è che, tra gli altri, come assenza verranno conteggiati i giorni di malattia o di ricorso alla legge 104 di assistenza ai familiari malati! E si tratta di istituti a cui i lavoratori sono costretti a ricorrere ancor più spesso in un’azienda in cui le ferie vengono costantemente negate. Secondo le parole della lavoratrice “Abbiamo tutti un numero giorni ferie accumulato molto alto, poiché le richieste faticavano ad essere esaudite nei consueti periodi festivi e natalizi. Attualmente si fa fatica anche a ottenere un giorno feriale qualunque. Questa situazione crea inevitabilmente un’impennata di malattie, congedi parentali e 104, le uniche giornate che, non dipendendo dall’azienda, non possono essere rifiutate. Lavoriamo con l’assillo costante a lavorare di più.”
Questi dunque gli insopportabili privilegi contro cui si sta scagliando la rabbia di migliaia di pendolari romani stanchi e inferociti, ben aizzati da chi vuole approfittare di tutto questo.
LA RITIRATA DELLA POLITICA
Perché di questo fumo negli occhi sta approfittando innanzitutto la classe politica capitolina, in grado di scaricarsi di dosso molte delle pressioni dell’opinione pubblica e del Governo che a seguito degli scandali di “Mafia Capitale” si stanno facendo sempre più insostenibili. Pressioni che rischiano di fare esplodere una giunta che è costretta a fare i salti mortali per bilanciare i conti capitolini e implementare il piano di rientro del gigantesco debito comunale, piano imposto dal governo con il famigerato “Salva Roma”. Lo testimoniano da ultimo le recentissime dimissioni dell’assessore al Bilancio Silvia Scozzese, arrivate a solo un anno di distanza da quelle rassegnate dal suo predecessore e che dimostrano proprio le resistenze e le difficoltà della continua opera di tagli alla spesa pubblica. D’altronde solo per ATAC si parla di ridurre le spese strutturali dell’11% in tre anni, portandole da 600 a 530 mln di euro. Difficile che le previste “razionalizzazioni” della rete di trasporti non comportino ulteriori aggravi e difficoltà per chi a Roma si sposta con i mezzi pubblici, come dimostrano i tagli avvenuti nell’ultimo anno di molte linee periferiche. Tagli che hanno avuto subito un riflesso nella percezione dell’accessibilità del servizio, come sottolineato dall’indagine dell’Agenzia romana di monitoraggio dei servizi pubblici locali che nella sua “Ottava indagine sulla qualità della vita e dei servizi pubblici locali nella città di Roma”, uscita giusto qualche settimana fa, rileva come “per la prima volta quest’anno in misura così significativa” il problema riguardi “il trasporto di superficie, la cui rete è stata recentemente modificata”. Dirottando l’attenzione dai problemi strutturali al comportamento dei lavoratori, un sindaco sedicente di sinistra ha dato in pasto un facile capro espiatorio alle frustrazioni di utenti sempre più stremati dalle ore di vita perse nei viaggi dalla propria casa al proprio luogo di lavoro (e verso qualunque altro posto) in una città grande, invasa dal traffico e dal turismo di massa. La politica così ha assecondato e fomentato l’odio e la rabbia tra chi si trova in condizioni simili e rinunciato ad affrontare i problemi alla radice.
Ha fatto però anche qualcosa in più: spianato la strada all’intervento di chi è subito pronto a trasformare la crisi dell’economia pubblica nel proprio vantaggio privato. Perché dopo aver sbandierato la minaccia di privatizzazioni per piegare la volontà dei lavoratori, ad accordo ormai raggiunto, il Sindaco, come abbiamo visto, ha deciso comunque di procedere in questa direzione. In sostanza l’impennata di caos e disagi a cui ha portato l’esacerbarsi dei rapporti con i dipendenti e la riorganizzazione irrazionale dei turni ha creato l’emergenza necessaria a giustificare questo colpo di mano. Un colpo di mano che annulla i risultati del famoso referendum che nel 2011 si oppose alla privatizzazione dell’acqua pubblica e di altri servizi come i trasporti, che accelera dei processi già in corso (per via di una direttiva europea nel 2019 ad ATAC comunque non potrebbe essere affidato direttamente il servizio) e non risolverà niente, ma che almeno permette di tamponare qualche buco e sul lungo andare deresponsabilizza la politica dalla gestione dei servizi pubblici. Diciamo che non risolverà niente perché abbiamo già visto tutti i risultati dell’affidamento a privati dei servizi romani; ma anche perché parte del trasporto romano (quasi il 20%!) è già in mano ai privati, attraverso l’appalto che l’ATAC affida alla Roma TPL, che a sua volta subappalta ad una serie di piccole aziende e consorzi. I risultati delle linee gestite privatamente sono altrettanto scarsi (o ancor peggiori) delle altre, mentre le condizioni di lavoro ne risentono pesantemente: gli autisti risultano di gran lunga discriminati rispetto al trattamento dei loro colleghi di ATAC, percependo, a parità di mansioni e lavoro, una retribuzione inferiore anche del 20%, che spesso arriva in ritardo o non arriva neanche. Le aziende che, per conto della società consortile, esplicano materialmente il servizio, “ritengono” di non essere obbligate a garantire ai propri dipendenti i trattamenti economici e normativi non solo vigenti per la categoria in generale, ma nella stessa società consortile, situazione più voltedenunciata dall’USB. Queste le parole di un lavoratore USB di Roma TPL a proposito delle condizioni di lavoro a cui sono sottoposti: “loro parlano di libero mercato, io la considero semplicemente una concorrenza sleale: una media di 200-300€ in meno in busta paga, turni giornalieri di 11-12 ore che vanno ben oltre il contratto nazionale, non vengono riconosciuti i 10 minuti accessori per controllare la vettura previsti dal CCNL”. Condizioni di lavoro verso cui l’ATAC, con i recenti accordi, sembra incamminarsi.
Cosa si spera di ottenere veramente privatizzando? Semplicemente di ricapitalizzare l’azienda per ripagare il debito alle banche creditrici, per poi continuare tutto come prima senza doversi preoccupare più né delle relazioni sindacali né di prendersi la responsabilità per il servizio reso. Un servizio che continueranno a pagare le casse pubbliche, dato che le entrate dovute alla vendita dei biglietti ammontano a circa il 25% del totale, una quota nettamente minoritaria (che rimarrebbe tale anche recuperando interamente l’evasione, che si stima di circa il 20% al massimo su questa stessa quota) e che non potrà mai rimpiazzare i finanziamenti pubblici se non demolendo del tutto il servizio. Quindi soldi regalati a nuovi padroni privati senza ottenere in cambio alcun beneficio. D’altronde la stessaConfindustria, in uno studio del 2000 che valutava i risultati dell’ondata di privatizzazione degli anni ’90, notava come “gli obiettivi di efficienza sono stati raggiunti in misura inadeguata” e che spesso privatizzare con l’esigenza di “fare cassa” non abbia comportato altro che la sostituzione di un monopolio pubblico con uno privato, “conducendo a scelte non ottimali dal punto di vista dell’efficienza e del benessere collettivo”.
Questo il progetto di una giunta ormai allo sbando.
NOI NON SIAMO IN DEBITO
Ricapitoliamo brevemente: Roma e la sua azienda dei trasporti, l’ATAC, sono in crisi, rovinate da un debito mostruoso. Le radici sono le solite: tagli ai servizi e alla spesa pubblica, dirigenti che fanno i propri interessi, privati a cui vengono regalati appalti d’oro, ruberie e clientele politiche. Tutto in un quadro di una crisi economica globale che hanno prodotto banche e padroni e che ormai da anni con austerità e sacrifici stanno pagando i lavoratori di tutta l’Europa e del Mondo. Di punto in bianco l’ATAC decide, come d’altronde il comune sta provando a fare con i suoi dipendenti diretti, di annullare tutta la contrattazione di secondo livello conquistata dai suoi lavoratori in 40 anni di battaglie sindacali. Aumento degli orari di lavoro, tagli dell’indennità, decurtazione dello stipendio per quasi il 30%! E’ ancora una volta chiaro l’intento di far pagare la crisi ai lavoratori, i quali, però, per opporsi a tutto questo decidono di astenersi dagli straordinari e di rispettare alla lettera le norme di sicurezza. Ne seguono grandi disagi che dimostrano i sacrifici fatti finora dai lavoratori stessi e che vengono amplificati della riorganizzazione irrazionale dei turni implementata ancora solo a metà dall’azienda (che si è rivelata essere alla base del tanto vituperato disagio di Aprile). Questi disagi provocano un’ondata di violenza esasperata diretta verso i lavoratori da parte di utenti che si sfogano contro il bersaglio più identificabile e a portata di mano e che si bevono la versione propagandata da stampa ed istituzioni secondo cui i dipendenti ATAC sarebbero solo dei fannulloni che difendono i propri privilegi. Nel frattempo Sindaco, Prefetto e azienda procedono con le misure repressive: impediscono ai lavoratori di scioperare precettando lo sciopero del 27 Luglio,sospendono dal servizio alcuni di loro, avviano delle indagini interne con cui smascherare i “sabotaggi” dei macchinisti.
Noi non sappiamo se queste riveleranno degli “eccessi” da parte di chi in questi giorni ha lottato per salvaguardare condizioni di lavoro dignitose. Eccessi che sicuramente, nel caso siano avvenuti, sono stati pagati in primis da tutti quei lavoratori che ogni giorno usano i mezzi pubblici per spostarsi. Abbiamo però capito e mostrato le condizioni che hanno portato a ricorrere a gesti eventualmente estremi, complice anche l’impossibilità di usufruire di strumenti legali come lo sciopero, negato attraverso il ricorso alla precettazione. Importante è allora rispedire al mittente, all’azienda e alle istituzioni, le accuse che vorrebbero i lavoratori colpevoli dei disagi che come utenti abbiamo subito in questo ultimo periodo e che in realtà subiamo ogni giorno da vent’anni (“sciopero bianco” o meno!). Se veramente vogliono che termini la protesta, se veramente vogliono che sia garantito il nostro “diritto alla mobilità”, allora assicurino delle giuste condizioni di lavoro e di salario ai propri dipendenti!
Se una parte dei lavoratori ATAC ha una qualche responsabilità, è forse quella di aver assistito troppo a lungo inerti al saccheggio della propria azienda, di aver sperato che coltivando i propri piccoli interessi e contando magari su qualche appoggio politico o sindacale si potesse tirare avanti senza troppi problemi.Supportare oggi la loro resistenza, la lotta dei loro elementi migliori e sicuramente maggioritari, significa allora contrastare proprio ciò che costringe a barattare la propria dignità e il proprio silenzio per un’assunzione, per un permesso, per qualcosa in più in busta paga. Perché potremmo perderci in discussioni infinite sul fatto che anche gli utenti sono rimasti muti davanti all’aumento del costo dei biglietti, al taglio di diverse linee, ad un comune coinvolto in un giro d’affari mafioso, ma queste accuse reciproche non ci farebbero andare avanti né risolvere i nostri problemi. Più utile è invece identificare responsabili reali e comuni dei disagi che siamo costretti a vivere come utenti o come lavoratori e combattere insieme contro di essi. Per cominciare bisogna innanzitutto rompere l’isolamento di chi prova a resistere. Perché i motivi per continuare a cedere, per arrendersi e continuare tutto come prima sono ancora lì: i ricatti quotidiani, le piccole illusioni e tentazioni sono presenti in tutta la loro prepotenza e soltanto lottando uniti si può riuscire a ridimensionarli e rispedirli al mittente.
Nel nostro interesse è fare in modo che questa lotta diventi la lotta per nuovi investimenti, per nuove assunzioni, per un trasporto pubblico gratuito e di qualità, contro finte soluzioni che servono solo agli affari di privati arraffoni. Sapendo che non è facile, che i problemi sono tantissimi, strutturali. Come il fatto che Roma è una città in cui la speculazione edilizia ha costruito per più di un secolo tanti ed enormi quartieri mal collegati tra loro; che la maggioranza di chi si riversa per lavorare in città viene dalla periferia in cui è stato relegato per via del costo esorbitante degli affitti; che la crisi delle aziende municipalizzate non nasce ieri, come non nasce ieri quella dei bilanci degli enti locali; che il settore pubblico molto spesso ha rappresentato una forma distorta e clientelare di ammortizzatore sociale, in cui diritti diventavano privilegi, meritandosi il carico di odio e risentimento di tutti quelli che ne sono stati esclusi. Questo però significa soltanto che non ci si può fermare qua, che bisogna allargare il fronte, che si deve essere compatti e determinati ma al contempo capaci di far capire le proprie ragioni, di guadagnarsi il consenso di quella grande maggioranza che è nelle stesse condizioni e a cui viene dato in pasto un facile bersaglio per le proprie frustrazioni. Iniziando con il supportare la resistenza di chi, tra mille ritardi ed errori, ha il merito di aver dimostrato che esiste un limite oltre il quale non si è disposti a sacrificarsi, oltre il quale si smette di sentirsi privilegiati per il semplice fatto di avere un lavoro e di riuscire ad arrivare a fine mese. Per arrivare quindi ad invertire quella tendenza che ha fatto sì che quel settore pubblico che cola a picco sotto la scure dei tagli, del debito, della crisi, – quel settore che viene invocato solo quando si tratta di salvare i grandi interessi privati! –, rimanga monopolio di chi saccheggia quel poco che resta prima che esso affondi definitivamente. Di chi – compresi molti sindacati, confederali in primis – lo usa per costruire dei piccoli feudi in cui cooptare quelli che semplicemente reclamano ciò che dovrebbe spettargli di diritto. Non manca il materiale umano per farlo, consiste proprio in molti di questi lavoratori protagonisti da sempre, e in questi giorni ancor di più, di piccoli gesti di verità e di coraggio. Come quello del video dell’autista Christian Rosso che, stanco di dover scegliere tra l’essere linciato per colpe che non si hanno o venire licenziati per averlo denunciato, ha preso parola pubblicamente, con semplicità e chiarezza, per far capire le proprie ragioni nonostante i rischi di ritorsione da parte dell’azienda.
Bisogna iniziare da subito perché la posta in gioco è alta: lo dimostra l’accanimento della stampa padronale, che, come nel caso de Il Sole 24 Ore, ha fatto della lotta dei dipendenti di ATAC l’emblema di quello che in Italia non funzionerebbe. Per loro le “logiche di parte”, di “fazione” sarebbero quelle di chi reclama e lotta per i propri diritti, e le soluzioni proposte sono ad esempio quelle appena rilanciate da Sacconi ed Ichino che, partendo proprio dal caso dei trasporti, immaginano delle forme per la limitazione del diritto di sciopero. La loro retorica è tutta tesa ad alimentare quella stessa guerra tra poveri di cui sono riusciti ad approfittare, gonfiandola ad arte, nel caso dei lavoratori ATAC. Sognano un mondo in cui i lavoratori si scannino a vicenda con la scusa della “concorrenza”, in cui chi è totalmente privo di diritti ed in balia della peggiore precarietà (da loro stessi creata) se la prenda con chi ha ancora garantita qualche tutela, spacciata impropriamente per privilegio. Questo perché i loro profitti crescano e i veri privilegi rimangano intoccabili.
La posta in gioco è quindi quella su chi deve sobbarcarsi i costi di questa crisi, se dobbiamo essere noi a pagare un debito che non abbiamo creato. Noi sappiamo di aver già dato, pure troppo, non siamo noi ad essere in debito. Come abbiamo documentato spesso nell’ultimo anno e mezzo (partendo proprio dagli autoferrotranviari!), molti lavoratori romani hanno cominciato ad affermare questa verità nei fatti. La lotta dei dipendenti ATAC è un altro tassello in questo quadro.
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